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G. Giappichelli Editore

21/05/2025 - Il reato di falso in attestazioni e relazioni nel passaggio al codice della crisi: la posizione della Suprema Corte

argomento: Sanzioni e contenzioso - Giurisprudenza

La Suprema Corte, con una sentenza senza precedenti e rimasta fin qui isolata, nega ogni effetto abrogativo dell’art. 236 bis L. fall. ad opera dell’art. 342 del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza (CCII) in tema di delitto di false attestazioni e relazioni. Per i giudici di nomofilachia non vi è soluzione di continuità tra le due norme, e così il nuovo art. 342 CCII non ha determinato effetti abrogativi parziali rispetto alla corrispondente figura di cui all' art. 236 bis L. fall., con riferimento al giudizio di “fattibilità economica” considerato che lo stesso art. 236 bis L. fall. già valorizzasse, non la valutazione prognostica del professionista relativa alla “fattibilità economica” del piano, bensì solo la correttezza dei metodi e dei criteri valutativi impiegati.

» visualizza: il documento (Corte di Cass. Pen., sent., 13 febbraio 2024, n. 13016) scarica file

PAROLE CHIAVE: falso in attestazioni - veridicità dei dati aziendali - fattibilità economica - attestatore


di Fabrizio Virdis

1. La sentenza in commento coinvolge un professionista attestatore che, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo ex 161 L. fall., aveva esposto un rilevante apporto di finanza esterna (pari a un quinto del totale dell’attivo concordatario) nella propria relazione di attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano, senza che avesse preventivamente avviato alcuna appropriata verifica su tali precipui aspetti.

In prima istanza, il Giudice per l’udienza preliminare aveva ravvisato in capo al professionista il delitto di falso in attestazioni e relazioni ex art. 236 L. fall. in concorso con l’amministratore unico e liquidatore della società sottoposta a procedura di concordato preventivo, avendo evidenziato nel piano un apporto finanziario di Euro 200.000,00, asseritamente proveniente dalla madre dell’imprenditore, in realtà mai effettivamente apportato.

In particolare, secondo il GUP il professionista si sarebbe limitato a inserire l’apporto di finanza esterna nello schema riepilogativo del Piano concordatario senza ulteriori valutazioni, omettendo ogni commento critico idoneo a suffragare l'attendibilità e fattibilità dell'apporto anche in considerazione della provenienza da parte di un prossimo congiunto.

Successivamente alla riforma della sentenza di primo grado ed alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione e conferma per le statuizioni civili da parte della Corte di Appello di Torino, il professionista proponeva ricorso in Cassazione avverso la sentenza deducendo, con unico motivo, i vizi di motivazione, di erronea applicazione della legge penale e delle norme processuali, con riferimento all’art. 342 del D.Lgs. n. 14/2019 e all’art. 2 c.p.

Difatti, il ricorrente lamentava che l’art. 236 L. fall. sarebbe stato oggetto di modifica ad opera del Codice della Crisi e dell’Insolvenza (CCII), che poneva l’art. 342 in un rapporto di specialità rispetto alla precedente norma fallimentare.

Nella prospettazione difensiva, infatti, l’inserimento della locuzione “in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano e nei documenti allegati” avrebbe circoscritto l’operatività della norma penale alle sole fattispecie di omissioni e falsità che avrebbero riguardato esclusivamente il giudizio di veridicità dei dati e non anche quello di fattibilità del piano. Conseguentemente all’asserita parziale abrogazione dell’art. 236 L. fall. ad opera del D.Lgs. n. 14/2019, la condotta del professionista attestatore non sarebbe stata più rilevante dal punto di vista penale, essendo afferente non tanto al giudizio di veridicità in sé, quanto a quello di fattibilità del piano concordatario.

