argomento: Principi generali e fonti - Giurisprudenza
L’Autore, muovendo dall’ordinanza di rimessione della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Roma, in data 8 luglio 2024, svolge alcune brevi considerazioni in tema di preclusioni processuali per escludere l’applicabilità, nel settore tributario, del principio secondo cui nessuno può essere costretto a cooperare alla propria incolpazione, beninteso nel solo caso particolare in cui l’Ufficio abbia richiesto al contribuente (che nessuna violazione aveva nel frattempo commesso) di esibire documenti al privato favorevoli.
» visualizza: il documento (Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma, ord., 8 luglio 2024)PAROLE CHIAVE: nemo tenetur se detegere - rimessione - Corte Costituzionale - cooperazione
di Simone Francesco Cociani
1. Premessa. La recente ordinanza della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Roma, 8 luglio 2024, di rimessione degli atti alla Corte costituzionale (reg. ord. n. 165/2024 in G.U. n. 38 del 18 settembre 2024), costituisce l’occasione per svolgere alcune brevi considerazioni sulla portata del principio secondo cui nemo tenetur se detegere nel settore tributario.
In effetti, al di là di ciò che riterrà il Giudice delle leggi, l’ordinanza in discorso si segnala per aver richiamato l’attenzione sull’estensione della portata del principio secondo cui nessuno può essere costretto a cooperare alla propria incolpazione, anche nel settore tributario, come sembra in una dimensione tipicamente amministrativa (più in generale, sulla compatibilità del nemo tenetur se detegere nel settore tributario, senza pretesa di esaustività, si vedano: GIOVANNINI, Sui princìpi del diritto al silenzio in diritto sanzionatorio tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2022, p. 235 ss., ora anche in ID., Per princìpi, Dodici saggi di diritto tributario e oltre, Torino, 2022, p. 165 ss.; MARCHESELLI, Buona fede del contribuente, obblighi di cooperazione nella fase amministrativa e diritto al silenzio: tempesta in arrivo dalle Corti internazionali, in Riv. dir. trib. online, 24 marzo 2021; ID., Accertamenti tributari e diritto al silenzio del contribuente, in Aa.Vv., Studi in memoria di Francesco Tesauro, Torino, 2022, T. II, p. 181 ss.; PERRONE, Il diritto al silenzio, riconosciuto dalla Consulta negli illeciti finanziari, rileva in ambito fiscale?, in Giur. comm., 2022, II, p. 107 ss.; MAZZA, Una nuova dimensione per il diritto al silenzio in ambito penale tributario, in Rass. trib., 2022, p. 297 ss.; MARINELLO, I primi echi del diritto al silenzio in materia fiscale. La Corte di cassazione riconosce in via di principio il nemo tenetur se detegere nei procedimenti tributari, in Riv. dir. trib. online, 28 aprile 2022; ID., Il diritto al silenzio e sistema tributario: il processo di osmosi tra corti europee e corti nazionali innalza lo standard di tutela del contribuente, in Dir. prat. trib., 2022, p. 629 ss.; DORIGO, Il “diritto al silenzio” del contribuente nel corso di verifiche e controlli e le conseguenze nel processo penale, in Corr. trib., 2018, 388 ss.; RICCI, Nemo tenetur se detegere e diritto tributario, in Tax News, 13 settembre 2022; LOVISOLO, Il “diritto al silenzio”, riconosciuto in sede comunitaria, e i suoi effetti in materia tributaria nazionale, con particolare riferimento alla preclusione di una successiva produzione documentale, in Dir. prat. trib., 2022, I, p. 825 ss.; PIANTAVIGNA, Il diritto del contribuente a non collaborare all’attività accertativa, in Riv. dir. fin e sc. fin., 2013, II, p. 73 ss.; CIARCIA, Il rifiuto di esibizione tra preclusioni probatorie, espressa richiesta dell’A.F e perdita (incolpevole) di documenti, in Dir. prat. trib., 2023, II, p. 795 ss.; volendo: COCIANI, Sul diritto del contribuente al silenzio e a non cooperare alla propria incolpazione. Dal giusto processo al giusto procedimento?, in Riv. trim. dir. trib., 2022, p. 419 ss.; ID, Silenzio del contribuente e accertamento del fatto controverso nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 2023, p. 127 ss.).
