argomento: Sanzioni e contenzioso - Giurisprudenza
In una recente pronuncia, peraltro resa in forma semplificata in esito all’udienza cautelare, ai sensi dell’art. 47 ter, D.Lgs. n. 546/1992, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. t), D.Lgs. n. 220/2023, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Padova, con sentenza 11 dicembre 2024, n. 462, risolve il caso dell’impugnazione di un diniego di autotutela, optando per l’esercizio del potere sostitutivo da parte del Giudice tributario. L’iter argomentativo della Corte, muovendo dalla qualificazione dell’originaria istanza di autotutela, nell’ambito della categoria dell’obbligatorietà, disciplinata dall’art. 10 quater, L. n. 212/2000, c.d. Statuto dei diritti del Contribuente, approda alla conclusione dell’esercizio del detto potere sostitutivo. Le ragioni addotte dai Giudici patavini fanno riferimento, da un lato, ai criteri dell’economia procedimentale e processuale e, dall’altro, al conclusivo riscontro, nel caso di specie, della perfetta coincidenza tra gli interessi di cui erano portatrici parte privata e parte pubblica.
» visualizza: il documento (Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Padova, sent., 11 dicembre 2024, n. 462)PAROLE CHIAVE: autotutela obbligatoria - diniego di autotutela - potere sostitutivo - giudice tributario
di Mara Pilla
1. L’impugnazione del diniego di autotutela trae origine dall’emissione di una “cartella di pagamento”, recante l’iscrizione a ruolo di sanzioni per omesso versamento, irrogate ex 13, D.Lgs. n. 471/1997, nella misura del trenta per cento dell’imposta dovuta in pendenza del giudizio relativo ad un avviso di rettifica e liquidazione. Il tenore letterale del provvedimento lascia presumere che a monte fosse stato impugnato un atto impositivo per il recupero dell’imposta complementare di registro (accertamento del maggior valore), senza versamento del terzo dell’imposta liquidata (artt. 55 e 56, D.P.R. n. 131/1986). La controversia pendente sull’atto impositivo, tuttavia, era stata definita con la tornata condonistica del 2023 (art. 1, comma 186 ss., L. n. 197/2022).
Sulla base dell’intervenuta definizione agevolata della lite, aspetto sul quale l’Ufficio non aveva fatto questione, il contribuente assumeva la non debenza della sanzione, giacché le controversie relative ai tributi andavano definite mediante versamento di una quota percentuale (differenziata a seconda dello stato di avanzamento della controversia) del valore della lite, costituito dai soli tributi, eccezion fatta per il caso di causa avente ad oggetto esclusivamente sanzioni (art. 1, comma 191, L. n. 197/2022). Il fatto dell’irrogazione separata della sanzione, opposta a mezzo di un atto riscossivo e/o d’intimazione, successivo ed in ogni caso derivato, insomma, non avrebbe più potuto produrre alcun effetto, rimanendo travolto dalla composizione del conflitto sull’atto presupposto.
Al contrario, l’Amministrazione sosteneva la legittimità dell’iscrizione a ruolo, indipendentemente dalla definizione della lite sull’avviso di rettifica e liquidazione, adducendo il documento di prassi di cui alla circolare n. 23/E/2017 (si tratta delle risposte a quesiti rese sulla precedente definizione agevolata delle controversie pendenti, di cui all’art. 11, D.L. n. 50/2017, convertito con modificazioni dalla L. n. 96/2017, che sullo specifico punto si esprime come segue: “nell’ipotesi in cui il contribuente abbia impugnato solo l’avviso di rettifica e liquidazione, atto che come detto non contiene l’irrogazione della sanzione di cui all’articolo 13 richiamato, la definizione della lite sul predetto avviso non fa venir meno la sanzione per omesso versamento contenuta nella cartella di pagamento non impugnata e quindi definitiva. Infatti, la definizione agevolata della lite sull’atto impositivo con estinzione del relativo giudizio non può in alcun modo essere equiparata all’annullamento dell’atto impositivo medesimo. Le stesse conclusioni valgono nell’ipotesi in cui, in relazione alla cartella di pagamento, il relativo giudizio si sia concluso con una sentenza passata in giudicato sfavorevole al contribuente”). Secondo la tesi erariale, dunque, l’atto riscossivo (e/o intimazione che sia) vivrebbe di vita propria rispetto all’atto impositivo, derivando la pretesa sanzionatoria, dal primo veicolata, dal sol fatto dell’omesso o ritardato pagamento della frazione di imposta dovuta in pendenza del giudizio sul secondo. Ciò renderebbe la prospettiva della sanzione del tutto svincolata dalla vicenda processuale dell’imposta, alla quale la sanzione sarebbe legata soltanto sotto il profilo della commisurazione a titolo originario. Come dire che, decorso il termine per il pagamento del terzo dei tributi, si cristallizzerebbe la violazione e che la medesima sarebbe impermeabile agli sviluppi dell’imposta nell’an (si pensi al caso del giudicato sostanziale favorevole, oltre al caso della definizione premiale in commento) ed inevitabilmente anche nel quantum della correlativa sanzione (il giudizio intermedio, ad esempio, peraltro tipico esito processuale in caso di accertamento valore in materia di imposta di registro, non ne importerebbe la riduzione).
