argomento: IVA - Giurisprudenza
La pronuncia in commento affronta il tema della ripartizione dell’onere della prova nelle contestazioni di operazioni soggettivamente inesistenti. La posizione assunta dalla Cassazione, che ritiene sufficiente la prova della fittizietà del fornitore ai fini della presunzione di consapevolezza o di colpevole ignoranza del contribuente, pone legittimi interrogativi in merito alla sua compatibilità con importanti principi sanciti dalla stessa Cassazione e della Corte di Giustizia UE, i quali richiedono una rigorosa analisi degli indizi oggettivi rilevabili dall’operatore economico. In tale contesto, dunque, con il presente contributo si coglie l’occasione per riflettere su un aspetto cruciale della materia: la necessità di bilanciare l’efficacia dell’azione amministrativa nel contrasto alle frodi con la tutela delle garanzie difensive del contribuente, evitando derive che rischiano di istituire un sistema di responsabilità oggettiva.
» visualizza: il documento (Corte di Cass., ord., 22 aprile 2024, n. 10845)PAROLE CHIAVE: operazioni soggettivamente inesistenti - onere della prova - frodi fiscali - presunzioni - ignoranza
di Renato Bellesini
1. Con l’ordinanza n. 10845/2024 la Suprema Corte di Cassazione è tornata a esprimersi in tema di operazioni soggettivamente inesistenti ribadendo noti e oramai consolidati orientamenti giurisprudenziali. Il provvedimento de quo, più nel dettaglio, ha esaminato una controversia instaurata a seguito dell’impugnazione degli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate, in contrasto con numerose risultanze documentali, aveva contestato a un’impresa l’effettiva realizzazione di talune operazioni.
Ripercorrendo brevemente i fatti di causa, emerge che innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Catania il ricorso del contribuente era stato rigettato. Nel secondo grado di giudizio, invece, la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, aveva ritenuto che l’Amministrazione non avesse assicurato la prova del giusto fondamento della pretesa tributaria, all’uopo riformando la decisione dei giudici di prime cure e, dunque, annullando gli atti impositivi impugnati.
L’Agenzia delle Entrate, non condividendo siffatte conclusioni, aveva proposto ricorso per Cassazione chiedendo, inter alia, che gli Ermellini si esprimessero in merito alla validità del procedimento inferenziale che aveva condotto i giudici del secondo grado a ritenere che non fosse stata assicurata la prova della partecipazione della società ad operazioni inesistenti soggettivamente.
Ebbene, ribadendo massime di esperienza diffusamente affermate in precedenti pronunce, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria. In particolare, i giudici di legittimità hanno rilevato come l’Agenzia avesse ampiamente dimostrato che le operazioni commerciali concluse con la società fornitrice “erano soggettivamente inesistenti, poiché quest’ultima società non era operativa, e non era in grado di concludere operazioni effettive. Avrebbe allora dovuto essere la contribuente accertata […] ad assicurare la prova di aver usato la diligenza richiesta per evitare di essere coinvolta in fatti di evasione fiscale, ma la ricorrente neppure allega di avere fornito una simile dimostrazione”.
2. Come si avrà modo di meglio chiarire nel prosieguo, l’ordinanza in questione – in particolare là dove afferma che se un “partner commerciale non è in grado di svolgere attività d’impresa, anche la committente risulta coinvolta nella partecipazione ad operazioni commerciali soggettivamente inesistenti” – legittima l’utilizzo di presunzioni dello stato soggettivo del committente sulla base della mera inesistenza del fornitore. Alla luce della richiamata pronuncia, dunque, appare opportuno muovere talune considerazioni critiche in ordine alla disciplina dell’onere della prova nell’ambito delle contestazioni di operazioni soggettivamente inesistenti.
3. A tal fine appare anzitutto necessario, oltre che utile, ricordare la nozione di operazioni soggettivamente inesistenti. Il D.Lgs. n. 74/2000 (recante la disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto), all’art. 1 definisce le fatture per operazioni inesistenti come quei documenti “emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”. Come emerge dalla citata disposizione, il legislatore tributario ha inteso tipizzare tre distinte casistiche:
i) la fatturazione di operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto afferenti a rapporti commerciali che, sebbene documentati, non sono mai stati posti in essere;
ii) la sovrafatturazione di operazioni realmente esistenti, là dove il documento fiscale espone un corrispettivo più elevato rispetto all’effettivo valore delle prestazioni rese, ovvero dei beni ceduti;
iii) la fatturazione di operazioni soggettivamente inesistenti, rinvenibile quando, benché la transazione risulti concretamente realizzata e correttamente prezzata, il soggetto che ha emesso la fattura differisce da quello che ha effettuato l’operazione.