Attraverso una compiuta disamina del rapporto tra la vecchia normativa e quella più recente introdotta con il CCII, la Suprema Corte chiarisce che la riforma in materia fallimentare non ha escluso la punibilità delle omissioni riguardanti la veridicità dei dati economico-finanziari rilevanti. In altre parole, la S.C. ha escluso il rapporto di specialità con la precedente norma penale-fallimentare negando che la novella potesse comportare l’abrogazione della rilevanza penale delle condotte omissive circa la valutazione di fattibilità del piano, allorché la stessa sia suffragata da una base dati concreta e verificabile. In realtà, affermano i giudici di nomofilachia, la rilevanza penale delle omissioni in tema di fattibilità del piano, già con l’art. 236 L. fall., non riguardava il giudizio prognostico formulato dall’attestatore, bensì i dati assunti come base di riferimento ai fini dell’attestazione del piano.

Nel rigettare il ricorso, in conclusione, la S.C. evidenzia che l’omessa informazione con riferimento all’apporto di finanza esterna riguardava proprio la veridicità di un dato aziendale, l’apporto esterno, peraltro decisivo ai fini dell’attestazione.

 

2. Nell’esaminare la sentenza in commento occorre, innanzitutto, premettere che la figura dell’attestatore, nella accezione rinvenibile nel contesto delle procedure c.d. negoziali (si fa riferimento ai piani attestati di risanamento ex art. 67 L. fall., al concordato preventivo ex art. 161, agli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis commi 1 e 5 e al concordato in continuità ex art. 182 bis comma 2), rappresenta un ruolo di garanzia in ordine alla tutela degli interessi patrimoniali dei creditori, essendo ad esso demandato il compito di valutare ed attestare la concreta idoneità del piano proposto dal debitore a salvaguardare la continuità aziendale e favorire il risanamento dell’impresa, nonché garantire il migliore soddisfacimento del ceto creditorio rispetto all’ipotesi liquidatoria.

Una chiara definizione dei requisiti di professionalità e, soprattutto, di indipendenza del professionista attestatore, si è avuta con il D.L. n. 83/2012 con la finalità di precisare l’attributo dell’indipendenza rispetto al debitore e ai creditori, anche in funzione dei profili penalistici correlati alle procedure concorsuali.

Così, l’art. 67 co. 3 lett. d) definiva come indipendente il professionista che non fosse “legato all'impresa e a coloro che hanno interesse all'operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l'indipendenza di giudizio”, definizione dall’evidente impatto non solo nei rapporti con il debitore, ma anche con i creditori, intesi quali soggetti concretamente interessati all’operazione di risanamento (per una più ampia trattazione vedasi BENEDETTO, Crisi di impresa: requisiti di professionalità e indipendenza del professionista attestatore, in Pratica Fiscale e Professionale, 2013, 15, pp. 25-30).

Oltre al requisito appena esposto, la norma poneva come ulteriori requisiti il possesso dei requisiti ex art. 2399 c.c., nonché l’assenza di rapporti di lavoro subordinato o autonomo con il debitore e neppure aver partecipato agli organi di amministrazione o di controllo dell’impresa interessata.

D’altra parte, l’art. 236 L. fall. contribuì a tipizzare le ipotesi di reato di falsità nelle relazioni del professionista attestatore con riferimento alla veridicità dei dati aziendali, in tutti quei casi nei quali lo stesso non avesse assicurato un’adeguata valutazione del substrato informativo dei dati sui quali si fonda il piano di risanamento proposto dal debitore.

Con riferimento all’elemento soggettivo del falso in attestazioni, la condotta  è riconducibile nel perimetro del dolo generico, di tal che la configurabilità del reato discende dalla mera consapevolezza della difformità tra il vero e quanto esposto (generalmente corroborata, a priori, da un difetto del requisito di indipendenza testé esaminato) da parte dell’attestatore relativamente alla falsità dei presupposti alla base del piano, nonché della documentazione fornita dal management (che, inevitabilmente, costituisce la base informativa del piano e dell’attestazione di veridicità, oltreché, in residua parte, del giudizio di fattibilità).