2. Innanzitutto, la Corte di Giustizia sposa la tesi di parte privata in punto di illegittimità della pretesa sanzionatoria, percorrendo un articolato iter argomentativo, che esula dal tema che qui ci interessa.
In seconda battuta, la Corte passa ad esaminare la questione dell’illegittimità del diniego di autotutela notificato dall’Ente, sotto il profilo del perimetro della risposta processuale che il Giudice deve riservare alle casistiche in cui il contribuente avrebbe meritato la risposta procedimentale dell’accoglimento dell’istanza, ossia il provvedimento di autotutela.
La prima domanda che la Corte si pone concerne il test della riconducibilità della fattispecie alla categoria dell’autotutela obbligatoria (art.10 quater, L. n. 212/2000) oppure, in alternativa, alla categoria dell’autotutela facoltativa (art.10 quinquies, L. n. 212/2000). Sappiamo che la seconda categoria si individua, in ragione della definizione fornita dal Legislatore delegato del D.Lgs. n. 219/2023, soltanto per esclusione: fuori dai casi di autotutela obbligatoria, si è in presenza di autotutela facoltativa (cfr. infra. Non si può, invece, attribuire al Legislatore delegante la paternità del criterio discretivo, giacché le sue indicazioni erano limitate all’obiettivo di “potenziare l'esercizio del potere di autotutela estendendone l'applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell'atto, prevedendo l'impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi nonché, con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate, limitando la responsabilità nel giudizio amministrativo contabile dinanzi alla Corte dei conti alle sole condotte dolose” così art. 4, comma 1, lett. h), L. n. 111/2023). Di qui, la Corte patavina passa in rassegna l’elenco delle sette ipotesi menzionate dall’ art. 10 quater, L. n. 212/2000, e conclude per la collocazione della fattispecie concreta nella species dell’errore sul presupposto dell’imposta: “trattasi invero di ipotesi di autotutela obbligatoria inerente a manifesta illegittimità dell’atto per errore sul presupposto d’imposta, dovendosi tale espressione intendere nella sua accezione più ampia, e quindi relativa, come nella specie, a sanzioni che si assumono illegittimamente irrogate”. Tale conclusione, per vero, era già stata anticipata nella parte del provvedimento dedicata alla valutazione preliminare sull’ammissibilità o meno dell’impugnazione, alla luce della sua tempestività: “in assenza di definitività dell’atto di intimazione, l’impugnazione del diniego di autotutela – evidentemente proposta ai sensi dell’art. 10-quater della l. n. 212 del 2000, come modificata dal D.Lgs. n. 219 del 2023, è ammissibile in quanto tempestiva (anche con riferimento alla preclusione sancita nell’ultimo inciso del comma 2 di tale norma)”. Non si era formato il giudicato sulla pretesa sanzionatoria né era decorso un anno dalla definitività dell’atto oggetto della richiesta di autotutela, di talché l’inammissibilità dell’impugnazione rimaneva fuori discussione.