Tale ultima fattispecie, contestata al contribuente nel giudizio in esame, risulta frequentemente impiegata per la realizzazione di frodi IVA. In particolare, si verifica che il reale fornitore svolge le sue attività in maniera “clandestina”, senza emettere alcun documento fiscale, laddove il fornitore apparente incassa l’IVA indicata in fattura evadendone il versamento e sottraendosi ai supposti obblighi fiscali (per ulteriori approfondimenti sul tema, si veda LEO, Operazioni soggettivamente inesistenti: la giurisprudenza di legittimità delimita i controlli, in Corr. Trib., 2022, 3, p. 240 ss., nonché la Circolare n. 1/2018 della Guardia di Finanza, Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, Vol. I, parte II, cap. I, p. 155 ss.).
Il denominatore comune delle anzidette frodi connesse all’emissione e all’utilizzo di fatture documentanti operazioni soggettivamente inesistenti, a prescindere dal grado di complessità che le caratterizza (e.g. frodi di tipo triangolare o frodi c.d. carosello), è rappresentato dalla circostanza che l’impresa emittente risulti essere una costruzione essenzialmente artefatta. Il fornitore, invero, sebbene appaia quale impresa operativa, si sostanzia in un’entità fittizia creata al solo scopo di emettere le fatture impiegate per l’attuazione di siffatte frodi fiscali. Più nel dettaglio, tali imprese, comunemente definite “cartiere”, sono incapaci di svolgere alcuna reale attività economica e presentano le seguenti caratteristiche peculiari ricorrenti:
i) affidano il ruolo di amministratore a persone avulse dal contesto imprenditoriale cui appartiene l’impresa nonché, sovente, di nazionalità estera e irreperibili (c.d. teste di legno);
ii) omettono di presentare le dichiarazioni fiscali e non adempiono agli obblighi di versamento dei tributi;
iii) non hanno sedi operative e le loro sedi legali risultano essere dei meri indirizzi di domiciliazione postale;
iv) sono prive della pur minima dotazione di personale, di mezzi e strumenti tecnici necessari a svolgere una concreta attività di impresa (per ulteriori contributi sulle caratteristiche delle cartiere, si vedano: Cass. pen., Sez. III, sent. 8 febbraio 2019, n. 6262; Cass. pen., Sez. III, sent. 20 agosto 2019, n. 36247; Cass. pen., Sez. III, sent. 18 settembre 2019, n. 38599).
4. In tale prospettiva, qualora l’Amministrazione finanziaria intenda contestare a un contribuente di aver utilizzato fatture attinenti a operazioni soggettivamente inesistenti, sulla stessa ricade l’onere di provare anzitutto che l’operazione commerciale è stata realizzata da un soggetto economico diverso da quello risultante dalla fattura, senza che, al contempo, debba esser individuato il reale – ma occulto – fornitore. A tal fine, per la giurisprudenza, l’Amministrazione può fondare la propria contestazione su elementi presuntivi e indiziari, come la circostanza che il soggetto fatturante sia privo di una struttura organizzativa – g. personale, locali, utenze e mezzi – idonea ed essenziale per poter compiere qualsivoglia operazione commerciale (per ulteriori approfondimenti sugli accertamenti richiesti all’Amministrazione si vedano, ex multis, le seguenti pronunce della Suprema Corte: Cass. civ., Sez. V, ord. 4 luglio 2024, n. 18313; Cass. civ., Sez. V, sent. 5 settembre 2023, n. 25981; Cass. civ., Sez. V, ord. 20 luglio 2020, n. 15369; Cass. civ., Sez. V, sent. 27 febbraio 2020, n. 5339; in ambito comunitario, invece, si veda la Corte di Giustizia UE, 11 novembre 2021, causa C-281/20, Kemwater ProChemie s.r.o.).