In quest’ottica, ai fini dell’apprezzabilità della fattispecie delittuosa in esame, la dottrina consolidata ha individuato “segnali d’allerta” circa la sussistenza dell’eventuale dolo generico in capo all’attestatore (tali segnali, come puntualmente riportato da DIANA, Il delitto di falso in attestazioni e relazioni, in Bilancio e Revisione, 2023, 1, pp. 37-44, devono essere specifici, inequivoci e conosciuti).

Dall’esame del caso di specie, l’emersione della fattispecie delittuosa non si basa tanto sulla consapevolezza della falsità degli elementi informativi forniti dal management, quanto su un vero e proprio difetto di informazione. Viene meno, in sostanza, l’imprescindibile requisito valutativo, idoneo a suffragare e sostenere una attestazione circa la sostenibilità del piano.

In particolare, come chiarito dai Principi di attestazione dei piani di risanamento redatti dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti contabili, in presenza di fattispecie complesse e non univoche (quale ad esempio un apporto di finanza esterna) l’attestatore, anche al fine di circoscrivere il rischio, dovrà procedere ad una “puntuale descrizione mettendo in luce i profili di incertezza in modo chiaro ed esaustivo”.

 

3. Con riferimento all’elemento oggettivo del reato di falso in attestazioni e relazioni, occorre specificare che, nella sua prima formulazione a partire dall’introduzione ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, la condotta sanzionabile ai sensi dell’art. 236 bis L. fall. riguardava l’esposizione di informazioni false e l’omessa indicazione di circostanze rilevanti. La portata tanto ampia generava non poche insidie in capo all’organo giudicante nel districarsi tra norme penali dai perimetri applicativi non ben definiti e prassi contabili e valutative tipiche delle attestazioni ex artt. 67, terzo comma, lettera d), 161, terzo comma, 182 bis, 182 quinquies, 182 septiese 186 bis, le quali afferiscono perlopiù a competenze tecniche assai specifiche.

Orbene, una prima difficoltà interpretativa si era delineata con riferimento al significato attribuibile al termine “informazioni”; considerato che l’attestazione è un documento finalizzato a valutare e garantire la veridicità dei dati aziendali e, a seconda dei casi, l’attuabilità (negli accordi di ristrutturazione) o la fattibilità del piano (nel concordato), si propendeva per riportare il corredo informativo al contesto comprensivo dei dati economici, patrimoniali e finanziari.

Invece, per parte della dottrina l’obbligo informativo avrebbe dovuto estendersi anche alle c.d. “informazioni valutative” (sul tema vedasi TETTO, La (ritrovata) indipendenza del professionista attestatore nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, in Il Fallimento, 2013, 6, pp. 657-688).

Al riguardo, è bene chiarire in che termini nella prassi professionale sia assolto il giudizio di veridicità dei dati aziendali e quello di fattibilità economica.

In particolare, secondo i già citati Principi di Attestazione dei Piani di risanamento il concetto di veridicità deve intendersi non in termini di verità oggettiva, quanto di coerenza e adeguatezza del sistema amministrativo-contabile su cui deve basarsi il processo di produzione dell’informazione economico-finanziaria e la correttezza delle stime fornite dall’imprenditore proponente e dall’advisor rispetto alle quali l’attestatore deve assicurare un consapevole grado di attendibilità essendo una valutazione imparziale.

Tale definizione presupponeva (e presuppone tutt’ora) che nel giudizio di veridicità dei dati aziendali risultasse imprescindibile attingere a tutti i dati desumibili dalle scritture contabili del debitore relativi all’andamento economico (laddove i dati reddituali fossero prodromici rispetto alla realizzazione delle ipotesi strategiche alla base del piano), ma soprattutto alla situazione patrimoniale e finanziaria, verificandone altresì i criteri valutativi adottati e le stime poste alla base della proposta da attestare.