La questione dell’estensibilità della disposizione normativa anche all’atto avente ad oggetto le sole sanzioni, risolta nella sentenza in commento mediante interpretazione letterale estensiva (“presupposto d’imposta, dovendosi tale espressione intendere nella sua accezione più ampia”), in verità, risulta un po' più ostica per la dottrina. Non manca, infatti, chi prefigura future marcate oscillazioni giurisprudenziali sul punto, se non altro in ragione dell’incipit della littera legis, che circoscrive il precetto agli “atti di imposizione” (ovvero alla rinuncia all’imposizione, cfr. SALLUSTIO, Limiti e peculiarità dell’autotutela obbligatoria in tema di sanzioni amministrative tributarie, in Riv. tel. dir. trib., 4 febbraio 2025). Indipendentemente da tali presagi, comunque, va detto che l’Agenzia delle entrate a livello centrale, nell’illustrare la novità normativa ha aderito ad un’ermeneutica sostanzialista, vicina a quella evocata nel nostro caso dalla Corte di Giustizia, anche corredando le proprie conclusioni con l’indicazione di includere nella macro-classe degli “atti di imposizione” i provvedimenti di chiusura della partita Iva (Con riguardo al perimetro applicativo oggettivo della norma, l’Agenzia osserva: “in via preliminare, è opportuno chiarire che, coerentemente con la volontà del legislatore delegante di ‘potenziare l’esercizio del potere di autotutela’, rientra nella nozione di atto di imposizione qualunque atto mediante il quale l’amministrazione finanziaria eserciti il proprio potere autoritativo con effetti di natura patrimoniale pregiudizievoli nei riguardi del contribuente. In tale nozione, rientrano, tra l’altro, gli ‘atti recanti una pretesa impositiva’ (come, ad esempio, gli avvisi di accertamento e di rettifica) e quelli di chiusura della partita IVA”, così, Agenzia delle entrate, circolare n. 21/E/2024), di cui all’art. 35, comma 15 quinquies, D.P.R. n. 633/1972. Ne viene che, quantomeno a detta dell’Amministrazione (e salvo che, anche sotto questo profilo, non ci “sorprendano” le Sezioni Unite, com’è accaduto con l’autotutela in malam partem, Cass., sez. un., sent. n. 30051/2024), sarebbero inclusi nel novero degli atti astrattamente, ma obbligatoriamente, riesaminabili in autotutela anche provvedimenti sprovvisti di un contenuto impositivo in senso proprio, purché latori di effetti patrimoniali pregiudizievoli o comunque sostanzialmente lesivi in senso lato. La chiusura della partiva Iva inattiva, difatti, di per sé non si traduce in una lesione di contenuto patrimoniale munita del carattere dell’immediatezza, bensì in una compressione solo potenzialmente lesiva (ove all’inattività meramente cartolare non corrispondesse la cessazione dell’attività). Ciò dovrebbe far propendere per una nozione di potere di autotutela senz’altro esteso ai provvedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative tributarie, la cui natura sostanzialmente penale è pacifica (o almeno così era prima dell’“improvvisata” dell’esclusione espressa dell’applicabilità del principio del favor rei), di talché la finalità punitiva-deterrente della sanzione, quale risposta dell’ordinamento all’antigiuridicità della condotta, conferma la lesività della sanzione amministrativa irrogata in assenza della violazione o in misura non proporzionale all’offensività della condotta. In una parola, se la sanzione legittimamente irrogata è punitiva sul piano patrimoniale, allora la sanzione illegittima sullo stesso piano è lesiva.
Nel caso di specie, inoltre, un ulteriore elemento depone a favore della conclusione poc’anzi raggiunta, ed è quello della peculiarità della riscossione in pendenza di giudizio dell’imposta di registro, considerato che la sanzione irrogata, sia pure collegata e commisurata al tributo, nel caso in altra sede definito, è la conseguenza di una violazione astrattamente configurabile solo per effetto dell’esclusione della specifica imposta dalla concentrazione della riscossione. Si ricorderà che detta concentrazione è stata introdotta dall’art. 29, D.L. n. 70/2011, convertito con modificazioni dalla L. n. 122/2010, con finalità acceleratorie, pur essendosi di fatto risolta in risultati sostanzialmente dilatori (sospensione dell’esecuzione per un periodo di centottanta giorni dall’affidamento in carico, etc.), limitatamente ad alcuni tributi e ad alcuni atti. Soltanto di recente, con la novella di cui all’art. 14, D.Lgs. n. 110/2024, rubricato “Adeguamento delle disposizioni in materia di concentrazione della riscossione nell'accertamento”, si è posto rimedio, mediante inserimento nel perimetro applicativo del precetto anche dell’imposta di registro, compresa quella complementare recuperata con gli avvisi di rettifica e liquidazione. Considerato che nel frattempo non è stato apportato alcun significativo cambiamento all’accertamento e alla liquidazione dell’imposta d’atto, si dovrebbe poter arguire che le ragioni dell’originaria esclusione erano di natura storica o consuetudinaria. In assenza di giustificazioni di carattere sistematico a sostegno della differenziazione delle modalità riscossive, si potrebbe anche dubitare della sua ragionevolezza e, pertanto, evidenziare che il tecnicismo di tale riscossione, atipica rispetto a quanto accade per imposte dirette ed IVA (e che tanti contribuenti ha indotto in errore negli anni), si è riflesso in dimensione dilatata sull’istituto premiale in argomento, come interpretato dall’Amministrazione. Di qui, potremmo restituire alla tesi del difetto di autonomia dell’atto riscossivo e/o d’intimazione, oggetto dell’istanza di autotutela in commento, un carattere ermeneutico senza dubbio sostanzialista, ma comunque sistematico. E ove la sanzione venisse ricollegata al tributo non solo sul piano della commisurazione, ma anche su quello del fatto genetico, rimanendo l’indipendenza tra i due di livello soltanto tecnico-procedimentale, saremmo rientrati nell’alveo del genus degli “atti di imposizione” (peraltro, non ci si può esimere dal sottolineare come il sempre più frequente ricorso da parte del Legislatore a sinonimi e locuzione finisca per inutilmente appesantire l’attività degli operatori del settore. Quello della locuzione “atti di imposizione”, in luogo di un elenco di atti ricompresi nel perimetro applicativo della norma di cui all’art. 10 quater, L. n. 212/2000, non è l’unica licenza definitoria che si è concesso il Legislatore delegato della recente riforma. Anche la locuzione “mezzi di prova”, che abbiamo letto all’art. 7 dello stesso corpus normativo novellato, ha suscitato qualche perplessità in sede di decodificazione. A quale disposizione dell’ordinamento intende riferirsi il Legislatore dell’art. 7? Sul piano della littera legis, si direbbe nessuna. E quante interpretazioni eromperanno dalla locuzione? Si direbbe diverse. Del resto, la locuzione, quale unità linguistica plurima, per la sua carenza di compattezza sintattica, presenta un minor grado di stabilità semantica rispetto alle unità monorematiche).
