Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

18/07/2023 - Il modello della società tra avvocati e le ragioni (fiscali) del suo sostanziale fallimento

argomento: IRES - Legislazione e prassi

Il Legislatore italiano ha da tempo previsto che l’attività degli avvocati possa essere svolta in forma collettiva attraverso il modello della società tra avvocati. Tuttavia, manca ad oggi una organica disciplina fiscale, che -salvo rare eccezioni- è affidata all’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate e della giurisprudenza. L’incertezza che ne scaturisce può costituire una delle ragioni dello scarso successo di questa forma di svolgimento dell’attività finora, sebbene il contesto di crisi economica e professionale renda urgente l’agevolazione del ricorso a forme di aggregazione tra avvocati.

PAROLE CHIAVE: società tra avvocati - reddito di impresa - regime forfettario - operazioni di aggregazione


di Stefano Dorigo

  1. Il tema del regime fiscale delle società tra avvocati rappresenta uno degli esempi, piuttosto numerosi purtroppo, nei quali la regolamentazione di un nuovo istituto da parte del Legislatore si dimentica dei correlati profili fiscali. Con la conseguenza che, per quanto tale istituto possa in astratto essere utile per determinati settori economici, esso stenta ad essere applicato dal momento che l’incertezza che ne scaturisce sul versante del suo trattamento fiscale allontana i potenziali fruitori dal farne ricorso.

In effetti, sin dal 2001 il nostro ordinamento ha introdotto la possibilità che l’attività forense sia svolta in comune da più avvocati mediante la costituzione di una società tra avvocati, che d’ora innanzi indicherò, per comodità, come STA (su tale novità, si vedano, tra gli altri, Ficari, “La società fra avvocati nell’imposizione sul reddito”, in Rassegna tributaria, 2002, p. 891 ss. e Schiavolin, “Prime riflessioni sul trattamento della "neonata" società tra avvocati ai fini delle imposte sui redditi”, in Rivista di diritto tributario, 2001, I, p. 1007 ss.). Si è trattato di un esperimento mosso, tra l’altro, dalla constatazione della crisi del modello individualistico di svolgimento della professione legale, in un contesto economico denso di difficoltà ed al cospetto di una progressiva specializzazione che richiede, da un lato, che il singolo professionista si dedichi ad approfondire specifici settori connotati spesso (come nella materia tributaria) da un elevato tecnicismo; dall’altro, l’esigenza di partecipare ad organizzazioni che consentano di mettere in comune esperienze diverse per poter intercettare casi che richiedono un approccio multidisciplinare.

Da questo punto di vista, il tradizionale ricorso all’associazione professionale, ente senza alcuna soggettività giuridica, appariva ormai obsoleto, anche per il fatto che tale embrionale forma organizzativa non pare poter garantire un adeguato supporto per gli ingenti investimenti che, oggi, un moderno studio legale deve sostenere per innovarsi e crescere.

Il modello della STA, che è stato in parte rivisto nei suoi caratteri civilistici per effetto di una serie di interventi normativi di cui si farà cenno in seguito, è nato tuttavia orfano di alcuna regolamentazione fiscale, in primo luogo per quel che concerne la natura del reddito prodotto attraverso una società di capitali dedita allo svolgimento di una attività di tipo professionale. Allo stesso tempo, sono mancate indicazioni normative per quanto attiene alle operazioni volte alla trasformazione di una precedente attività professionale svolta individualmente (o, al massimo, nel contesto di una associazione professionale) in una società tra avvocati. Si è trattato di una mancanza grave, che ha di fatto lasciato l’individuazione delle regole applicabili nelle mani dell’amministrazione finanziaria e che, quindi, ha in qualche modo prodotto un effetto dissuasivo al ricorso a tale forma organizzativa, nel timore che esso potesse condurre ad un eccessivo onere fiscale ovvero a futuri contenziosi con l’Agenzia delle Entrate.

I dati sin qui disponibili sul numero di società tra avvocati iscritte negli albi degli ordini sparsi per l’Italia mostrano un evidente disinteresse dei legali per il ricorso ad esse, una constatazione che può probabilmente giustificarsi anche con l’incertezza del relativo regime tributario. A ben vedere, e se ne darà conto in conclusione, l’unico ambito nel quale il Legislatore è intervenuto riguarda il possibile trascinamento del regime forfettario goduto dal professionista individuale nell’ambito di una società professionale alla quale egli decida di partecipare. Tuttavia, anche in questo caso, l’evidente laconicità del testo di legge che ha individuato le condizioni ed i limiti per il mantenimento del regime agevolativo attribuisce uno spazio eccessivo alle interpretazioni dell’amministrazione finanziaria.