Peraltro, nel fare ciò, il remittente – opportunamente – solleva la questione in una prospettiva multilivello, per l’effetto richiamando una molteplicità di parametri di scrutinio: i) costituzionali (Cost., artt. 10, 24, 25, 111, 117, primo comma); ii) internazionali [CEDU, art. 6; Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, artt. 8, 10 e 11; Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, art. 14, par. 3, lett. b), d), g)]; iii) unionali (CDFUE, artt. 47 e 48).
2. I fatti di causa. La contribuente acquistava una quota di un terreno fabbricabile che poi, unitamente all’altro comproprietario, vendeva a terzi.
L’Ufficio tributario notificava alla contribuente avviso di accertamento in relazione al predetto atto di compravendita, contestando l’esistenza di una plusvalenza imponibile rientrante nella categoria dei redditi diversi di cui all’art. 67, comma 1, d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917.
È da precisare che, prima di emanare il provvedimento impositivo, l’Ente aveva notificato alla contribuente un invito ex art. 32, comma 1, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, a mezzo del quale aveva richiesto l’esibizione di documentazione inerente eventuali spese incrementative sostenute, oltre a copia dell’atto di provenienza e alla perizia di stima del terreno.
In mancanza di riscontro, l’Ufficio provvedeva quindi a determinare la plusvalenza in ragione della sola differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto del terreno.
La contribuente impugnava l’atto di accertamento lamentando di aver delegato il proprio figlio alla proposizione del reclamo e precisando altresì che questi, più volte, aveva tentato – sempre senza successo – di mettersi in contatto con l’Ente al fine di depositare i documenti probatori a difesa della posizione della stessa madre, poi ricorrente.
Nel merito, la medesima ricorrente eccepiva poi di aver sostenuto spese incrementative in misura tale da abbattere la plusvalenza accertata.
Si costituiva in giudizio la parte pubblica contestando la tardività del deposito delle fatture per spese incrementative in quanto solamente allegate al ricorso introduttivo e non anche prodotte in sede amministrativa, stante la preclusione di cui all’art. 32, comma 3 (oggi comma 4), del predetto d.p.r. n. 600/1973.
Lo stesso Ufficio (e – deve ritenersi – anche il remittente) riteneva altresì non operante la causa di giustificazione prevista dal successivo comma 4 (oggi comma 5), del medesimo art. 32, in ragione della mancata prova dell’esistenza di un impedimento oggettivo e incolpevole al deposito, in sede amministrativa, della documentazione richiesta dai verificatori, di tal guisa potendo desumersi un (consapevole) rifiuto di rispondere.
Infine – in mancanza di specifiche indicazioni nell’ordinanza di rimessione – si deve supporre che l’invito dell’Ufficio a presentare documenti fosse accompagnato dagli ammonimenti di rito circa le conseguenze derivanti dalla mancata risposta.
Diversamente, la parte privata, anche nel caso in cui non avesse eccepito alcunché in proposito nel corso del giudizio di primo grado, sarebbe comunque ancora in facoltà di far valere il relativo vizio di forma dell’invito – quindi anche in sede di appello – giacché una simile eccezione non atterrebbe all’atto impositivo impugnato, né alle pretese dell’Amministrazione finanziaria e/o ai relativi presupposti di fatto e di diritto, bensì alle ricadute processuali di un comportamento tenuto dal contribuente nella precedente fase amministrativa. In questo senso, la (eventuale) contestazione di cui sopra avrebbe natura di mera difesa e non sarebbe soggetta a preclusioni processuali, essa consentirebbe quindi al contribuente di articolarla anche successivamente, in quanto indirizzata a negare i presupposti del verificarsi di un effetto processuale favorevole all’Ufficio e da questo invocato nel giudizio di primo grado (cfr. Cass., 24 febbraio 2022, n. 6092, su cui DIDONI, Invito a produrre documenti e preclusioni probatorie: brevi note a margine della pronuncia della Corte di Cassazione n. 6092 del 24 febbraio 2022, in Riv. dir. trib. suppl. online, 21 giugno 2022. Più in generale, sull’art. 32 d.p.r. n. 600/1973 e sulla relativa preclusione, senza pretesa di esaustività, si vedano: SCHIAVOLIN, Poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, in Dig. IV, Disc. Priv., Sez. Comm., vol. XI, Torino, 1995, p. 193 ss.; VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2002; VANZ, I poteri conoscitivi e di controllo dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2012; TUNDO, Documenti non esibiti a richiesta: preclusioni probatorie e garanzie del contribuente, in Corr. trib., 2013, 16, p. 1265 ss.; FARRI, Inutilizzabilità in giudizio dei documenti non esibiti in fase istruttoria tra legge e costituzione, in Riv. dir. trib. suppl. online, 16 maggio 2016; RENDA, Contraddittorio a seguito di verifica e possibili limitazioni alle preclusioni probatorie, in Riv. dir. trib., 2010, 1, p. 95 ss.; LA ROSA, Principi di diritto tributario, Torino, 2020, p. 297; MARCHESELLI, Indagini tributarie “a trabocchetto” e buona fede, diritto di assistenza del difensore, illegittimità istruttorie e utilizzabilità della prova, in Riv. dir. trib. suppl. online, 29 giugno 2020).