Oltre alla rappresentazione “statica” dell’azienda, l’attestazione deve comprendere anche quella c.d. “dinamica”, il cui focus verte sul giudizio prognostico di fattibilità, ove l’alea valutativa assume massima rilevanza.

In quest’ottica, il giudizio in ordine alla veridicità dei dati aziendali risultava essere essenziale e propedeutico atteso che la verifica e la valutazione delle ipotesi strategiche ed economico-finanziarie non poteva prescindere dall’adeguatezza dell’assetto contabile (e quindi dall’attendibilità e dalla veridicità della base dati contabile).

Ne consegue che, nonostante risultasse indubbio che le fattispecie omissive e commissive di cui all’art. 236 bis L. fall. afferissero anche al giudizio di fattibilità, queste dovevano necessariamente riguardare, innanzitutto e prima di ogni altra valutazione, la correttezza del corredo informativo e non anche quello prognostico. Va da sé che, essendo il giudizio di fattibilità sostanzialmente fondato su stime previsionali e scelte gestionali dell’azienda in esecuzione del piano, l’attestatore non avrebbe potuto esprimersi con il medesimo grado di sicurezza invece richiesto rispetto alla componente meramente informativa, afferente, invece, alla consistenza “storica” degli elementi dell’attivo e del passivo.

Con l’avvento del D.Lgs. n. 14/2019 la sanzionabilità penale della condotta è stata riscritta e la prassi professionale si è uniformata alle modifiche intervenute con la recente disciplina (vedasi, a proposito, i nuovi Principi di Attestazione dei piani di risanamento, emanati nel mese di maggio 2024 dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili).

In particolare, nonostante la relazione illustrativa al CCII affermasse la sostanziale sovrapponibilità tra i contenuti dell’art. 342 e quelli dell’art. 236 bis L. fall., le implicazioni penali in capo alla figura dell’Attestatore non sono le medesime.

Invero, già con riferimento all’inserimento dei lessemi “in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano e nei documenti allegati” nella citata novella legislativa, appaiono rilevanti gli effetti sull’incriminabilità di talune condotte riconducibili al giudizio di fattibilità; così, l’espressa delimitazione delle fattispecie omissive e commissive con riferimento alla veridicità dati contenuti nel piano sarebbe idonea ad escludere il giudizio di fattibilità dal perimetro applicativo dell’art. 342 CCII, configurandosi una vera e propria abolitio criminis in relazione alle predette fattispecie (tra tutti, PANTANELLA, Il diritto penale della crisi d’impresa alla prova della sindemia: tra i modelli  di falso e il ritorno allo stellionato, in Cassazione penale, 2021, 6, pp. 2244-2277).

Pertanto, come evidenziato dalla dottrina testé richiamata, essendo il giudizio di fattibilità sostanzialmente basato su canoni di verosimiglianza e di prospettiva, esso costituisce “un vero e proprio enunciato valutativo e, come tale, a differenza dell’opposta categoria degli enunciati descrittivi, non può essere considerato strettamente né falso né vero” (ibidem).

Nel caso di specie, tuttavia, la Suprema Corte si pone in netto contrasto con tale prospettazione, affermando che nella volontà del legislatore delegato vi fosse l’intenzione di escludere qualsiasi intervento abrogativo delle fattispecie penali, conformemente a quanto stabilito dalla legge delega, la quale, all’art. 2, comma 1, lett. a), imponeva di mantenere la “continuità nelle fattispecie criminose”.

In ogni caso, al di là di quanto appena esposto, i giudici di nomofilachia hanno disatteso le doglianze del ricorrente sostenendo che anche se la novella legislativa avesse avuto l’effetto di abrogare parzialmente l’art. 236 bis, l’omessa informazione con riferimento al rilevante apporto di finanza esterna avrebbe integrato la fattispecie di omissione di informazioni rilevanti in relazione a taluni dati aziendali, idonea di per sé a integrare la fattispecie di reato.