Nei primi mesi della nuova legislatura vi era dunque da aspettarsi una riflessione seria ed organica sul regime fiscale di queste forme di aggregazione, al fine di sostenere l’esercizio in comune della professione legale in un momento di perdurante grave crisi, scandita dai tanti abbandoni e dal crescente disinteresse dei giovani laureati verso la carriera libero-professionale. Come si vedrà, il Legislatore pare aver preso sul serio tale esigenza, inserendo nel disegno di legge delega per la riforma tributaria, attualmente in discussione in Parlamento, una disposizione molto chiara nel senso della neutralità fiscale delle operazioni di aggregazione professionale, con l’obiettivo di dare nuovo slancio alle forme innovative di esercizio in comune dell’attività intellettuale.

 

  1. Il primo profilo problematico del trattamento fiscale delle società tra avvocati riguarda la natura del reddito da esse prodotto. Stupisce, al riguardo, il silenzio del Legislatore, sia perché -banalmente- si tratta del primo e basilare profilo che caratterizza il regime impositivo di una certa attività, sia ancor più dal momento che il tipo della società tra avvocati mette in comunicazione due ambiti sin qui tenuti fortemente separati, ovvero quello del reddito di lavoro autonomo e quello del reddito d’impresa.

In effetti, è noto il dibattito che si è animato, in passato, in relazione alla natura del reddito prodotto dal professionista esercente attività “protetta”, ovvero necessitante dell’iscrizione ad un ordine professionale, che impieghi, a sostegno della propria attività intellettuale, un apparato di mezzi e persone di elevata organizzazione (Sacchetto, I redditi di lavoro autonomo: nozione e disciplina tributaria, Milano, 1984). Per lo più, ha sin qui prevalso la tesi di chi valorizza l’apporto intellettuale del professionista iscritto ad albo, che continua ad essere essenziale anche in un contesto, per l’appunto, caratterizzato da un complesso organizzativo (Fantozzi, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell'IVA, Milano, 1992, p. 112), precisandosi che solo nel caso di attività diverse da quelle sin qui considerate (quindi “non protette”) si potrebbe tracimare nell’ambito del reddito d’impresa in presenza di una organizzazione particolarmente rilevante (Boria, Il sistema tributario, Milano, 2008, p. 286. Sembra, invece, postulare questa potenziale trasformazione della natura del reddito a tutti i casi di “etero-organizzazione”, a prescindere dal tipo di attività autonoma svolta, Zizzo, “L’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF)”, in Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte in Italia, 13 ed., Milano, 2021, p. 265).

Del resto, che un’attività professionale possa essere svolta con un corredo organizzativo anche rilevante, senza per questo perdere il proprio connotato essenziale, sembra essere il portato dell’esito della querelle sull’assoggettamento dei professionisti all’IRAP da parte della Corte costituzionale, prima, e delle Sezioni Unite della Cassazione, poi (su tale approdo, Ficari, “Brevi note su lavoro autonomo autonomamente organizzato e lavoro autonomo coordinato e continuato nel presupposto Irap”, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, 2003, p. 84 ss.).

Peraltro, la natura sfuggente del confine tra reddito d’impresa e reddito professionale nel caso di forme organizzative complesse dell’attività avrebbe suggerito che il Legislatore, nel momento in cui consentiva l’esercizio dell’attività professionale avvalendosi di un mezzo tipicamente rivolto allo svolgimento di una attività commerciale, puntualizzasse, in un senso o nell’altro, la natura del reddito che sarebbe stato prodotto in tal modo.

Il silenzio, come detto, ha viceversa alimentato ricostruzioni disarmoniche, suscitando -come si vedrà- anche un contrasto interpretativo tra Agenzia delle Entrate e Corte di cassazione.

