argomento: IRES - Giurisprudenza
Nel ribadire l’indeducibilità dei compensi degli amministratori non stabiliti nello statuto, e non accordati dall’assemblea, la Cassazione puntualizza che l’eventuale delibera deve intervenire prima dello svolgimento delle funzioni di gestorie, poiché in difetto va negato il carattere di certezza di tali costi.
» visualizza: il documento (Corte di Cass., ord. 15 novembre 2021, n. 34221)PAROLE CHIAVE: imposte sui redditi - compensi degli amministratori - costi - indeducibilitā - certezza
di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti
La giurisprudenza tributaria si è fin qui occupata di casi in cui tali compensi venivano corrisposti senza che ciò fosse autorizzato da una previsione statutaria, o da una decisione dell’assemblea (ad esempio, Cass., sez. trib., sent. 20 febbraio 2020, n. 4400, annotata da A. Manzitti, Ancora sulla indeducibilità dei compensi corrisposti agli amministratori senza formale delibera, in Riv. Telematica di diritto tributario, 2020), nonché di situazioni in cui l’erogazione delle stesse spettanze era stata autorizzata soltanto indirettamente, in sede di approvazione del bilancio (Cass., sez. trib., sent. 28 ottobre 2015, n. 21953, su cui M. Nussi, Ancora incertezze e contraddizioni della Suprema Corte sulla deducibilità del compenso agli amministratori, in Giur. Trib., 2016, 137 e ss.). In tali circostanze, il componente di reddito riferito ai compensi in parola viene considerato indeducibile per difetto del requisito di certezza richiesto dall’art. 109, comma 4, T.U.I.R. poiché si assume sostenuto in assenza di un valido titolo giuridico. L’art. 2389 c.c. postula infatti l’esistenza di una delibera o di una previsione statutaria, che stabiliscano il compenso spettante agli amministratori.
La particolarità del caso considerato risiede quindi nel fatto che una delibera per fissare i compensi dovuti agli amministratori era stata effettivamente adottata, tuttavia si riferiva alle spettanze relative all’opera gestoria già prestata in anni precedenti, la cui retribuzione sarebbe stata così stabilita in via postuma.
La discrasia tra il momento di prestazione dell’opera utile alla società e quello in cui il conseguente costo era sostenuto non avrebbe peraltro posto questioni di imputazione temporale, visto che l’art. 95, comma 5, T.U.I.R. prevede espressamente la deduzione per cassa dei compensi spettanti agli amministratori, “nell’esercizio in cui sono corrisposti”.
La Cassazione ha tuttavia ritenuto il costo indeducibile, rilevando che “i compensi corrisposti agli amministratori non sono deducibili se non previamente deliberati [..] atteso che la specifica delibera assembleare costituisce la fonte dell’obbligazione patrimoniale”. Sembrerebbe così sancito il principio per cui gli emolumenti spettanti agli amministratori di società di capitali, per essere dedotti, dovrebbero sempre essere stabiliti prima che sia prestata l’opera gestoria, conclusione che non trova riscontri nel dato normativo, e si risolve in una interpretazione ultra legem, difficilmente giustificabile.
La stessa regolamentazione, in quanto inerente il funzionamento delle società, è peraltro considerata espressiva di una norma imperativa, dettata anche nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività economica (Sez. unite, sent. n. 21933/2008, cit.). Non è quindi legittimo che la percezione del compenso da parte degli amministratori avvenga con una delibera “implicita” in quella di approvazione del bilancio nel quale tale costo sia contemplato. Tale delibera sarebbe infatti insanabilmente nulla, secondo l’art. 1418 c.c.
Già in quella sede veniva fatto rilevare che il costo connesso ai compensi degli amministratori possiede natura e caratteristiche coerenti con tutti i principi generali del reddito d’impresa, e pertanto, in difetto di deroghe, anch’esso andrebbe ritenuto deducibile sol perché evidenziato nel conto economico, in virtù del principio di dipendenza del reddito d’impresa dalle scritture contabili sancito nell’art. 83 del T.U.I.R. (F. Paparella, L’indeducibilità, cit.). Tale obiezione vale certamente anche con riferimento alla giurisprudenza che considera indeducibile il compenso erogato in difetto di valido impegno giuridico della società secondo l’art. 2389 c.c., dato che la validità della situazione civilistica sottesa ai costi d’impresa non costituisce elemento della fattispecie per la loro deduzione (in questi termini, M. Nussi, Ancora incertezze e contraddizioni della Suprema Corte sulla deducibilità del compenso agli amministratori, in Giur. Trib., 2016, 138; più in generale, sul tema, G. Gaffuri, La rilevanza della nullità contrattuale in diritto tributario, in Boll. Trib., 2006, 455). Ciò è peraltro confermato dalla giurisprudenza citata nella sentenza in commento, che espressamente indica che la preclusione alla deduzione dei costi relativi ai compensi degli amministratori non può configurarsi come conseguenza immediata della violazione della legge civile (Cass., sent. 21953/2015).
La dottrina, inoltre, ha evidenziato che l’effettiva prestazione di attività gestoria da parte dell’amministratore in esito a valida nomina farebbe sorgere comunque, in capo a tale ultimo soggetto, un diritto soggettivo al compenso (F. Paparella, L’indeducibilità, cit.; M. Nussi, Ancora incertezze, cit., 138). Tale assunto è condiviso dalla giurisprudenza, che sostiene una presunzione di onerosità dell’incarico (di recente, Cass., sez. VI-1, ord. 3 ottobre 2018, n. 24139 e Cass., sez. lav., sent. 21 giugno 2017 n. 15382). Ne consegue che, dal punto di vista civile, eventuali profili di invalidità del titolo fondante il diritto al compenso dell’amministratore potrebbero riguardare soltanto l’entità di tale corrispettivo.
Infine, per negare la deduzione non potrebbe essere invocata neppure la disciplina in tema di abuso del diritto, visto che è stato espressamente indicato che l’erogazione dei compensi agli amministratori in difetto di una previa delibera non può considerarsi una fattispecie abusiva (Cass., sent. n. 21953/2015).
Sembra quindi che l’interpretazione manifestata nella sentenza in commento derivi da una indebita e asistematica estensione dei precedenti indirizzi, sorretta da ragioni di cautela fiscale.
Avallando l’interpretazione della Cassazione, si nega infatti la deducibilità di un costo effettivamente sostenuto ed imputato a conto economico, correlato ad un’attività effettiva comunque voluta dai soci (come attesta la avvenuta nomina degli amministratori) e in ogni caso utile per lo svolgimento dell’attività di impresa, quindi inerente.
Le possibilità che la deduzione censurata nella sentenza in commento si riveli foriera di un effettivo danno per l’Erario appaiono peraltro molto limitate, considerato che, ai sensi dell’art. 51 T.U.I.R., gli stessi emolumenti, nel medesimo esercizio in cui costituiscono un costo per la società erogante, divengono reddito imponibile per gli amministratori percipienti.
Non resta pertanto che auspicare che l’estremizzazione delle logiche di cautela adottate circa la deducibilità dei compensi degli amministratori, evidenziata nella decisione in commento, possa infine essere oggetto di ripensamento.