Con ciò, ad evidenza, non si giunge fino all’approdo della neutralizzazione dei tratti distintivi della riscossione in pendenza di giudizio dell’imposta d’atto rispetto alle imposte dirette o all’IVA. Tuttavia, si perviene a far emergere l’intima connessione dell’atto, con cui viene manifestata la pretesa sanzionatoria in contestazione, con l’atto presupposto, con il quale il provvedimento derivato si pone in un rapporto genetico d’imprescindibilità, tale da consentire all’interprete di ricondurlo nel solco degli “atti di imposizione”, rispetto al quale l’autonomia è di natura esclusivamente tecnica, senza sconfinamenti nell’autosufficienza (la medesima autonomia, del resto, è astrattamente ravvisabile nell’atto di contestazione delle sanzioni contestuale all’atto impositivo in materia di imposte dirette ed Iva, ad esempio, il provvedimento sanzionatoria deve risultare autonomamente motivato. Eppure, tale autonomia non ne predica l’indipendenza. Una cosa è l’autonomia dell’atto, un’altra l’autonomia, nel senso di autosufficienza, della pretesa, tributaria o sanzionatoria che sia). Ne consegue che, a prescindere dalla riconducibilità di qualsiasi atto sanzionatorio alla categoria dell’imposizione, tesi che comunque sembrerebbe avere più di qualche fondamento, ai fini della copertura normativa dell’ombrello dell’art. 10 quater, L. n. 212/2000, dovrebbe essere sufficiente la relazione di aderenza ontologica dell’atto in questione con l’atto presupposto. Una volta derubricato l’atto derivato a mero snodo dell’ordinata sequenza (secondo la progressione degli atti prevista dalla legge, con le relative notificazioni, destinati, ciascuno con la propria specifica funzione, a veicolare la pretesa nella sfera conoscitiva del contribuente) a garanzia del procedimento di formazione della pretesa medesima, l’intima connessione del provvedimento oggetto dell’istanza di autotutela con l’atto presupposto si appalesa con tutta evidenza. A tal punto, risulterebbe arduo giustificare l’irrazionale della premialità riservata a taluni e negata a talaltri, solo in dipendenza della scelta del Legislatore di diversamente scandire gli snodi della detta sequenza. Una scelta, insomma, che parrebbe rispondere più ai criteri della “logistica” che a quelli della logica sistematica. Quanto sopra, tanto più alla luce del fatto che la debenza dei tributi nella misura del terzo dei tributi accertati è obbligo che scaturisce proprio da quell’impugnazione (diversamente, in assenza dell’impugnazione, la debenza si estenderebbe all’intero della pretesa, maggiorata delle relative sanzioni), dalla quale scaturisce l’accesso all’istituto definitorio della lite pendente, cosicché il fatto genetico della sanzione per ritardato versamento coincide con quello della premialità.
3. La seconda domanda che la Corte si pone riguarda, invece, il confine del sindacato del Giudice del diniego dell’autotutela obbligatoria, posto che la norma non è di alcun aiuto sul punto. Osserva la Corte patavina che occorre “verificare se l’accoglimento dell’impugnazione del relativo diniego comporti l’esercizio del potere sostitutivo da parte del giudice tributario, nel senso dell’annullamento dell’atto impositivo”.