In effetti, l’art. 16 del D.Lgs. 96/2001, nel prevedere che “l’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio può essere esercitata in forma comune esclusivamente secondo il tipo della società tra professionisti, denominata nel seguito società tra avvocati”, sembrava separare la forma societaria destinata all’esercizio in comune tra più avvocati dell’attività legale dai tipi ordinari di società di capitali, introducendo un tipo speciale di società, la STA per l’appunto. Ciò che avrebbe potuto sottintendere una volontà di non inglobarla nel regime fiscale ordinario proprio delle società di capitali.

In questo senso si è espressa l’Agenzia delle Entrate, la quale -con la risoluzione 118/E del 26 maggio 2003- aveva affermato che il reddito prodotto da una STA costituisce pur sempre reddito di lavoro autonomo, proprio perché essa non è riconducibile ad alcuno dei tipi societari previsti dal codice civile, ai quali soli si applica la disciplina sul reddito d’impresa con conseguente assoggettamento ad IRES.

Si trattava di un approccio interpretativo in qualche modo coerente con il dato testuale della norma e che ribadiva, con riferimento alla professione legale (ma anche alle altre attività professionali c.d. protette), la rilevanza dell’apporto intellettuale del singolo professionista, pur nel contesto di una attività svolta dentro un contenitore avente una propria autonoma soggettività giuridica.

Il quadro, tuttavia, è mutato radicalmente nel 2017, quando il Legislatore ha introdotto nella legge sull’ordinamento professionale forense (legge n. 247/2012) l’art. 4-bis. Questo stabilisce che “l’esercizio della professione forense in forma societaria è consentito a società di persone, a società di capitali o a società cooperative iscritte in un'apposita sezione speciale dell'albo tenuto dall'ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società”. Muta, quindi, il contesto di riferimento, dal momento che si abbandona il tipo “speciale” della società tra avvocati e si apre completamente l’esercizio dell’attività forense a qualsiasi tipo societario previsto dal codice civile, tanto quindi alle società di persone, quanto a quelle di capitali. In sostanza, il ricorso ad una società per svolgere in comune attività legale è liberamente ammesso e deve svolgersi attraverso a una qualsiasi delle società comunemente previste per l’esercizio di una attività commerciale.

Nel perdurante silenzio della norma, si può quindi supporre che la scelta mutui anche il corrispondente regime fiscale, nel senso che i redditi prodotti da una STA così costituita vadano considerati redditi d’impresa e determinati ai sensi degli artt. 81 ss. TUIR. In questo senso si è ripetutamente espressa l’Agenzia delle Entrate, la quale ha mutato il proprio orientamento rispetto al passato proprio valorizzando il differente tenore letterale della previsione normativa. Si legge, infatti, nella ris. 35/E del 7 maggio 2018 che “in assenza di una esplicita norma, l’esercizio della professione forense svolta in forma societaria costituisce attività d’impresa, in quanto, risulta determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria piuttosto che lo svolgimento di un’attività professionale”.

In altri termini, secondo l’amministrazione finanziaria l’abbandono del tipo speciale previsto nel 2001 e la riconduzione dell’esercizio in comune dell’attività legale ad uno dei tipi ordinari di società manifesterebbero la volontà del legislatore di far prevalere l’aspetto organizzativo su quello personale ed intellettuale, che costituisce pur sempre oggetto dell’attività della società, con la conseguenza di dover ricondurre il reddito così prodotto al reddito d’impresa. Tale presa di posizione, peraltro ribadita più volte dall’Agenzia delle Entrate (si vedano la risposta ad interpello 128/2018 e la nota, n. 43619 del 19 dicembre 2017 della Direzione della legislazione tributaria e federalismo fiscale del Dipartimento delle Finanze), risulta particolarmente rilevante, dal momento che ammette per la prima volta che anche una attività intellettuale, tipicamente produttiva di reddito di lavoro autonomo, deve essere snaturata, sul piano reddituale, nel momento in cui venga scelta la forma di una società commerciale per esercitarla.

Secondo la dottrina che ha condiviso questo approdo, una attività professionale svolta attraverso una organizzazione societaria non potrebbe che essere attratta dallo statuto fiscale dell’impresa, trattandosi della dimostrazione di una scelta dei soci di far prevalere l’aspetto organizzativo su quello intellettuale (così Salvini, “Le attività economiche nelle imposte sul reddito, nell’IVA e nell’IRAP”, in Diritto tributario delle attività economiche (a cura di Salvini), Torino, 2019, p. 7).

