Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

30/06/2022 - La sorte dei crediti tributari delle società estinte: quali margini per una rinuncia implicita?

argomento: IRES - Giurisprudenza

La normativa civilistica, che a partire dalla riforma del diritto societario del 2003 prevede l’efficacia estintiva della cancellazione della società dal registro delle imprese, ha fatto emergere criticità in punto di attuazione della responsabilità dei soci, degli amministratori e dei liquidatori per i debiti tributari della società estinta, tant’è che il legislatore è intervenuto dettando specifiche regole procedimentali per la riscossione dei tributi evasi nei confronti dei predetti soggetti (D. Lgs. n. 175/2014). Nulla, però, si è previsto per l’ipotesi in cui la società estinta vanti posizioni creditorie già esistenti all’epoca della chiusura della liquidazione (c.d. residui attivi), ovvero sorte in epoca successiva (c.d. sopravvenienze attive), lasciando la questione aperta a soluzioni giurisprudenziali spesso criticate, le quali hanno teorizzato la rinuncia implicita ai crediti illiquidi e alle mere pretese a seguito della richiesta di cancellazione. Orbene, con questo contributo ci proponiamo di analizzare quest’ultimo profilo, evidenziando quando i crediti tributari della società estinta possano essere chiesti a rimborso dai soci, ovvero quando debbano considerarsi implicitamente rinunciati a seguito della richiesta di cancellazione, trattandosi di “mere pretese”.

PAROLE CHIAVE: residui attivi - estinzione società - crediti tributari


di Federica Campanella

  1. Com’è noto, per effetto della riforma del diritto societario attuata dal D. Lgs. n. 6/2003, la cancellazione di una società dal registro delle imprese (che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a provocare l’estinzione dell’ente), è da considerarsi fatto costitutivo dell’estinzione della società, anche nel caso in cui non tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo siano stati definiti in sede di liquidazione.

Il che pone il problema di definire la sorte dei debiti e dei crediti della società ormai estinta; problema di cui il legislatore si è occupato solo in parte e con esclusivo riferimento ai c.d. residui passivi della società.

Al riguardo, l’art. 2495 c.c. stabilisce il principio secondo cui, con l’estinzione della società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non si determina l’automatica estinzione delle obbligazioni che ad essa facevano capo e non ancora adempiute. È, infatti, previsto che i creditori sociali insoddisfatti, nonostante l’estinzione del soggetto giuridico loro debitore, possano far valere le proprie pretese nei confronti degli ex soci fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, oppure nei confronti dei liquidatori, qualora il mancato pagamento dei debiti sociali sia dipeso da loro dolo o colpa. In questo modo, viene assicurata la tutela degli interessi dei creditori sociali, evitando che la cancellazione della società dal registro delle imprese diventi uno strumento per eludere il pagamento dei debiti verso i terzi.

Una specifica disciplina è, poi, prevista con riferimento ai debiti di natura tributaria dall’art. 36, d.p.r. n. 602/1973, il quale definisce le responsabilità e gli obblighi degli amministratori, dei liquidatori e dei soci della società in liquidazione ovvero estinta. Si tratta di una disciplina volta a tutelare l’interesse del creditore pubblico in modo rafforzato rispetto all’interesse del creditore comune, assicurando al Fisco maggiori probabilità di riscuotere, con un’azione rivolta ai soci, agli amministratori ovvero ai liquidatori, il credito vantato nei confronti della società (sul punto, si veda CARINCI A., L’estinzione della società e la responsabilità tributaria di liquidatori, amministratori e soci, in Il Fisco, 2015, 2843; FRANSONI G., Estinzione postuma delle società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità, in Rass. trib., 2015, 47; GUIDARA A., La successione nelle situazioni soggettive tributarie, Padova, 2018, 204; PORCARO G., La cancellazione della società dopo il c.d. decreto semplificazioni: profili tributari, in Le nuove leggi civili commentate, 2015, 1062; RAGUCCI G., La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali, Torino, 2013; SELICATO G., I riflessi della cancellazione delle società dal registro delle imprese, in Rass. trib., 2010, 868; TASSANI T., La responsabilità di soci, amministratori e liquidatori per debiti fiscali della società, in Rass. trib., 2012, 371; TUNDO F., Società estinte: lo Corte costituzionale salva il “frutto avvelenato” del “Fisco amico”, in Rass. trib., 2021, 1042 e ss.).