Prima di esaminare il dettaglio della conclusione cui è giunta la Corte di Padova, è utile ripercorrere, sia pure brevemente, il paradigma che il Legislatore delegato del D.Lgs. n. 219/2023 nonché del D.Lgs. n. 220/2023, ha previsto per la riforma dell’istituto, peraltro fuoriuscendo dal solco della delega in una creazione normativa che non può certo dequotarsi a completamento dell’intentio parlamentare (Sulla non riconducibilità del discrimen tra autotutela obbligatoria e autotutela facoltativa al disposto dell’art. 4, comma 1, lett. h), L. n. 111/2023, nonché sulla “vaghezza” in generale delle indicazioni della Delega fiscale, DEMETRI, Spunti di riflessione sull’autotutela tributaria, in Riv. tel. dir. trib., 23 maggio 2024). Sono state previste: l’autotutela obbligatoria, da un lato, il cui corollario è rappresentato dall’impugnabilità del diniego o del silenzio opposto dall’Amministrazione all’istanza di parte; l’autotutela facoltativa, dall’altro lato, il cui corollario è rappresentato dall’impugnabilità del solo diniego espresso del destinatario dell’istanza. Il primo dettaglio che ictu oculi si coglie dalla lettura degli innesti statutari è senz’altro l’aggettivo “obbligatoria”, che suggerisce un radicale disallineamento rispetto alla matrice amministrativa dell’istituto (si confrontino i dettati dell’art. 21 septies, L. n. 241/1990, rubricato Nullità del provvedimento, dell’art. 21 octies, L. n. 241/1990, rubricato Annullabilità del provvedimento, dell’art. 21 nonies, L. n. 241/1990, rubricato Annullamento d'ufficio. Sull’irriducibilità tra le due figure, quella della L. n. 241/1997 e quella della L. n. 212/2000, CARINCI, Perduranti incertezze e criticità nel nuovo istituto dell’autotutela, in Il fisco, 2024, 47-48, p. 4363 ss., tanto più alla luce del corollario della correlativa impugnabilità del silenzio dell’Amministrazione. La giurisprudenza amministrativa, difatti, giustifica la non impugnabilità del silenzio dell’Ente, in materia non tributaria, mediante ragioni che attengono alla natura della discrezionalità amministrativa (insegna il Consiglio di Stato che: “in generale, l'autotutela soggiace alla più ampia valutazione discrezionale dell'Amministrazione e non si esercita in base ad un'istanza di parte, avente al più portata meramente sollecitatoria e inidonea, come tale, ad imporre alcun obbligo giuridico di provvedere. Da ciò consegue l'inutilizzabilità del rimedio processuale previsto per contrastare il silenzio della pubblica amministrazione (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 maggio 2024 n. 4518; Consiglio di Stato, Sez. III, 30 agosto 2022 n. 7561). In sostanza, il potere di autotutela è incoercibile dall'esterno attraverso l'istituto del silenzio inadempimento ai sensi dell'art. 117 c.p.a. salvo le ipotesi normativamente stabilite di autotutela doverosa. L'Amministrazione non ha dunque alcun obbligo di provvedere sulle richieste di esercizio del potere di autotutela verso atti divenuti inoppugnabili giacché, diversamente opinando, si eluderebbe l'onere legale di impugnazione nei termini decadenziali posti dalla legge a tutela della stabilità dell'assetto degli interessi pubblici sottesi al concreto esercizio della funzione pubblica. In questi casi, conseguentemente, l'impugnativa del diniego di autotutela è inammissibile, in coerenza con il principio generale della impossibilità di assicurare tutela all'interesse strumentale se non nei casi eccezionali espressamente previsti dalla legge (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16 aprile 2024, n. 3469)”, Cons. Stato, sent. n. 924/2025). È pur vero che anche nell’ordinamento amministrativo sono state individuate evenienze di “autotutela doverosa”, ma l’aggettivo “doverosa” sembra abbinarsi molto più armoniosamente alla sfera della discrezionalità, tanto da non scadere nell’ossimoro proposto dal novellato Statuto del contribuente.