La rilevanza della posizione espressa dall’Agenzia delle entrate, peraltro, sta nel fatto che tale interpretazione viene proposta nel più completo silenzio da parte del Legislatore e, soprattutto, in contraddizione con la lettera dell’art. 53 TUIR, che non sembra attribuire alcuna rilevanza alla modalità, organizzata o meno, di svolgimento dell’attività di lavoro autonomo. Allo stesso modo, si bypassa in modo piuttosto disinvolto quella interpretazione, certo non granitica ma pur sempre diffusa, che esclude che le attività intellettuali c.d. protette (come quella legale) possano essere ricondotte nell’ambito delle attività d’impresa di cui all’art. 55, comma 2 lett. a), TUIR.

 

  1. Che si tratti di un approdo discutibile è confermato dall’atteggiamento di recente manifestato dalla Corte di cassazione, la quale (sent. 15 marzo 2021, n. 7407) ha escluso l’automatica applicazione delle norme del TUIR sul reddito d’impresa alle STA, affermando invece che la natura del reddito prodotto dall’esercizio in comune di una professione legale deve essere valutata caso per caso, confrontando il peso dell’apporto individuale del professionista e quello dell’aspetto organizzativo insito nel tipo societario prescelto. Non si può quindi -questo pare essere il ragionamento della Corte- aprioristicamente desumere la natura del reddito (d’impresa, appunto) dalla mera forma prescelta dai soci, perché se è vero che normalmente una società di capitali produce reddito d’impresa, nel caso in cui essa serva allo svolgimento di una attività intellettuale si può legittimamente porre il dubbio su quale sia il carattere peculiare capace di qualificare l’attività svolta e quindi il relativo reddito prodotto.

Quindi, secondo la sentenza, laddove l’organizzazione, tipica della società, prevalga sulla personalità della prestazione, allora il reddito sarà attratto nell’alveo del reddito d’impresa, in caso contrario esso resterà reddito di lavoro autonomo. Si tratta di una pronuncia che suscita qualche perplessità, dal momento che fa ancora una volta dipendere il giudizio sul tipo di reddito prodotto da una circostanza (la prevalenza o meno del dato organizzativo su quello personale) che nella disciplina del reddito di lavoro autonomo non ha mai trovato spazio. Tuttavia, la posizione della Cassazione sembra apprezzabile nella misura in cui tutela l’autonomia della prestazione intellettuale e la valorizza, seppure entro certi limiti, rispetto al modo -ed ai mezzi- con cui viene in concreto esercitata.

Va detto che l’Agenzia delle Entrate, anche dopo questo arresto giurisprudenziale, resta ferma nella propria interpretazione, avendo essa anche di recente ribadito (risposta ad interpello n. 600 del 16 settembre 2021) che  il reddito delle STA è sempre reddito d’impresa e “non assume alcuna rilevanza, pertanto, l’esercizio dell’attività professionale, risultando a tal fine determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria”.

Il quadro, come si vede, è molto incerto -ciò che, lo si ribadisce, non giova affatto al successo dell’istituto-. La posizione dell’amministrazione finanziaria appare troppo radicale nel voler a tutti i costi snaturare il trattamento fiscale di un reddito che deriva pur sempre dallo svolgimento di una attività intellettuale svolta (anche ai fini della correlata responsabilità) da una persona fisica, dando decisiva rilevanza al fatto che tale svolgimento si realizzi sotto il cappello di un ente societario. In questo modo si perviene ad una tranciante assimilazione di una STA ad una qualsiasi società dedita allo svolgimento di una attività commerciale, laddove al contrario la peculiarità di questa situazione sta proprio nell’apparente contraddizione tra veste societaria ed oggetto dell’attività che resta pur sempre professionale.

Sebbene in dottrina siano stati formulati apprezzamenti per l’interpretazione fatta propria dall’Agenzia delle Entrate (si veda, ad esempio, Miceli, “La natura del reddito prodotto dalle società tra professionisti: un quadro generale”, in Rivista telematica di diritto tributario, 21 giugno 2021), mi pare al contrario che occorra una riflessione che ponga al centro la specificità dell’attività professionale “protetta”, che rischia invece di perdersi laddove la forma scelta per esercitarla vada oltre le modalità tradizionali dell’individualità o della mera associazione professionale. Sebbene, come è stato sostenuto (Tassani, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Milano, 2007), l’uso del contratto societario possa condurre a qualificare come d’impresa i relativi redditi, difficilmente ciò può essere affermato per le società commerciali costituite per lo svolgimento di una attività protetta, rispetto alla quale la scelta del legislatore di attribuirne la legittimazione solo ad alcuni soggetti (gli iscritti all’albo, per l’appunto) ne enfatizza la natura personale che non può che riverberarsi anche sulla qualificazione del relativo reddito.