La normativa civilistica e quella tributaria non forniscono, tuttavia, alcuna indicazione con riferimento alla sorte dei rapporti giuridici attivi facenti capo alla società ormai estinta, sollecitando, per questo aspetto, un’opera di completamento da parte dell’interprete.

Il contributo si propone, dunque, di approfondire tale tematica, nel tentativo di fornire utili spunti di riflessione alla luce di orientamenti non sempre condivisibili della giurisprudenza.

  1. A seguito dell’estinzione della società, derivante dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, è possibile che residuino elementi patrimoniali attivi non liquidati (c.d. “sopravvivenze” o “residui attivi da liquidazione”), ovvero sopraggiungano dei crediti riferibili alla ormai dissolta società – o meglio, scaturenti da rapporti ad essa già riconducibili – che, in quanto sopravvenuti, non risultano dal bilancio finale di liquidazione (si parla, in proposito, di “sopravvenienze attive”).

Come può facilmente intuirsi, alla loro successiva ripartizione hanno interesse sia i soci che i creditori sociali, trattandosi di elementi patrimoniali su cui questi ultimi potrebbero maggiormente soddisfare le proprie pretese.

Definire la sorte dei c.d. residui attivi da liquidazione e delle sopravvenienze attive di una società estinta appare, dunque, una questione di grande rilevanza, sia sul piano teorico che applicativo.

Eppure, come già anticipato, sulla loro sorte la normativa vigente tace del tutto.

Nel silenzio del legislatore, è così intervenuta la giurisprudenza ed, in particolare, la Corte di Cassazione, la quale, a Sezioni Unite, ha stabilito il seguente principio di diritto: «Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale» si trasferiscono «ai soci in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerto o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato» (Cass. SS.UU., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072).

Viene così a delinearsi nella giurisprudenza della Suprema Corte una distinzione, una divaricazione tra crediti che si trasferiscono per successione ai soci al momento della cancellazione della società dal registro delle imprese e crediti che, invece, si estinguono per l’effetto dell’estinzione della società e per il mezzo di una asserita rinuncia.

In sostanza, secondo tale orientamento giurisprudenziale, nel caso di «mere pretese» (posizioni incerte cui ancora non corrisponda la possibilità di individuare un diritto o un bene definito nel patrimonio sociale) oppure di «diritti di credito illiquidi», «la scelta del liquidatore di procedere senz’altro alla cancellazione della società dal registro, senza prima svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o farlo liquidare, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo».

Laddove, invece, si tratti di diritti o beni definiti che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero, perciò, stati suscettibili di ripartizione tra i soci – escluso che essi possano, dopo la cancellazione, costituire un patrimonio adespota, assimilabile all’eredità giacente – la soluzione non può che essere – sempre a parere della Suprema Corte – analoga a quella dei debiti non soddisfatti: si determina, dunque, un fenomeno di tipo successorio in virtù del quale i beni o i diritti residui o sopravvenuti si trasferiscono ai soci, tra cui si instaura un regime di contitolarità o comunione indivisa.

  1. La posizione assunta dalle Sezioni Unite della Cassazione nelle sentenze del 2013 è stata fortemente criticata in dottrina.

Si è detto che la soluzione fornita dai giudici riguardo la sorte dei crediti della società estinta appare ambigua, ammettendo l’effetto abdicativo connesso alla cancellazione della società dal registro delle imprese, ma limitandolo alle sole mere pretese e ai crediti controversi e illiquidi, (non iscrivibili in bilancio di liquidazione), correlativamente, facendo cadere in successione i beni e i crediti “certi e liquidi”, iscrivibili seppur non esigibili. Tale soluzione, oltre a sollevare una serie di problemi applicativi – in primis, come distinguere tra mere pretese e crediti incerti e illiquidi ed altri crediti o pretese – manifesta una dubbia ragionevolezza in sé. Intuitivamente, infatti, sembra proprio la non iscrizione delle pretese iscrivibili ad esprimere con maggiore probabilità una qualche volontà abdicativa (così, PEPE F., Le implicazioni fiscali della morte (e resurrezione?) delle società cancellate dal registro delle imprese, in Riv. dir. trib., 2016, I, 76; ZORZI A., L’estinzione delle società di capitali: la sorte delle “mere pretese” e “crediti illiquidi”, in Giur. comm., 2015, II, 260 ss.).