3. Sulle considerazioni del giudice a quo circa la natura e gli effetti della preclusione di cui all’art. 32, comma 3, d.p.r. n. 600/1973. A parere del giudice remittente, anzitutto, la preclusione probatoria di cui all’art. 32, comma 3 (oggi comma 4), d.p.r. n. 600/1973, a fronte dell’esercizio dei poteri istruttori dell’Ufficio, costituisce per il contribuente una conseguenza talmente negativa da poter essere considerata alla stregua di una sanzione impropria [al riguardo si veda TOSI, Riflessi amministrativi e penali del rifiuto di esibizione di cui all’art. 52 del DPR n. 633 del 1972, in Riv. dir. trib., 1991, II, p. 475 ss.; più in generale, sulle sanzioni improprie, si veda DEL FEDERICO, Sanzioni proprie e sanzioni improprie, in Trattato diritto sanzionatorio tributario, a cura di GIOVANNINI, II, Milano, 2016, p. 1327; ID., Le sanzioni improprie nel sistema tributario: l’esperienza italiana, gli orientamenti della Corte di Giustizia UE e le garanzie del diritto punitivo, in Ordinamenti tributari a confronto, a cura di AMATUCCI, ALFANO, Torino, 2022, p. 143; in precedenza si vedano altresì SAMMARTINO, COPPA, Sanzioni tributarie, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1989, p. 425; RASTELLO, Sanzioni tributarie (Contributo alla teoria generale), in Noviss. Dig. it., 1969, XVI, p. 645], per giunta di tipo «sostanzialmente penale», in guisa tale da imporre il riconoscimento delle relative garanzie (su cui AMATUCCI, Principi della proporzionalità e del ne bis in idem nel sistema sanzionatorio tributario, in Dir. prat. trib. int., 2, 2015, p. 415 e, amplius, ALFANO, Sanzioni amministrative tributarie e tutela del contribuente, Limiti, garanzie europee e dialogo fra le Corti nell’applicazione multilivello, Napoli, 2020, p. 289 ss., nonché p. 320 ss.).
Tuttavia, prima di recepire – sic et simpliciter – la qualificazione della preclusione in discorso alla stregua di una sanzione impropria, è appena il caso di osservare che detta preclusione potrebbe derivare non già dalla violazione di un obbligo – in ipotesi di collaborazione del contribuente chiamato ad un qualche sacrificio contributivo – ma, più semplicemente, dal mancato rispetto di una norma che dispone un onere in capo al contribuente medesimo – in questo caso consistente nella esibizione di documenti a sé favorevoli –, talché la relativa inosservanza potrebbe non necessariamente configurare un comportamento antigiuridico rilevante nella prospettiva del giudizio di costituzionalità di cui all’ordinanza di rimessione in esame.
Più in dettaglio, sotto il profilo della legittimità costituzionale – rispetto al parametro costituito dal diritto alla tutela giurisdizionale – della norma che impone un qualsivoglia onere, occorrere osservare che la giurisprudenza della Consulta distingue fra oneri imposti allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze, e oneri tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali.