4. Ciò premesso, potrebbe essere utile esperire un tentativo ermeneutico dell’obbligatorietà in narrativa, che il Legislatore della riforma ha voluto per il comparto tributario, che esalti il tratto distintivo dell’impugnabilità del silenzio, quale antefatto logico rispetto alla deduzione della legittimità o meno del potere sostitutivo del Giudice dell’istanza di autotutela obbligatoria. Quale differenza effettivamente connota le casistiche enumerate dall’art. 10 quater, L. n. 212/2000, rispetto alle casistiche individuabili “per differenza” dal successivo art. 10 quinquies? A ben vedere, una volta ricondotto all’“errore sul presupposto dell’imposta” tutto il novero dei possibili vizi afflittivi della pretesa in senso sostanziale (in presenza del presupposto d’imposta, del resto, residuerebbero soltanto gli aspetti procedimentali), e quindi esclusi i vizi dell’atto contenitore, il perimetro applicativo oggettivo delle due norme sembrerebbe distinguersi soltanto in ragione delle differenti tempistiche (si noti che nel “passaggio” dal D.M. n. 37/1997, all’art. 10 quater, L. n. 212/2000, il Legislatore ha eliminato l’eventualità della doppia imposizione, di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), nonché quella della sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati, di cui all’art. 2, comma 1, lett. g), come a voler ricondurre al difetto del presupposto tutte le ipotesi di errore astrattamente configurabili in sede di accertamento, quale fase di applicazione del tributo dell’accertamento. Tutte le altre – e. errore di calcolo, sul computo dei pagamenti, etc. – sembrerebbero, invece, afferenti alla fase della liquidazione del tributo. Non mancano in dottrina posizioni di segno contrario, rispetto all’interpretazione di chi vede nella riduzione degli elementi che compongono l’elenco in questione lo sforzo del Legislatore di ricondurre alla macrocategoria del difetto del presupposto tutte le possibili declinazioni dell’illegittimità sostanziale della pretesa. Si giunge financo all’auspicio di un intervento normativo che arricchisca l’elenco dell’autotutela obbligatoria, con l’introduzione di nuove fattispecie ora ritenute escluse: “laddove l’Amministrazione finanziaria incorra in un errore (manifesto) nella determinazione della base imponibile o della imposta (fatta evidentemente eccezione per l’ipotesi di mero errore di calcolo, già contemplata dalla norma)”, CAUMONT CAIMI-PARDINI, L’autotutela avanza (a passo incerto) con la riforma, in Corr. trib., 2025, 2, p. 175 ss. Per un approfondimento sui rapporti tra la disciplina previgente e quella attuale, FICARI, La “nuova” autotutela tributaria tra dovere e facoltà degli uffici e confini del potere di accertamento tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2024, 4, p. 693 ss. Si segnala, inoltre, che secondo l’Agenzia delle Entrate il “passaggio” dal D.M. n. 37/1997, all’art. 10 quater, L. n. 212/2000, starebbe a significare l’abbandono dell’elenco casistico (“carattere meramente esemplificativo era stato reso esplicito mediante l’utilizzo dell’espressione «quali tra l’altro», anteposta alla puntuale elencazione delle fattispecie che potevano dare luogo all’esercizio dell’autotutela”), a favore della tassatività dell’elencazione, Agenzia delle entrate, circolare n. 21/E/2024. Pretese illegittime veicolate mediante atti non ancora definitivi o definitivi da non oltre un anno, oggetto della prima norma, transitano nel perimetro applicativo della seconda norma con il decorso del tempo (sulla permanenza dell’obbligo di rimozione dell’atto illegittimo, ai sensi dell’art. 10 quater, L. n. 212/2000, oltre l’anno, purché il contribuente abbia entro tale termine presentato l’istanza, senza necessità che il procedimento instaurato con la presentazione della detta istanza si concluda nel termine, BASILAVECCHIA, Autotutela tributaria sugli atti impositivi tra luci, ombre e “nubi dalla giurisprudenza”, in Ipsoa quotidiano, 3 febbraio 2024). Si direbbe che il Legislatore abbia inteso avventurarsi nell’impervio sentiero del compromesso tra la necessità dell’acquisizione, entro un termine ragionevole, della certezza del rapporto giuridico e l’ingiustizia sostanziale della preclusione della rimozione dall’ordinamento di pretese sostanzialmente illegittime, ancorché definitive (non manca in dottrina chi rinviene la differenza tra i perimetri applicativi dell’autotutela obbligatoria e dell’autotutela facoltativa nell’elenco dei vizi afferenti alla prima, cui farebbe da contraltare la norma “in bianco” che regola la seconda, PISTONE, L’europeizzazione del diritto tributario e la riforma fiscale italiana: dall’adattamento all’adeguamento al diritto europeo, in Dir. prat. trib. inter., 2024, 2, p. 303 ss. Questa tesi, tuttavia, sembrerebbe condurre al risultato di privare la locuzione “errore sul presupposto” del suo più pieno portato. Si pensi al caso delle questioni interpretative, che ben possono attenere al presupposto dell’imposta. Per le questioni interpretative rimarrebbe soltanto il rimedio dell’autotutela facoltativa? E come distinguere le fattispecie in cui l’applicazione della norma che individua il presupposto è frutto di un “errore” da quelle in cui è un prodotto interpretativo? Il rischio che sembrerebbe profilarsi sarebbe quello dell’ancoraggio ai precedenti, in uno spirito da common law. Sarebbe errore quanto si discosta dal già dibattuto e risolto in giurisprudenza – di legittimità o anche “solo” di merito? – e tutto il resto sarebbe interpretativo. La conclusione, peraltro, non parrebbe compatibile con l’abrogazione dell’istituto della mediazione obbligatoria, di cui all’art. 17 bis, D.Lgs. n. 546/1992, nonché con la sostituzione, ad opera del D.Lgs. n. 220/2023, all’art. 48 bis1, dello stesso decreto, rubricato “Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria”, dell’espressione “avuto riguardo all'oggetto del giudizio e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione” con l’alternativa “avuto riguardo all'oggetto del giudizio e ai precedenti giurisprudenziali”, in cui vogliamo leggere un’indicazione di fondo. Al di fuori delle soluzioni di natura transattiva, che implicano per entrambe le parti coinvolte un sacrificio rispetto alle originarie pretese, per le quali il Legislatore ammette il faro guida del precedente, il “manuale” dell’interprete è reperibile all’art. 12 delle Preleggi).