È stato, inoltre, osservato come tale interpretazione giurisprudenziale sia suscettibile di determinare effetti pregiudizievoli tanto nei confronti dei soci (per la perdita del potenziale diritto) quanto nei confronti dei creditori sociali, che, naturalmente, hanno interesse a che tali diritti di credito, facenti capo alla società ormai estinta, non si estinguano a loro volta, trattandosi di elementi patrimoniali su cui potrebbero maggiormente soddisfare le proprie pretese. Ed allora l’orientamento in discussione, formulato allo scopo di sanzionare la società a fronte di una cancellazione repentina o illegittima, perviene, invero, ad un risultato opposto, di pregiudizio per i creditori sociali (così, SPERANZIN M., Estinzione delle società nella recente giurisprudenza, in Rivista di Diritto Civile, 2/2021, 376 ss.).

Da ultimo, si è notato che la tesi sostenuta dalle Sezioni Unite della Cassazione non risulta del tutto coerente con la disciplina civilistica della remissione del debito, secondo la quale la remissione (cioè, la rinuncia al credito) «estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore» (art. 1236 c.c.). Il suo verificarsi richiede, quindi, una comunicazione specificamente diretta nei confronti del singolo debitore; circostanza che non pare potersi configurare nel caso di un comportamento meramente omissivo quale la mancata menzione del credito nel bilancio finale di liquidazione (si veda SPERANZIN M., Estinzione delle società nella recente giurisprudenza, cit.; GUERRIERI G., Cancellazione della società, rinuncia alle attività e sopravvenienze attive, in Giur. comm., 2018, I, 611 ss.).

  1. I problemi connessi all’applicazione di tale soluzione individuata dalla giurisprudenza di legittimità al fine di determinare la sorte dei crediti di una società estinta emergono in maniera evidente nella materia tributaria.

Ci si riferisce, in particolare, alla difficoltà di distinguere, sul piano concreto, tra mere pretese e diritti di credito non liquidi, da una parte, e diritti di credito certi e liquidi, dall’altra. Distinzione che, in astratto, può apparire chiara e netta, ma che sul piano applicativo può non sempre risultare agevole da definire.

In proposito, si consideri, innanzitutto, il caso del credito risultante dalla dichiarazione (es. un credito IVA) e contestualmente chiesto a rimborso. Come noto, l’erogazione dei rimborsi presuppone lo svolgimento di un’attività da parte degli Uffici volta ad accertare l’esistenza e la spettanza del credito vantato dal contribuente e questo fa sì che, generalmente, l’effettiva percezione delle somme richieste avvenga dopo diverso tempo rispetto al momento in cui era stata presentata la relativa istanza dal contribuente.

Orbene, se in questo arco temporale la società venisse posta in liquidazione e in seguito cancellata dal registro delle imprese, si porrebbe il problema di definire la sorte del credito dalla stessa vantato prima della sua estinzione.

Sulla base di quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 2013, bisognerebbe, a tal fine, preliminarmente stabilire se il credito risultante dalla dichiarazione presentata dalla società prima della sua cancellazione dal registro delle imprese possa considerarsi un credito certo e liquido (in quanto tale, trasmissibile per successione agli ex soci), ovvero una mera pretesa (come tale, intrasmissibile perché estinta in conseguenza di una tacita rinuncia).

Il dubbio rispetto alla possibilità di considerare tale credito quale diritto di credito “certo” e, come tale, “trasmissibile”, potrebbe legittimamente porsi, laddove si consideri che la mera esposizione di un credito in dichiarazione non vale a conferire al credito stesso il carattere della “certezza”. Al riguardo, basti osservare che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, l’esistenza di crediti esposti in dichiarazione e chiesti a rimborso dai contribuenti può essere contestata dagli Uffici addirittura oltre i termini di decadenza previsti per l’esercizio del potere di accertamento (Cass. SS. UU., 26 luglio 2021, nn. 21765 e 21766; Cass. 24 marzo 2022, n. 9559). Tali crediti, pertanto, non potrebbero propriamente considerarsi crediti “certi” secondo l’impostazione definita dalle Sezioni Unite nel 2013.

Eppure, non convince la tesi secondo cui il diritto di credito vantato dal contribuente degraderebbe, in siffatte ipotesi, a livello di «mera pretesa» ovvero di «diritto di credito illiquido».

Tornando all’esempio di prima (relativo al credito IVA della società estinta), è chiaro che questa posizione creditoria, seppur non ancora accertata dal Fisco o dal giudice, non può essere qualificata quale mera pretesa del contribuente.