Senza voler pervenire ad una soluzione di compromesso come quella offerta di recente dalla Cassazione, peraltro coerente con i ricordati approdi in tema di IRAP, occorre comunque riaffermare la natura intrinsecamente intellettuale e individuale dell’attività legale, che non può essere messa in dubbio nel caso in cui venga esercitata in comune sotto il cappello di un tipo societario. In questo senso, mi pare preferibile confermare la natura professionale del reddito prodotto (adde Piantavigna, “La qualificazione del reddito nelle società tra professionisti”, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 2015, I, p. 88), magari introducendo qualche disciplina specifica che avvicini le due tipologie di reddito (in questo senso, ma nell’ottica opposta di mantenere il reddito della STA sotto il regime del reddito d’impresa Cané, “Inscindibilità del reddito societario e società tra professionisti”, in Tax News, 2/2021, p. 312 ss.) e che, allo stesso tempo, possa rendere più attrattivo ed efficiente il ricorso a questa forma organizzativa.

Sul punto, come si accennava in precedenza, è parsa indispensabile una presa di posizione da parte del Legislatore, il cui silenzio finora ha alimentato una situazione di incertezza in un contesto, come quello della crisi, che spinge urgentemente verso forme robuste di aggregazione tra gli avvocati (sul punto concorde anche Covino, “Lo strano ibrido delle società tra professionisti che svolgono attività professionale ma producono reddito d’impresa”, in Tax News, 9 luglio 2020). In questo senso, il disegno di legge delega per la riforma del sistema tributario sembra optare finalmente per una collocazione del reddito prodotto da una società tra professionisti nell’ambito del reddito di lavoro autonomo, laddove prevede che la neutralità fiscale delle operazioni di aggregazione tra studi professionali debba essere prevista, per l’appunto, nel contesto della disciplina di tale categoria reddituale. La relazione illustrativa, peraltro, alimenta qualche ambiguità, nella parte in cui, senza soffermarsi sul profilo della qualificazione reddituale, enfatizza piuttosto l’effetto, atteso da tali modifiche normative, di uniformazione del regime in questione a quello previsto per l’attività d’impresa.

Non resta, quindi, che auspicare che, in sede di approvazione della delega e, ancor più, nella fase della sua attuazione venga chiarito in modo univoco che il reddito prodotto dalle società professionali deve essere considerato come reddito di lavoro autonomo (in questo senso, mi pare, si muove Sacchetto, “Redditi di lavoro autonomo e disegno di legge delega di riforma tributaria”, in Rassegna tributaria, 2022, p. 58 ss., p. 74, il quale sottolinea l’importanza “del criterio della natura intrinseca e costitutiva della categoria del lavoro autonomo, vale a dire la condivisione dell’attività e del sapere intellettuale”).

 

  1. Vi sono, peraltro, altre conseguenze della latitanza, sin qui, del Legislatore tributario che meritano di essere discusse.

Nel momento in cui ci si rende conto dell’importanza che l’accesso a certe forme di organizzazione può avere per favorire l’esercizio della professione legale in un tempo di profonda crisi della stessa, logica vorrebbe che anche sul piano fiscale vengano agevolate quelle operazioni volte a consentire a una preesistente forma organizzativa, vuoi nella forma dello studio professionale individuale vuoi in quella dell’associazione professionale, di confluire nel nuovo contenitore dato, per l’appunto, da una STA. Ci si aspetterebbe, insomma, che una associazione professionale possa trasformarsi senza oneri fiscali in una STA ovvero che un professionista titolare del proprio studio possa conferirlo in neutralità alla stessa. Costituirebbe, infatti, un irragionevole ostacolo all’accesso ad una modalità più organizzata di svolgimento della professione prevedere che questa trasformazione sia realizzativa e debba quindi scontare un carico fiscale anche considerevole (a seconda del valore dei beni che compongono lo studio professionale preesistente).