 

4. Per concludere, la sentenza in commento costituisce un essenziale precedente in ordine a una fattispecie di reato, quello del falso in attestazioni e relazioni, che, prima con la Legge Fallimentare, poi con il CCII, non ha mai trovato un consolidato riconoscimento nella prassi giurisprudenziale (nel solo ambito della giurisprudenza di merito, oltre alla sent. 18 luglio 2019, Trib. Alessandria, annotata da PONTEPRINO, Falso in attestazioni e relazioni: i labili confini della responsabilità penale del professionista attestatore, in Sistema Penale, 2020, 3, pp. 29-44, che riguarda il caso de quo, risulta reperibile esclusivamente l’ordinanza 16 luglio 2014, G.I.P. Trib. Torino, annotata da GROTTO, False attestazioni del professionista incaricato di redigere la relazione ex art. 161, comma 3, L. Fall., in Cassazione Penale, 2015, 6, pp. 2422-2440).

Nel contempo, si ritiene che, nonostante un paventato eccesso di delega, la novella legislativa introdotta con il D.Lgs. n. 14/2019 fornisca una chiara definizione dell’ambito applicativo del reato di falso in attestazioni e relazioni con riferimento agli elementi oggettivi e soggettivi dello stesso, giustificando l’esclusione del giudizio di fattibilità economica dal perimetro della responsabilità penale dell’Attestatore.

Con riferimento al caso de quo occorre, tuttavia, precisare che in presenza di fattispecie di tale complessità ricadrebbe sull’Attestatore l’onere di valutare l’attendibilità e, soprattutto, l’attuabilità dell’apporto finanziario, nonché il dovere di esporre talune informazioni nell’attestazione (sulla base delle best practices tecnico-professionali) a tutela della pubblica fede e degli interessi patrimoniali dei creditori.

D’altro canto, volendo attenersi al giudizio elaborato dalla Suprema Corte, ciò che non è dato rilevare nella sentenza in commento è, in particolare, la presenza di un rigoroso riscontro dell’elemento soggettivo del reato, atto ad evidenziare inequivocabilmente la cognizione, da parte del professionista attestatore, dell’irragionevolezza di quanto dichiarato dal management.

Ad avviso di chi scrive, la sussunzione delle condotte commissive e omissive nell’alveo applicativo dell’art. 342 CCII dovrebbe essere il risultato di una valutazione fondata sull’emersione di segnali d’allerta specifici, inequivoci e concretamente conosciuti (non meramente conoscibili), idonei a garantire che la rilevanza penale della condotta non sia riconducibile a profili di semplice imprudenza e di colpevolezza da parte dell’agente.

Da ultimo, permangono le incertezze applicative del reato con riferimento ai nuovi strumenti introdotti con il CCII, i quali, sempre in maniera difforme rispetto a quanto stabilito nella legge delega, vengono inseriti nell’ambito applicativo dell’art. 342. Con riferimento, infatti, alle attestazioni di cui all’art. 88, commi 1 e 2 (nel contesto dell’istituto della transazione fiscale), ovvero a quelle rinvenibili negli artt. 90, comma 5 (attestazione del pagamento dei crediti chirografari nell’ambito delle proposte di concordato concorrenti), e 58, commi 1 e 2 (in materia di rinegoziazione degli accordi o modifiche del piano negli accordi di ristrutturazione dei debiti) non risulta chiaro il perimetro applicativo della norma penale, considerato che non vi è continuità con la precedente disciplina ad opera della Legge Fallimentare.

È auspicabile che il confine del penalmente sanzionabile si consolidi in successivi arresti giurisprudenziali che tengano conto della diversa consistenza della valutazione statica (o storica) e dinamica (e autenticamente prognostica e valutativa) della proposta e, specularmente dell’attestazione del professionista, terzo e indipendente.