Si tratta, difatti, di un credito che trova riscontro nella contabilità ed è frutto della determinazione analitica del volume di affari dell’azienda; pur mancando il provvedimento dell’Amministrazione finanziaria ovvero del giudice che ne attesti la piena fondatezza, appare, dunque, improbabile qualificarlo come mera pretesa.

Ciò posto, è sostenibile che i crediti che risultano dalla dichiarazione tributaria non siano chiaramente riconducibili a nessuna delle due categorie individuate dalle Sezioni Unite nelle sentenze del 2013 (“mere pretese” – “crediti certi”).

Si troverebbero, invero, in una sorta di “zona di mezzo”, probabilmente accostabili più ad un diritto di credito certo che ad una mera pretesa (in questo senso, TASSANI T., Estinzione delle società e residui attivi da liquidazione: profili fiscali, in Rass. trib., n. 5/2014, 1028).

D’altronde, pur ammettendo che il credito esposto in dichiarazione non sia certo, ma sia piuttosto qualificabile come una mera pretesa, come si potrebbe sostenere l’esistenza di una volontà abdicativa se quel credito è stato espressamente chiesto a rimborso?

In siffatte ipotesi, appare irragionevole presumere una volontà di rinuncia.

  1. Ad analoghe conclusioni può giungersi anche con riferimento ai crediti “da indebito” sorti in un’epoca successiva rispetto all’estinzione della società (per esempio, per effetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale della norma impositiva sulla base della quale la società, prima della sua cancellazione dal registro delle imprese, aveva effettuato il versamento).

Come si potrebbe presumere, in questi casi, che il credito da indebito sia stato implicitamente rinunciato se, al momento della cancellazione della società dal registro delle imprese, quel credito non era ancora venuto ad esistenza e, di conseguenza, non era conoscibile da parte della società, dei soci e del liquidatore?

Sul punto, invero, le Sezioni Unite della Cassazione hanno opportunamente precisato che la rinuncia non opera se si tratta di «crediti che se fossero stati conosciuti al tempo della liquidazione sarebbero confluiti nel bilancio e trasferiti ai soci». Per queste sopravvenienze attive, pertanto, non dovrebbe operare mai la rinuncia, dovendosi, piuttosto, ammettere la loro trasmissibilità in capo ai soci, i quali, entro i termini di decadenza stabiliti dalla legge, sono legittimati a presentare istanza di rimborso. Peraltro, sussistendo una situazione di contitolarità o di comunione indivisa, il singolo socio può agire per ottenere il rimborso dell’intero ammontare del credito, da ripartire in seguito insieme agli altri soci in base alla quota di partecipazione da ciascuno di essi detenuta nella società ormai estinta (Cass. 21 settembre 2020, n. 19641).

  1. A questo punto, può risultare lecito domandarsi se e quando possa configurarsi una ipotesi di “mera pretesa” in materia tributaria, per la quale ipotizzare una eventuale rinuncia implicita.

Al riguardo, potrebbe rilevare il caso di un contribuente che abbia dei dubbi in merito all’interpretazione di una determinata norma tributaria, ma decida comunque di sottoporre a tassazione il fatto economico, al fine di scongiurare il rischio di subire l’irrogazione di una sanzione in caso di controllo tributario. Laddove il contribuente, dopo aver effettuato il versamento, presenti istanza di rimborso per verificare se l’Amministrazione finanziaria concordi con l’interpretazione a lui favorevole e restituisca le somme versate, è sostenibile che il credito dallo stesso vantato non possa considerarsi certo (tant’è vero che lo stesso contribuente, non essendo sicuro di dover versare l’imposta, nel dubbio, ha pagato), ma sia, piuttosto, qualificabile come una mera pretesa.

Più in generale, si potrebbe affermare che, in materia tributaria, si è di fronte ad una “mera pretesa” del contribuente in tutte le ipotesi in cui le somme di cui si chiede il rimborso a titolo di imposta non siano frutto della contabilità e della determinazione analitica della base imponibile, bensì siano correlate ad un’interpretazione di una norma che presenti dei margini di incertezza. Solo in tali casi, e non senza perplessità, si potrebbe sostenere che la richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese si apprezzerebbe quale rinuncia al credito e, quindi, revoca implicita dell’istanza di rimborso.

  1. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, appare evidente come, con riferimento ai crediti tributari, la soluzione proposta dalle Sezioni Unite della Cassazione al fine di determinare la sorte dei crediti di una società estinta non sia confacente, in quanto non sempre è agevole ricondurre un credito di natura tributaria nell’ambito dell’una o dell’altra categoria (“mere pretese” – “crediti certi”).