Ancora una volta, il silenzio del Legislatore ha alimentato interpretazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate che appaiono fortemente penalizzanti per il ricorso ad una STA da parte di avvocati già attivi sul piano professionale. Quanto alla trasformazione di una associazione professionale in una STA, l’amministrazione finanziaria (risposta ad interpello n. 107/2018) ha affermato che essa non è fiscalmente neutrale, dal momento che realizza l’ingresso di beni, precedentemente impiegati per attività professionale, in regime d’impresa e può, pertanto, comportare l’emersione di una plusvalenza imponibile ai sensi degli artt. 9 e 54 TUIR. Saremmo, insomma, al cospetto di una trasformazione eterogenea, come tale potenzialmente produttiva di reddito imponibile ai sensi dell’art. 171 TUIR.

Con riferimento al conferimento degli asset che costituiscono uno studio professionale in una STA, allo stesso modo, l’Agenzia delle Entrate (ris. n. 125/2018) ha sostenuto che si tratti di una operazione realizzativa ai sensi dell’art. 54 TUIR e che il corrispettivo da assoggettare ad imposizione in capo al conferente debba essere determinato in base al valore normale (ex art. 9 TUIR) dei singoli beni conferiti nella società.

Siamo ancora al cospetto di ambiguità alimentate dal silenzio del Legislatore. Certo, da un punto di vista rigorosamente formale la posizione manifestata dall’amministrazione finanziaria sembra corretta. Quanto alla trasformazione da associazione professionale a STA, siamo in effetti di fronte ad una operazione che comporta il passaggio di beni da una situazione estranea al reddito d’impresa ad una che invece vi è ricompresa, con piena applicabilità del regime realizzativo delle trasformazioni eterogenee progressive. Allo stesso modo, il conferimento dei beni dello studio professionale in una società tra avvocati costituisce un conferimento da un regime estraneo all’impresa ad uno d’impresa che è, quindi, realizzativo.

Tuttavia, il solo dato formale, in un contesto così peculiare come quello di cui ci stiamo occupando, appare al contempo riduttivo e controproducente. La caratteristica, più volte messa in evidenza, della STA è quella di realizzare una commistione tra forma organizzativa tipica delle attività commerciali ed il suo oggetto concreto che consiste in una prestazione di tipo intellettuale legata alla persona del socio-professionista ed alla preparazione dal medesimo maturata nel tempo. Se quindi è vero che in entrambi i casi analizzati si realizza un ingresso di beni nel regime d’impresa, è altrettanto vero che si tratta di un ingresso in un assetto ibrido, nel quale non si perde affatto l’originaria connotazione professionale dell’attività alla quale i beni sono sin dall’inizio destinati.

La continuità del tipo di attività svolta dovrebbe, quindi, orientare verso la neutralità dell’operazione, dal momento che il mutamento della veste attraverso la quale quella è esercitata non impatta minimamente sul contenuto della stessa, che è e resta intrinsecamente professionale a prescindere dalla qualificazione del relativo reddito come d’impresa o di lavoro autonomo. Questa soluzione, improntata alla neutralità delle menzionate operazioni, dovrebbe essere pacifica nel momento in cui il Legislatore qualificasse come di lavoro autonomo il reddito prodotto attraverso una STA; nel caso, invece, in cui prevalesse la linea fatta propria dall’Agenzia delle Entrate, occorrerebbero dei presidi contabili idonei a evitare salti d’imposta, ma anche in questa ipotesi la neutralità dovrebbe essere preservata. Saremmo, in ogni caso, al contesto di una situazione assimilabile a quella di un conferimento d’azienda, come tale neutrale (lo sostiene Ferranti, “Le lacune normative disincentivano le aggregazioni e le riorganizzazioni degli studi professionali”, in Corriere tributario, 2019, p. 831 ss.).

Si tratta, ancora una volta, di una soluzione che, oltre a non porsi in contrasto con i principi propri del nostro ordinamento fiscale, avrebbe il pregio di incentivare il passaggio dell’attività ad una forma societaria, ad oggi potenzialmente ostacolata proprio dai costi fiscali che una trasformazione o un conferimento possono produrre secondo la tesi dell’Agenzia delle Entrate.