Sicché, mentre i primi sono consentiti in quanto strumento di quella stessa tutela giurisdizionale che si tratta di garantire, i secondi si traducono in una preclusione o in un ostacolo all’esperimento della tutela giurisdizionale e comportano, perciò, la violazione dell’art. 24 Cost. (cfr. Corte cost., sent., n. 333/2001, n. 113/1963).
Ebbene, quanto all’art. 32, comma 3 (oggi comma 4), in discorso, anche a considerarlo un onere, esso parrebbe imposto esclusivamente a fini di controllo fiscale, nel senso che il medesimo avrebbe la funzione di promuovere (rendendolo “spintaneo”) il contraddittorio endoprocedimentale, dunque in attuazione dell’interesse fiscale di cui all’art. 53 Cost. (sulla funzione dell’art. 32, comma 4, d.p.r. n. 600/1973 si vedano: Cass., sez. V, 31 gennaio 2022, n. 2847; Cass., sez. V, 20 ottobre 2016, n. 21271).
Nel caso di specie, in effetti, la disposizione in parola non sembra indirizzata a dare effettività ad un qualche obbligo di collaborazione del contribuente, a sua volta espressione di un obbligo di solidarietà di tipo economico, non foss’altro perché – nel caso di specie – ciò che è richiesto al privato è di fornire informazioni e documenti solo a sé favorevoli (capaci cioè di ridurre la base imponibile dall’Ufficio determinabile confrontando prezzo di vendita con corrispettivo di acquisto del terreno), talché sembra appunto difficile intravedervi un vero e proprio obbligo, potendosi preferire la ricostruzione in termini di onere.
In altri termini, essendo la preclusione in discorso indirizzata a favorire – e a rendere più spedita – (unicamente) l’attività di controllo amministrativo, nel rispetto dei principi di legalità e imparzialità, la stessa sembra altresì priva di qualsivoglia (intrinseca) connessione con il processo tributario e con gli interessi che questo è diretto a realizzare.
In particolare, la preclusione processuale sembra più che altro una negativa conseguenza collegata alla mancata collaborazione del privato in sede amministrativa, piuttosto che una conseguenza necessaria – in sede processuale – del contegno dal contribuente tenuto nella fase dell’istruttoria amministrativa.
Detto altrimenti, il riflesso in sede processuale della preclusione in parola sembra avere un ruolo servente rispetto all’obbligo – ovvero all’onere – di collaborazione in capo al privato, a sua volta derivante dall’esercizio del potere istruttorio esercitato dall’Ufficio.
Diversamente, risulterebbe difficilmente spiegabile la disposizione che consente al contribuente – a mente del successivo comma 4 (oggi comma 5) del predetto art. 32 – di produrre in giudizio, in allegato al ricorso introduttivo, le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri non addotti e/o non esibiti nel procedimento amministrativo in risposta agli inviti, alla sola condizione di dichiarare nel medesimo atto introduttivo di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile.
Non solo, risulterebbe vieppiù difficilmente spiegabile anche quell’altra disposizione – ovvero l’art. 58 d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel testo ratione temporis verosimilmente applicabile alla fattispecie di cui al giudizio a quo – laddove essa afferma che il giudice d'appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile e, soprattutto, laddove riconosce la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti in sede di appello. A quest’ultimo riguardo, si noti che la Corte costituzionale, con sentenza 27 marzo 2025, n. 36, tra l’altro, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 220 (Disposizioni in materia di contenzioso tributario), nella parte in cui prescrive che le disposizioni di cui all'art. 1, comma 1, lettera bb), dello stesso d. lgs. n. 220 del 2023 si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal giorno successivo alla sua entrata in vigore, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo.
Talché, ove l’art. 58 anzidetto – nel testo ratione temporis vigente – risultasse applicabile alla fattispecie, il contribuente potrebbe ritenersi nei termini per produrre, anche in sede di appello, i documenti de quibus.
Da tale breve rassegna – in chiave sistematica – consegue che, stando all’orientamento giurisprudenziale prima segnalato, l’art. 32, comma 3 (oggi comma 4), d.p.r. n. 600/1973, non pare giustificarsi con finalità di tipo strettamente processuale e, pertanto, almeno a tutta prima, potrebbe anche risultare dissonante rispetto al diritto costituzionale alla tutela giurisdizionale, specie sotto il profilo del nemo tenetur se detegere.