La Corte di Cassazione sembra, comunque, aver preso coscienza dei limiti e delle criticità connesse a tale interpretazione giurisprudenziale, giungendo, negli ultimi anni, ad un révirement.

Si è, infatti, di recente affermato un diverso orientamento, maturato in relazione a rapporti civilistici ma anche tributari, secondo cui i crediti di una società estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, essendo a tal fine necessario un rigoroso esame del caso concreto volto a verificare le ragioni della mancata inclusione del credito nel bilancio di liquidazione o, quantomeno, l’effettiva conoscenza della sussistenza del credito in capo al liquidatore.

Per aversi la rinuncia, si ritiene, pertanto, necessaria una manifestazione di volontà che, pur potendo essere tacita, dev’essere comunque inequivoca: «il silenzio, infatti, nel nostro ordinamento giuridico non può mai elevarsi a indice certo d’una volontà abdicativa o rinunciataria d’un diritto, a meno che non sia circostanziato, cioè accompagnato dal compimento di atti o comportamenti di per sé idonei a palesare una volontà inequivocabile […] Ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito. Questo potrà verificarsi nel momento in cui il liquidatore, che non abbia agito per il recupero del credito, abbia operato una valutazione di convenienza in termini di realizzo, rinunziando ad intraprendere azioni di dubbio esito e ritenendo più conveniente procedere alla cancellazione» (Cass. 14 dicembre 2020, n. 28439).

Accogliendo le critiche mosse dalla dottrina, i giudici precisano, inoltre, che per aversi un’efficace rinuncia al diritto, oltre alla manifestazione inequivoca di una tale volontà da parte del relativo titolare, sarebbe altresì necessario che essa venisse indirizzata specificamente al debitore, trattandosi di atto ricettizio. La sola iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese non può, invero, integrare il requisito della ricettizietà, in quanto rivolta ad una pluralità indifferenziata di destinatari (Cass. 22 maggio 2020, n. 9464; Cass. 14 dicembre 2020, n. 28439; Cass. 26 gennaio 2021, n. 1724).

  1. Sulla base di questo nuovo orientamento giurisprudenziale, non dovrebbero più sussistere i problemi e le criticità sinora esaminate con riferimento alla sorte dei crediti tributari della società estinta, essendo stata superata quella (assai discussa) distinzione operata dalle Sezioni Unite nelle sentenze del 2013 tra mere pretese e crediti certi e liquidi.

La Suprema Corte sembra, così, voler implicitamente elidere, o quantomeno attenuare, gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla cancellazione della società dal registro delle imprese per i diritti di credito incerti e illiquidi, la cui sorte era stata decisa con un’interpretazione tranchant da parte delle Sezioni Unite del 2013, che all’epoca si erano occupate forse un po’ sbrigativamente della questione (così, FERRARI C. – SCHILLACI S., I crediti tributari di una società estinta non si ritengono rinunciati per l’omessa appostazione in bilancio, in il Fisco, n. 7/2021, 673 ss.).

La nuova posizione assunta dalla Corte di Cassazione si ritiene condivisibile anche alla luce del fatto che la stessa consente, tra l’altro, di ovviare ad un inconveniente connesso al precedente orientamento giurisprudenziale, in base al quale il liquidatore sarebbe stato indotto a mantenere l’iscrizione nel registro delle imprese di una società non più operativa – pur avendo già liquidato quasi tutto il patrimonio sociale ed effettuato il pagamento di tutti i creditori della società – laddove fosse residuato unicamente un credito non ancora “certo” o “liquido” (e, dunque, non ancora iscrivibile nel bilancio finale di liquidazione) al solo fine di scongiurare il rischio che lo stesso, a seguito della cancellazione della società dal registro delle imprese, venisse qualificato come mera pretesa e, come tale, considerato estinto per l’effetto di una tacita rinuncia.

Ad oggi, dunque, sia che si tratti di crediti certi e liquidi, sia che si tratti di mere pretese, crediti illiquidi o sopravvenuti, bisognerà (ragionevolmente) ammettere la loro trasmissibilità agli ex soci anche se non inclusi nel bilancio finale di liquidazione, a meno che, nella fattispecie, non ricorrano altri elementi o circostanze da cui si possa desumere in maniera inequivocabile una volontà di rinuncia.