5. Con riferimento a tale preliminare indagine va segnalato che nel giudizio de quo, come correttamente riportato nella ricostruzione della Cassazione, le indagini effettuate sul fornitore avevano portato l’Agenzia ad accertare che lo stesso non era in grado di operare, non essendo state rinvenute “strumentazioni, attrezzi edili, macchinari o beni strumentali”. Alla luce dei richiamati elementi indiziari, dunque, l’Ente impositore risultava aver ampiamente dimostrato che la formale controparte del contribuente si sostanziava in una mera cartiera.
6. Una volta appurata la fittizietà del fornitore, secondo copiosa e concorde giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. civ., Sez. V, ord. 28 dicembre 2022, n. 37889, Cass. civ., Sez. V, sent. 20 dicembre 2021, n. 40690, Cass. civ., Sez. VI, ord. 11 novembre 2020, n. 25426, Cass. civ., Sez. V, ord. 24 agosto 2018, n. 21104, Cass. civ., Sez. Unite, sent. 12 settembre 2017, n. 21105), l’Amministrazione ha (o almeno avrebbe) anche l’onere di dimostrare la mala fede, ovvero l’imperizia, del soggetto che ha intrattenuto rapporti commerciali con la presunta cartiera. Al contribuente, infatti, potrà essere legittimamente contestata la frode fiscale là dove venga dimostrata, alternativamente, la sua:
i) fattiva collaborazione nella realizzazione del disegno fraudolento (partecipazione attiva alla frode);
ii) consapevolezza che l’operazione compiuta si inseriva in uno schema di evasione fiscale (passiva, ma consapevole, partecipazione alla frode);
iii) colpevole ignoranza del fatto che il fornitore, in quanto società cartiera, non era in grado di concludere operazioni commerciali (inconsapevole partecipazione alla frode per negligenza).
Al riguardo, è ormai pacifica in giurisprudenza l’affermazione per cui l’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente accertare la fattiva partecipazione del contribuente alla frode, ovvero la sua conoscenza dello schema delittuoso ideato da terzi, bensì le basta dimostrare che il contribuente avrebbe dovuto sapere, impiegando l’ordinaria diligenza in relazione alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in un’evasione fiscale (COFENTE-GENTINA, Operazioni soggettivamente inesistenti: rileva solamente la prova della consapevolezza della frode IVA – Commento, in Il Fisco, 2021, 27, p. 2685 ss.; ZAPPI, Fatture false: criticità e soluzioni operative della “non frode”, in Il Fisco, 2018, 34, p. 3254 ss.). In altri termini, per poter eccepire la colpevole ignoranza del contribuente, l’Amministrazione potrà sostenere – sulla base di elementi oggettivi, anche presuntivi – che il contribuente medesimo dispone di indizi idonei a metterlo in allerta (così come sarebbe stato per qualunque imprenditore onesto, nonché mediamente esperto) in merito alla sostanziale inesistenza del fornitore.
7. Nell’ordinanza in commento, tuttavia, un simile riscontro non emerge. Questo, pertanto, costituisce l’elemento caratterizzante e censurabile del provvedimento in esame.
8. La Suprema Corte, invero, risulta aver sterilmente riportato noti precedenti giurisprudenziali secondo i quali “la prova, fornita dall’Amministrazione, che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante […] costituisce, di per sé, per la sua pregnanza dimostrativa, idoneo elemento sintomatico dell’assenza di “buona fede” del contribuente. L’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore - fatturante - cessionario o committente) induce, invero, ragionevolmente ad escludere in via presuntiva – a fronte della conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica – l’ignoranza incolpevole del cessionario”. La Cassazione, dunque, ha espressamente ritenuto che la sola dimostrazione dell’inesistenza del fornitore – unica ricostruzione indubbiamente fornita dall’Agenzia – fosse sufficiente ai fini dell’assolvimento del più complesso e articolato onere della prova posto ex lege a carico dell’Amministrazione.