Se ne dovrebbe dedurre, sempre tenuto conto del parametro dell’impugnabilità del silenzio, quale criterio mediante il quale scandagliare la peculiarità dell’autotutela obbligatoria, un intento del Legislatore non soltanto garantista, ma anche acceleratorio (mette in guardia, invece, da una strumentalizzazione della funzione acceleratoria della norma, funzionale alla sottrazione all’impugnazione degli atti nel termine, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano, sentenza n. 178/2025, resa in esito all’impugnazione di un diniego di autotutela obbligatoria, la cui istanza era stata presentata nella pendenza del termine per impugnare l’atto di riferimento, senza poi provvedervi). Nel D.Lgs. n. 219/2023 si potrebbe leggere anche lo stop con cui la norma risponde a certe prassi dilatorie dell’Amministrazione, grazie alle quali il provvedimento non adottato potrebbe sempre, ex post, sostenersi che sia soltanto procrastinato (in ogni caso, annotiamo che la disciplina dell’istituto non sembra ancora stabile, quantomeno in base alle recenti dichiarazioni rilasciate nel corso di Telefisco 2025 dal Viceministro Leo “ampliare l'ambito di applicazione dell'autotutela obbligatoria”). Riconosciuta alla riforma la funzione anche sollecitatoria, che le implicazioni sull’impugnabilità sembrerebbero attribuirle, potrebbe risultare più agevole propendere per la legittimità del potere sostitutivo del Giudice. Quale interesse avrebbe l’ordinamento ad una pronuncia meramente interlocutoria, con cui a parte soccombente verrebbe soltanto indicata l’azione da intraprendere, ossia l’adozione del provvedimento di autotutela? Saremmo grossomodo nella situazione in cui eravamo ante riforma (per un approfondimento nella vigenza della normativa pregressa, PIVA, L'autotutela tributaria dopo l'intervento della Corte costituzionale: fossile giuridico o strumento ancora attuale di tutela azionabile dal contribuente?, in Boll. trib., 2019, 3). Difatti, la Corte patavina si sbilancia nella direzione dell’esercizio del potere sostitutivo: “sia al fine di evitare una sequenza procedimentale del tutto inutile e contrastante con un’evidente esigenza di economia processuale, stante la natura vincolante dell’accertamento della ricorrenza di una delle ipotesi di cui all’art. 10-quater della novellata l. n. 212 del 2000, sia perché tale norma evidentemente contiene una presunzione assoluta di corrispondenza all’interesse pubblico della rimozione degli effetti di una pretesa tributaria affetta da gravi vizi di legittimità”. E quest’ultima considerazione, circa la coincidenza tra gli interessi in gioco, potrebbe chiudere il cerchio sulla decodificazione comparativa tra obbligatorietà (rectius, doverosità) e facoltatività. L’attività della PA, del resto, può essere sì vincolata oppure discrezionale, ma quand’anche sia discrezionale, nell’ambito di una cornice regolare (a livello di procedimento prodromico e di atto che ne raccoglie le conclusioni), può esserlo in funzione di una sola opzione, quella maggiormente idonea alla realizzazione dell'interesse pubblico specifico di cui la stessa Amministrazione è portatrice, ossia l’applicazione del tributo nella misura conforme alla capacità contributiva (art. 53 Cost.) espressa dal presupposto (sui confini della discrezionalità tecnica della Pubblica Amministrazione e sull’evoluzione del sindacato sulla medesima, si veda Cons. Stato, sent. n. 4094/2002, che pure giunge ad escludere il potere sostitutivo del Giudice, evidentemente, al di fuori del contesto dell’autotutela obbligatoria). E se, in materia di tributi, il prelievo è vincolato dalla legge e l’agire amministrativo ne resta comunque condizionato, senza alcuna contaminazione della discrezionalità nell’accezione dell’arbitrarietà, tanto più lo sarà in materia di sanzioni, giusta la loro afflittività, in virtù del principio di legalità (e proporzionalità).