In questo senso, anche a prescindere dalla qualificazione della disposizione di cui all’art. 32, comma 3 (oggi comma 4), come sanzione impropria, ovvero come onere, non pare revocabile in dubbio che una simile disposizione risulta dettata nell’interesse alla corretta e spedita acquisizione delle informazioni e dei dati rilevanti ai fini della tassazione – secondo legge – del contribuente.
Senonché, nel caso concreto, una tale disposizione non si rivela effettivamente in grado di significativamente incidere sulla volontà del contribuente di collaborare con il fisco nella fase dell’istruttoria amministrativa.
Difatti – a differenza dell’ipotesi in cui il contribuente è chiamato a collaborare con il fisco essendo indotto a dichiarare, ovvero ad esibire, fatti o documenti a sé sfavorevoli, in guisa tale da, di fatto, contribuire alla propria incolpazione (addirittura anche fornendo le prove di violazioni precedentemente commesse e rilevanti pure in sede penale) – nel caso di specie i documenti richiesti al contribuente non sembrano attenere alla rappresentazione di fatti a questo sfavorevoli, anzi, si potrebbe ritenere che il contribuente ha già, ex sé, tutto l’interesse a renderli noti al fisco (indipendentemente dalla richiesta ex art. 32, comma 1, d.p.r. n. 600/1973). Ne consegue che la questione dell’invocabilità del nemo tenetur se detegere non sembra porsi [sull’insussistenza di qualsivoglia diritto al silenzio nei casi in cui la violazione non sia stata ancora realizzata si veda MARCHESELLI, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali in materia tributaria (spunti critici a margine di Corte Cost. n. 84/2021), in Consulta on line, 7 giugno 2021, p. 460].
D’altro canto, nel caso di specie, sia che si consideri la preclusione in discorso quale sanzione impropria, sia che la si consideri come onere, nella misura in cui essa risulta giustificata dall’interesse fiscale e non confligga con il diritto di difesa, non per questo è da considerarsi illegittima.
Infatti, da altro punto di vista, anche secondo la giurisprudenza costituzionale, è da rilevare che l’interesse fiscale risulta di per sé recessivo di fronte ai diritti inviolabili e, in particolare, al diritto di difesa che, semmai, può risultare limitato ad opera del dovere contributivo, a sua volta espressione del dovere inderogabile di solidarietà in campo economico di cui all’art. 2 Cost. (cfr. Cfr. Corte cost. n. 140/2022, su cui ANTONINI, Il diritto costituzionale tributario nella prospettiva del terzo millennio, in Mastroiacovo, Melis (a cura di), Il diritto costituzionale tributario nella prospettiva del terzo millennio, Torino, 2022, p. 1 ss.).
Tuttavia, nel caso di specie, ove i documenti richiesti dall’Ufficio siano da considerarsi come integralmente favorevoli al contribuente (perché attestanti spese incrementative sostenute e rilevanti ai fini della determinazione della plusvalenza imponibile), e non risultino altresì in alcun modo compromettenti in guisa tale da pregiudicare – con la loro ostensione – il diritto di difesa del privato, non sembra potersi configurare alcuna lesione del diritto del contribuente a non cooperare alla propria alla propria incolpazione, con nessun pregiudizio per il diritto di difesa del medesimo.
Per completezza, a diverse conclusioni si sarebbe potuti giungere qualora i documenti, per i quali è stata eccepita la preclusione rispetto alla loro produzione in giudizio, fossero risultati, almeno in parte, sfavorevoli agli interessi del contribuente (es. libro di giornale, estratti conto bancari, contenenti annotazioni sia favorevoli che sfavorevoli agli interessi del contribuente).
In quest’ultima ipotesi, la tutela da assicurare alla libertà nell’esercizio del diritto di difesa in sede amministrativa, come pure la garanzia della pienezza nell’esercizio del diritto di difesa in sede processuale, potrebbero anche condurre a censurare tutte quelle disposizioni che finiscono per collidere con tali garanzie senza un’adeguata giustificazione, semmai da rintracciarsi nell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, politica, economica e sociale, tra cui, per quanto in questa sede interessa, può senz’altro rintracciarsi il dovere tributario, da non confondere con l’interesse fiscale (al riguardo si veda ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996).