9. Tale conclusione, a parere dello scrivente, risulta sia estremamente semplicistica, sia in aperto contrasto con l’importante principio, più volte sancito in giurisprudenza in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, secondo il quale la colpevolezza del contribuente debba essere dimostrata “in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore” (come recentemente ribadito dalla Cass. civ., Sez. V, ord. 30 dicembre 2024, n. 34929). Anche in sede euro-unitaria, invero, è stato chiarito che la mera circostanza che i servizi “non sarebbero stati effettivamente forniti dal prestatore menzionato nelle fatture o dal suo subappaltatore segnatamente perché costoro non avrebbero disposto del personale, delle risorse materiali e degli attivi necessari […] non sarebbe sufficiente, in sé stessa, a escludere il diritto a detrazione” e, dunque, a contestare la frode all’acquirente dei servizi (cfr. Corte di Giustizia UE, 13 febbraio 2014, causa C-18/13, Maks Pen).
A opinione dello scrivente, dunque, con la pronuncia in questione la Cassazione sembrerebbe discostarsi dalla regola per cui il riscontro dell’inesistenza del fornitore non potrebbe, da solo, comportare l’accertamento dell’elemento soggettivo della consapevolezza – ovvero della colpevole ignoranza – del contribuente.
L’Amministrazione dovrebbe, invece, quantomeno dimostrare che il contribuente, nel compimento dell’operazione commerciale, si sarebbe dovuto imbattere – all’uopo motivando tale affermazione (melius, presunzione) – in indizi dell’inesistenza del fornitore o, comunque, in segnali di irregolarità dell’operazione.
10. Pertanto, l’immediatezza dei rapporti, tipica delle frodi IVA di natura triangolare, non potrebbe – da sola e in modo automatico – far presumere la conoscenza di ciò che l’Amministrazione è arrivata ad accertare a seguito di specifiche indagini sul fornitore (e. la sua sostanziale inesistenza). Tale contiguità, peraltro nemmeno ricondotta a una comprovata familiarità o connessione, bensì al solo fatto che il contribuente abbia operato in via diretta con la cartiera, dovrebbe al più essere considerata – nell’insieme – mettendo a sistema tutti gli elementi oggettivi e specifici caratterizzanti l’operazione commerciale attenzionata. A prescindere dalla complessità della frode fiscale, infatti, risulta sempre indispensabile che, alla base della presunta mancanza di buona fede del contribuente, l’Amministrazione ponga un’approfondita analisi del rapporto commerciale intercorso tra i due soggetti, indagandone le peculiarità (e.g. le modalità di esecuzione, il livello dei prezzi adottati, le condizioni di pagamento, la periodicità e i mezzi di contatto utilizzati, etc.), così da stabilire se nel compimento dello stesso possano emergere segnali di irregolarità che un imprenditore diligente avrebbe dovuto rilevare.
11. Per una più immediata percezione dell’importanza di simili verifiche e, quindi, della comprensione che l’Ente accertatore deve acquisire sulla natura dell’operazione, si pensi, a titolo esemplificativo, al caso dei rapporti commerciali intrattenuti nell’ambito dell’e-commerce. Le specificità degli acquisti online, infatti, escludono che l’acquirente possa facilmente avvedersi di indizi circa l’inesistenza del fornitore, sicché, in simili casi, la buona fede del contribuente, in termini di incolpevole ignoranza, in tali contesti è stata confermata dalla Suprema Corte (cfr. Cass. civ., Sez. VI, ord. 2 febbraio 2022, n. 3144) sebbene l’Amministrazione avesse adeguatamente dimostrato l’assoluta incapacità operativa del fornitore.