5. Abbiamo finora ragionato tenendo a mente evenienze di vizi afflittivi della pretesa nel senso sostanziale del termine, lasciando volutamente da parte i casi di vizi afflittivi del procedimento che la introduce o dell’atto che la veicola (qualora la categorizzazione del vizio si rivelasse un metro valutativo nel senso proposto, naturalmente, ci si dovrebbe aspettare che la giurisprudenza che in futuro si pronunzierà sugli artt. da 7 a 7 sexies, L. n. 212/2000, che al momento rappresentano un terreno ancora vergine, contribuisca a circoscrivere il perimetro del potere sostitutivo del Giudice). In queste diverse ipotesi (ad esempio, contraddittorio non esperito, termine decadenziale spirato, ), ove la pretesa rimanesse comunque conseguenza del ricorrere del presupposto del tributo, sarebbe più arduo sostenere l’identità degli interessi, dovendosi schierare il Giudice nella direzione dell’interesse di parte privata, tanto robusto da giustificare la rimozione dell’atto. A contrariis, nei casi come quello in commento, il Giudice si sostituisce sì a parte pubblica, ma il suo è un agire surrogatorio in senso pieno, ceteris paribus, scevro da connotati di equità sostitutiva (Cass., ord. n. 35093/2024) e adesivo alla metodica insegnata dalla Suprema Corte per i casi in cui non sussistano vizi formali a tal punto gravi da impedire l'identificazione dei presupposti impositivi e precludere l'esame del merito del rapporto tributario (Cass., ord. n. 4445/2025). In conclusione, nell’autotutela obbligatoria, l’elemento distintivo (rispetto all’autotutela facoltativa) dell’impugnabilità del silenzio dell’Amministrazione potrebbe essere speso per perimetrare il sindacato del Giudice della medesima autotutela, facendolo assurgere anche in questa fattispecie a Giudice del rapporto, com’è in generale nella logica del carattere di "impugnazione-merito" che permea il processo tributario. In quest’ottica, anche alla luce della riferita modestia della funzione esegetica dell’aggettivo obbligatoria, che affonda le proprie radici in un terreno giuridico arido di spunti (necessariamente, anche in letteratura), l’unicum dell’impugnabilità del silenzio potrebbe costituire l’elemento davvero qualificante dell’istituto, la cui doverosità dovrebbe arrivare a permeare l’intero successivo percorso processuale che ne scaturisse, inclusa l’espansione del sindacato fino alla copertura del rapporto sotteso, benché nei limiti della domanda (La maggiore coerenza di una soluzione che attribuisse allo stesso Giudice il sindacato sull’atto conclusivo del procedimento di autotutela e sull’atto sotteso, peraltro, era auspicata dalla dottrina de iure condendo, STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria, Padova, 1996).
6. Da ultimo, non nuoce menzionare la pronuncia delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., sent. n. 30051/2024) che, come noto sono intervenute sulla tematica dell’autotutela sostitutiva e dei suoi rapporti con l’accertamento integrativo, traghettandoci dal principio di perennità alla volta di un contesto di preoccupante precarietà. Nella detta pronuncia, comunque, il passaggio relativo all’utilizzabilità dei soli elementi “presenti quando l'Amministrazione finanziaria aveva emesso l'atto originario, senza alcuna integrazione” sembrerebbe volta ad assicurare a parte pubblica uno spatium deliberandi addizionale, che si giustificherebbe con la non consumazione del potere accertativo, ritenuta compatibile con l’unicità dell’accertamento, e corrisponderebbe al suo reciproco, ossia all’emendabilità della dichiarazione da parte del contribuente. Nel nostro caso, allora, anche tale spazio rimarrebbe garantito, giacché l’impugnazione del contribuente apre un’area di ponderazione all’interno della quale la possibilità di costituirsi in giudizio, controdeducendo nel merito, riserverebbe a parte resistente la rivalutazione degli elementi di cui era già in possesso, per di più in contraddittorio con parte privata (Dà conto delle due soluzioni in caso di autotutela obbligatoria, quella della sussistenza del potere sostitutivo del Giudice e quella alternativa – “all’annullamento del diniego per via della sussistenza di un caso di autotutela obbligatoria, dovrebbe corrispondere un obbligo di conformazione dell’Amministrazione finanziaria, obbligo eventualmente coercibile mediante un giudizio di ottemperanza instaurato dal contribuente” – PODDIGHE, Aspetti procedimentali e processuali dell’autotutela tributaria obbligatoria, in Il fisco, n. 2024, 43, p. 3977 ss.).
All’Amministrazione, del resto, per non tralasciare i profili squisitamente processuali, residuerebbe l’impugnazione della sentenza sfavorevole, con relativa garanzia del “doppio grado di giurisdizione” sul rapporto, che seppure sprovvisto di scudo costituzionale, sembra corretto menzionare tra i test sulla tenuta della soluzione processuale adottata in primo grado nel caso de quo.