4. Sui poteri officiosi del giudice tributario in guisa tale da superare la preclusione di cui all’art. 32, comma 3 (oggi comma 4), d.p.r. n. 600/1973. Lasciate da parte le questioni relative all’assenza di una qualsivoglia violazione antecedente rispetto alla data in cui è stata formulata la richiesta di documenti da parte dell’Ufficio, come pure lasciata da parte ogni questione in ordine al contenuto non sfavorevole (anzi, in questo caso, decisamente vantaggioso) per il contribuente, dei documenti richiesti, pare utile soffermarsi brevemente sui poteri officiosi del giudice tributario, tanto più che il rimettente si dice contrario a riconoscere qualsivoglia potere del giudice tributario di prestare soccorso istruttorio in favore di una delle parti del giudizio.
Al riguardo, però, è stato anzitutto osservato che i poteri delle Corti di giustizia tributarie non soffrono delle limitazioni poste alle parti nell’istruttoria primaria. Difatti, come messo in rilievo, la stessa giurisprudenza costituzionale ammette che il giudice tributario – anche facendo ricorso alla norma di rinvio di cui all’art. 1, secondo comma, d. lgs. n. 546/1992 – possa, dietro istanza di parte, ordinare alla controparte o ad un terzo l’esibizione in giudizio – ex art. 210 c.p.c. – di qualsivoglia documento ritenuto necessario ai fini del decidere (cfr. Corte cost., sent. n. 109 del 29 marzo 2007).
Peraltro, il principio della parità delle armi tra le parti, davanti ad un giudice terzo e imparziale, non sembra venir messo in discussione allorquando una delle parti abbia comunque dedotto nelle proprie difese fatti e circostanze risultanti da quei documenti che la stessa parte non abbia potuto precedentemente depositare in sede di istruttoria amministrativa (amplius, sia consentito rinviare a COCIANI, Silenzio del contribuente e accertamento del fatto controverso nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 2023, in part. p. 143 ss.).
Al riguardo, si noti poi che la stessa preclusione in parola – come visto giustificata in base all’interesse fiscale (di cui all’art. 53 Cost.) – pare dissonante (e quindi recessiva) rispetto al diritto inviolabile di difesa (di cui all’art. 24 Cost.), di cui il diritto a non cooperare alla propria incolpazione, anche in sede amministrativa, è estrinsecazione (cfr. Corte cost., 30 aprile 2021, n. 84).
In questo senso, pertanto, la stessa giurisprudenza di legittimità sembra riconoscere il potere del giudice tributario di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova, beninteso, non già per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento dell’onere probatorio a rispettivo carico, ma solo in situazioni di obiettiva incertezza in funzione integrativa degli elementi istruttori già in atti (cfr. Cass., Sez. V, n. 12383/2021, Antezza, Rv. 661201-01).
In altre parole, essendo i poteri istruttori del giudice limitati ai fatti dedotti dalle parti, si ritiene che esso possa, seppur in via sussidiaria, acquisire elementi non prodotti, purché necessari ai fini del decidere e, comunque, volti a corroborare fatti (già) emergenti dalle risultanze processuali, stando in ogni caso ben attento a non utilizzare i propri poteri officiosi in guisa tale da tradire la posizione di terzietà che, invece, lo contraddistingue [in tal senso, PISTOLESI, Il giusto processo, in Carinci, Tassani (a cura di), I diritti del contribuente, Principi tutele e modelli di difesa, Milano, 2022, p. 653 s., per la contraria opinione si veda SARTORI, I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, p. 189 ss. e, in partic., p. 209 ss.].
5. Sul potere del fisco di acquisire, d’ufficio, documenti e informazioni di cui sia già in possesso. Per completezza, anche sotto il profilo della rilevanza della questione sollevata nell’ordinanza, è altresì appena il caso di osservare che nel procedimento tributario opera il principio secondo cui al contribuente non possono essere richiesti documenti e informazioni già in possesso dell’a.f. (cfr. l. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 4, secondo cui: «Al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente. Tali documenti ed informazioni sono acquisiti ai sensi dell'articolo 18, commi 2 e 3, della legge 7 agosto 1990, n. 241, relativi ai casi di accertamento d'ufficio di fatti, stati e qualità del soggetto interessato dalla azione amministrativa»).