12. Alla luce dei principi richiamati, dunque, si ritiene che l’ordinanza in commento debba essere censurata là dove la Cassazione ha contestato l’assenza di buona fede del contribuente senza dare atto dell’esistenza di un’indagine – oltre che sull’esistenza del fornitore – sulle caratteristiche del rapporto commerciale e, quindi, sulla ragionevole possibilità che il contribuente avesse contezza dell’incapacità operativa del fornitore, ovvero disponesse di indizi di irregolarità che avrebbero indotto un qualsiasi operatore diligente e accorto ad attivare delle verifiche sul fornitore. Si sarebbe piuttosto dovuto dare seguito a quelle sentenze in cui la Suprema Corte ha ribadito (si vedano, ex multis: Cass. civ., Sez. V, ord. 22 gennaio 2024, n. 2163; Cass. civ., Sez. V, sent. 1° dicembre 2023, n. 33620; Cass. civ., Sez. V, sent. 5 settembre 2023, n. 25891; Cass. civ., Sez. V, sent. 31 luglio 2019, n. 20587; Cass. civ., Sez. V, sent. 20 aprile 2018, n. 9851) che solo in presenza di segnali di irregolarità o di una potenziale evasione potrà essere pretesa dal contribuente l’effettuazione di verifiche – di portata ridotta rispetto alle investigazioni astrattamente promuovibili dagli uffici finanziari – al fine di comprendere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore (è stata ravvisata, infatti, la presenza di due livelli di diligenza richiesti al contribuente: una ordinaria, che ogni soggetto passivo dovrebbe adottare nell’effettuazione delle proprie operazioni economiche; una rafforzata, da attivare in presenza di evidenze di possibili irregolarità. CANNAS, L’onere dimostrativo nelle “frodi carosello” e il diritto alla detrazione: note a margine della sentenza Aquila Part pronunciata dalla Corte di giustizia nella causa C-5112/21, in Dir. e prat. trib. int., 2023, 2, p. 648 ss.).
13. Tali conclusioni dovrebbero ora essere ancor più valide alla luce delle modifiche – pur se da alcuni non ritenute innovative – apportate dal nuovo comma 5 bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, introdotto dall’art. 6 della L. n. 130/2022 e applicabile ai giudizi instaurati successivamente al 16 settembre 2022 (si veda, TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2024, p. 191 ss.).
Si tratta della nota disposizione che ha istituito una disciplina generale, fino ad allora assente nella normativa tributaria, riguardante la ripartizione dell’onere della prova e il vaglio che il giudice adito dovrà effettuare su tali prove (si vedano DELLA VALLE, La “nuova” disciplina dell’onere della prova nel rito tributario, in Il Fisco, 2022, 40, p. 3807 ss.; DEOTTO-LOVECCHIO, L’Amministrazione prova in giudizio i rilievi contenuti nell’atto impugnato, in Il Fisco, 2022, 39, p. 3713 ss.; MULEO, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, p. 603 ss.).
14. Essa, sebbene abbia riscosso un generale apprezzamento da parte degli operatori di settore, ha fin dalla sua istituzione generato accesi dibattiti interpretativi – giunti anche innanzi alla Cassazione – riguardanti, inter alia, il suo rapporto con l’art. 2697 c.c. e il connesso standard probatorio adottato in sede civilistica.
Chiamata a risolverli, la Cassazione ha fornito un’interpretazione assai riduttiva (ovvero «svalutativa», secondo GALLO, Brevi considerazioni in materia di onere della prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria e dello statuto dei diritti del contribuente, in Tax News, 2024, p. 1 ss.) della portata del comma 5 bis. Per i giudici di legittimità detta disposizione non istituirebbe “un onere probatorio diverso o più gravoso” rispetto a quanto già previsto nell’art. 2697 c.c.
Di avviso estremamente opposto, invece, si è dimostrata essere un’ampia platea della dottrina (si vedano, ex multis: MOSCHETTI, Il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo, in Riv. tel. dir. trib., 2023, p. 243 ss.; DONATELLI, L’onere della prova nella riforma del processo tributario, in Rass. trib., 2023, 1, p. 25 ss.; MARINELLO, Processo tributario e controversie in materia di transfer pricing, in Riv. trim. dir. trib., 2022, 4, p. 775 ss.; MERCURI, Onere della prova: dal contributo di Allorio alla recente riforma del processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2022, 3, I, p. 324 ss.), così come la magistratura tributaria di merito (si veda, fra tutte, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Caserta, Sez. 12, sent. 27 aprile 2023, n. 1866). Tutti costoro hanno rilevato come l’art 2697 c.c. debba essere considerato oramai superato dal citato comma 5 bis. Quest’ultimo, infatti, avrebbe introdotto nell’ordinamento tributario un nuovo e più stringente standard con riferimento alla prova che l’Amministrazione deve fornire a sostegno delle violazioni contestate, prevedendo che il giudice debba annullare l'atto impositivo qualora tale prova manchi, sia contraddittoria o “insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni”.