 

  1. Si è accennato al fatto che l’unica disposizione legislativa espressa concernente la fiscalità delle STA può essere rintracciata in relazione al regime forfettario, di cui alla legge n. 190/2014 (sul quale si veda Forte, Flat Tax. Applicazione e vantaggi del nuovo regime forfettario, Rimini, 2019) ed al suo possibile transito all’interno di una società tra avvocati. Su tale regime, e più in generale sulla c.d. “flat tax”, molto è stato scritto, anche in relazione alla sua compatibilità con i principi fondamentali del nostro ordinamento tributario (si veda l’ampia disamina di Stevanato, Dalla crisi dell'Irpef alla flat tax. Prospettive per una riforma dell'imposta sul reddito, Bologna, 2017). Non è questa la sede, ovviamente, per prendere posizione al riguardo. Piuttosto, data la sussistenza di questo regime, si pone la questione del suo mantenimento nel passaggio da una attività svolta in forma individuale (o associata) ad una realizzata per mezzo di una STA. Questione niente affatto marginale, attesa la rilevanza dei benefici del regime forfettario e il probabile incremento della soglia massima di ricavi per accedervi, da una parte, ed il rischio che un mancato coordinamento induca molti professionisti a non accedere a forme di aggregazione che nell’attuale contesto economico sono spesso decisive per mantenersi sul mercato.

Il Legislatore ha previsto, al riguardo, che il mantenimento del regime forfettario è precluso nel caso di accesso ad una società di persone o ad una associazione professionale, ma può essere realizzato laddove il professionista divenga socio di una srl, quindi, anche di una STA avente tale forma societaria. Vi sono tuttavia alcune situazioni che precludono il trascinamento del regime forfettario all’interno di una società tra avvocati avente la forma della srl.

Secondo l’art. 1, comma 57 lett. d), della legge 190/2014, non possono applicare il regime forfettario gli esercenti attività d'impresa, arti o professioni che controllano direttamente o indirettamente società a responsabilità limitata, le quali esercitano attività economiche  direttamente o indirettamente riconducibili a quelle svolte dagli esercenti attività d'impresa, arti o professioni.

Quindi solo in presenza delle due condizioni in considerazione (controllo, diretto o indiretto, e identità di attività svolta individualmente e dalla srl) opera la causa ostativa, con la conseguenza che se almeno una di queste condizioni manca è possibile «trasportare» il regime forfettario nella società (come precisato dall’Agenzia delle Entrate nella circ. 9/E/2019). Un avvocato in regime forfettario, dunque, potrebbe divenire socio di una STA nella forma di srl, mantenendo il proprio status fiscale agevolato, nel caso in cui non controlli, neppure indirettamente la società medesima.

La ratio di tale limitazione è evidente: si tratta di escludere che un professionista possa godere di modalità privilegiate di determinazione del reddito e di individuazione dell’imposta laddove, per effetto della partecipazione ad una STA di cui ha il controllo, diretto o indiretto, egli cessi di fatto di essere un contribuente “minore” meritevole di sostegno da parte dell’ordinamento tributario.

Ai fini della verifica del requisito del controllo, secondo la prassi dell’Agenzia delle Entrate, rileva non solo la percentuale di partecipazione al capitale della STA o la detenzione di quote da parte del coniuge o di familiari stretti, ma anche l’importanza dell’apporto lavorativo del socio rispetto al volume d’affari complessivo della società. Così, la recente risposta ad interpello n. 501/2019 ha incidentalmente suggerito che, anche con una partecipazione di assoluta minoranza (pari al 9%) ed in assenza di partecipazioni detenute da familiari, il mantenimento del regime forfettario potrebbe essere precluso laddove il fatturato del socio nei confronti della STA superi una certa percentuale dei costi complessivi della stessa. Si avrebbe, in questo caso, un controllo di fatto, sul piano economico, da parte del socio di minoranza.

Per quanto riguarda l’identità dell’attività economica svolta dal professionista e dalla STA, va osservato che -ancora una volta- l’Agenzia delle Entrate ha assunto un atteggiamento restrittivo al mantenimento del regime forfettario nel caso analizzato nella risposta ad interpello n. 117/2019. Qui, a fronte della verifica della medesima tipologia di attività, come indicata dal pertinente codice ATECO, l’amministrazione finanziaria ha escluso che il professionista possa conservare il regime forfettario laddove sia amministratore della società tra professionisti e percepisca un compenso dedotto da quest’ultima. In tale documento di prassi si trova specificato che “qualora l’istante dovesse cessare dalla carica di amministratore della s.r.l. controllata (…), lo stesso non decadrà dal regime forfettario”.