Sicché, ove i documenti e le informazioni rilevanti siano già in possesso della stessa amministrazione finanziaria, essi debbono essere acquisiti d’ufficio. In questo senso si veda la giurisprudenza di legittimità (Cass., 23 gennaio 2025, n. 1666, in precedenza si vedano altresì: Cass., 21 gennaio 2015, n. 958; Cass., 22 giugno 2018, n. 16548; Cass., 23 marzo 2007, n. 7138; Cass. 2 marzo 2004, n. 4239; Cass. 20 giugno 2000, n. 8340).
Talché, la mancata esibizione di documenti in sede amministrativa, tanto più se favorevoli al contribuente, non può assumere rilevanza per quanto in questa sede interessa laddove gli stessi documenti (es. atto di provenienza e fatture) siano già in possesso della stessa amministrazione finanziaria che, quindi, può direttamente servirsene senza chiederli al contribuente.
Quanto al possesso in capo alla stessa amministrazione finanziaria dei documenti richiesti dall’Ufficio accertatore, pur non ravvisandosi indicazioni di sorta nell’ordinanza, può senz’altro ritenersi che l’atto di compravendita (del terreno fabbricabile), verosimilmente, sarà stato stipulato per atto pubblico e, conseguentemente, sarà stato registrato presso la stessa a.f.; quanto poi ai documenti relativi alle spese incrementative sostenute, ove queste risultino rappresentate da fatture elettroniche (cfr. l. 11 marzo 2014, n. 23 e al d. lgs., 5 agosto 2015, n. 127), le medesime potrebbero anche risultare conservate dalla stessa a.f., e, in ogni caso, le fatture elettroniche, anche se relative alla sfera privata del contribuente, risultano de plano consultabili dalla stessa amministrazione tributaria che, proprio per questo, è così messa in grado di tracciare i relativi pagamenti. Peraltro, nella misura in cui l’Agenzia delle Entrate mette a disposizione di tutti i contribuenti residenti e stabiliti in Italia, in apposita area riservata del sito internet dell’Agenzia stessa, tra gli altri, i dati contenuti nelle fatture elettroniche, è evidente che la stessa conosce e dispone i/dei dati relativi a corrispettivi, quantità e tipologia dei beni e servizi riportati in ogni singola fattura elettronica.
Pertanto, ove i documenti e le informazioni, rilevanti ai fini della determinazione della base imponibile in capo al contribuente, risultassero già in possesso dell’a.f. alla data della richiesta istruttoria formulata (ad esempio perché contenuti in atto pubblico registrato, ovvero in fatture elettroniche), lo stesso Ufficio non avrebbe potuto formalmente servirsi dei relativi poteri a tal fine previsti, né, tantomeno, considerare acclarata la preclusione di cui all’art. 32, commi 3 e 4 (oggi commi 4 e 5), d.p.r. n. 600/1973.
6. Conclusioni. In conclusione, seppure l’ordinanza in questa sede annotata abbia l’indubbio merito di richiamare l’attenzione sulla questione della legittimità costituzionale delle sanzioni, proprie o improprie che siano (ovvero, in ogni caso, delle negative conseguenze), che possono derivare al contribuente che si sia consapevolmente rifiutato di collaborare con l’a.f. nell’esercizio del suo diritto di non essere costretto a cooperare alla propria incolpazione – nell’esercizio dei propri diritti fondamentali di libertà, di difesa e al giusto processo –, a parere di chi scrive, le peculiarità del caso di specie (anzitutto l’inesistenza di una violazione anteriore alla richiesta istruttoria e il contenuto decisamente favorevole al privato dei documenti dall’Ufficio indicati nell’invito) lasciano supporre che occorrerà ancora attendere per vedere espressamente riconosciuto in sede tributaria il principio secondo cui nemo tenetur se detegere.
D’altronde, la giurisprudenza, dovendo risolvere singoli casi, non può essere chiamata a sistematizzare ma, non per questo, il percorso dalla stessa intrapreso risulta privo di rilevanza, anche quando esso debba necessariamente far registrare delle battute d’arresto, specie se dovute alle peculiarità del caso concreto.