15. In questa prospettiva, il riferimento a una prova che deve essere “circostanziata e puntuale”, così come il richiamo alle “ragioni oggettive”, andrebbe piuttosto inteso nel senso di imporre un incremento del livello di rigore preteso nella formazione della prova dell’Amministrazione (vi è chi ha sottolineato, invero, che il linguaggio impiegato dal legislatore, ricco di aggettivi qualificativi che richiamano la precisione e l’accuratezza, faccia desumere proprio la volontà di pretendere una prova “forte, congrua, univoca e attendibile”; cfr. VIOTTO, Prime riflessioni sulla riforma dell’onere della prova nel giudizio tributario, in trib., 2023, 2, p. 331 ss.).
16. L’effetto dell’adozione di tale nuovo standard probatorio, più stringente e prossimo al modello penale del “oltre ogni ragionevole dubbio” in luogo del “più probabile che non” di matrice civilistica, dovrebbe essere quello di rendere più rigoroso il vaglio dei giudici in ordine alla legittimità e correttezza dei procedimenti inferenziali sui quali si fondano le pretese impositive, anche con riferimento alla fattispecie delle operazioni soggettivamente inesistenti. Conseguentemente, gli automatismi inferenziali che – come nell’ordinanza in commento – escludono in sé e per sé la buona fede del contribuente sulla base del solo accertamento dell’inidoneità operativa del fornitore, dovranno viepiù alla luce del nuovo comma 5 bis essere considerati inammissibili, non garantendo – ictu oculi – l’acquisizione di elementi sufficienti a dimostrare, in maniera “circostanziata, puntuale e oggettiva” – ovvero, al di là di ogni ragionevole dubbio – la partecipazione del contribuente al meccanismo fraudolento (per ulteriori contributi critici in merito all’utilizzo delle presunzioni giurisprudenziali in luogo del necessario vaglio dell’elemento soggettivo del contribuente, si vedano: FIDELANGELI, La rilevanza della prassi amministrativa in materia di prova della partecipazione a una frode IVA, in tel. dir. trib., 2024, 2, p. 1 ss.; GOLISANO, Riflessioni in ordine all’impatto del nuovo comma 5bis, art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 in riferimento alle imposte indirette, in Riv. tel. dir. trib., 2023, p. 173 ss.; SALVATI, Regime probatorio nelle frodi IVA da inesistenza soggettiva e responsabilità per fatto altrui, in Riv. tel. dir. trib., 2022, p. 719 ss.; PATTI, Note in tema di presunzioni semplici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2020, 3, p. 891 ss.; TARUFFO, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 739 ss.).
17. In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, si ritiene che nell’ordinanza n. 10845/2024 la Suprema Corte abbia impropriamente avallato l’automatica presunzione dell’elemento soggettivo del contribuente effettuata dall’Amministrazione finanziaria. Più nello specifico, a fronte della pedissequa riproposizione di note e risalenti presunzioni giurisprudenziali, la Cassazione ha erroneamente giudicato sufficiente l’accertamento dell’Amministrazione fondato esclusivamente sull’inesistenza del fornitore. Dall’esame del provvedimento de quo, infatti, emerge come l’Ente impositore non abbia condotto alcuna indagine sulle specificità dell’operazione commerciale, ignorando di valutare se il contribuente avesse avuto effettivamente la possibilità di rilevare indizi di irregolarità.
18. L’adozione di simili accertamenti dell’elemento soggettivo non può essere accolta non solo perché risultano, come detto, in aperto contrasto con i principi sanciti dalla giurisprudenza comunitaria, ma anche perché rischiano di determinare effetti distorsivi sul sistema. In particolare, la radicalizzazione di simili posizioni potrebbe tradursi nell’istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva che non solo “andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario” (Corte di Giustizia UE, 1° dicembre 2022, causa C-512/21, Aquila Part Prod), ma che darebbe anche luogo a un clima di incertezza e apprensione, tale da scoraggiare gli imprenditori dal concludere operazioni commerciali, con potenziali ripercussioni negative sia sul commercio sia sull’intera economia. In tale contesto, con riferimento all’accertamento dell’elemento soggettivo del contribuente, appare piuttosto necessario un approccio equilibrato e ancorato a una rigorosa analisi del caso concreto, così da garantire un’applicazione giusta e proporzionata delle norme, tutelando al contempo il dinamismo del tessuto imprenditoriale.