Viene, quindi, a delinearsi una situazione nella quale l’opzione per il regime forfettario deve cedere il passo nell’ipotesi in cui il professionista sia anche amministratore della STA, una circostanza questa non prevista dalla norma e tale da disincentivare il ricorso a questa forma di organizzazione dello svolgimento dell’attività professionale.

 

  1. La breve ricognizione svolta dimostra che -al netto della disciplina relativa al regime forfettario, peraltro anch’essa influenzata dalle interpretazioni extra-testuali fornite dall’Agenzia delle Entrate- la regolamentazione fiscale delle società tra avvocati è stata fino ad oggi del tutto carente. Tale situazione, lo si è detto, impatta negativamente sull’appeal dell’istituto, nel contesto di una incertezza alimentata dalle mutevoli prese di posizione della prassi e della giurisprudenza. Ma, ancor prima, è la tenuta di alcuni principi fondamentali ad ispirare preoccupazione. Il Legislatore che “si dimentica” di dettare una compiuta disciplina positiva della fiscalità di questi enti sembra quasi sottovalutare il fatto che parte integrante del successo di un certo istituto sta nella chiarezza del suo regime tributario. Allo stesso tempo, si ha come l’impressione che si voglia enfatizzare il ruolo interpretativo (e anche, in qualche modo, creativo) dell’Agenzia delle Entrate, forse per spingere i contribuenti interessati a ricorrere a forme di interpello che evitino conflitti da regolarsi in sede contenziosa.

Si tratta di un approccio che non giova all’istituto, non a caso come si è detto ancora del tutto recessivo nelle attività legali, e che perpetua una visione della fiscalità come figlia di un dio minore, nella quale cioè le ragioni dell’Erario, manifestate dall’Agenzia delle Entrate, risultano scollegate dalle esigenze, indotte dalla crisi economica, di offrire ai professionisti del settore legale strumenti solidi, da un punto di vista civilistico, e convenienti, da quello fiscale, per affrontare l’evoluzione della professione in un mondo in grande (e non sempre positivo) mutamento.

Occorre che il Legislatore prenda in carico questa situazione e riaffermi il proprio ruolo, dettando una disciplina positiva sufficientemente chiara e insuscettibile di interpretazioni inattese o creative. Sotto questo profilo, è quindi da salutare con favore quanto previsto dal disegno di legge delega per la riforma del sistema tributario, il quale, all’art. 5, comma 1 lett. f) n. 1.4, relativamente ai redditi di lavoro autonomo stabilisce il principio e criterio direttivo specifico della “neutralità fiscale delle operazioni di aggregazione e riorganizzazione degli studi professionali, comprese quelle riguardanti il passaggio da associazioni professionali a società tra professionisti”.

Si tratta di uno dei tanti principi direttivi dettagliati della delega, che -se sarà approvato dal Parlamento nella forma proposta- non lascerà di fatto alcuna discrezionalità al Legislatore delegato, il quale sarà quindi obbligato a consentire che le operazioni di riassetto tra studi professionali avvengano senza alcun carico fiscale, a condizione peraltro (come ribadito dalla relazione illustrativa) che i valori fiscali transitino senza modifiche dal dante causa all’avente causa in modo da non alterarne la continuità e da non realizzare un salto d’imposta. Verrà, così, attuato l’auspicio più volte manifestato di uniformare il trattamento fiscale di queste operazioni al dato di fondo secondo cui “tali operazioni straordinarie si risolvono, in ultima istanza, nella sola variazione della veste giuridica con cui viene svolta, senza soluzione di continuità, la medesima attività professionale già esercitata prima dell’operazione stessa” (così Sacchetto, “Redditi di lavoro autonomo e disegno di legge delega di riforma tributaria”, cit., p. 75).

La realizzazione della delega sotto questo profilo non potrà dunque che giovare alla diffusione dell’istituto delle società tra professionisti -e segnatamente di quelle tra avvocati- in un momento storico nel quale le incognite del mercato possono essere affrontate solo dotandosi di strutture organizzative in grado di realizzare economie di scala, oltre ad una inevitabile evoluzione nel senso della multidisciplinarietà dell’offerta.