Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

21/04/2022 - La presunzione di distribuzione di utili ai soci

argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza

Nel caso di accertamento nei confronti di una società, la ristretta compagine societaria consente, all’Agenzia delle Entrate, di presumere la distribuzione di utili occulti in capo ai soci. Tale presunzione non ha origini normative ma giurisprudenziali. Trattandosi, comunque, di una presunzione di tipo relativa, si inverte l’onere della prova, ponendolo in capo al socio/contribuente.

PAROLE CHIAVE: presunzione - distribuzione degli utili - onere della prova


di Anna Rita Ciarcia

  1. L’ordinanza n. 29794 del 25 ottobre 2021 affronta il problema della prova da produrre in giudizio per vincere la presunzione di distribuzione degli utili ai soci, con vincoli di parentela, o, in generale, nel caso di ristretta base societaria (F. Paparella, La presunzione di distribuzione utili nelle società di capitali a ristretta base, in Dir. prat. trib., 1995, II, 458).

Viene definita società a ristretta base azionaria la società di capitali composta da un numero limitato di soci, legati spesso da vincoli di parentela e/o affinità; la progressiva generalizzazione e diffusione del suddetto schema societario ha visto gli uffici finanziari assoggettare a tassazione i maggiori utili extra-bilancio non dichiarati e accertati nei confronti della società, presumendo che tali utili occulti fossero distribuiti in capo ai soci (V. Ficari, Presunzione di assegnazione di utili extrabilancio ai soci e imputazione di costi fittizi, in Corr. trib., 2008, 1054).

Si evidenzia che negli anni si è giunti ad una sorta di “equiparazione” tra le società di persone e le società di capitali a ristretta base partecipativa, ritenendo, anche per queste ultime, legittimo assoggettare a tassazione i maggiori utili extra-bilancio non dichiarati e accertati nei confronti della società,

in capo ai soci, presumendo che tali utili occulti fossero loro distribuiti. In sostanza, se viene dimostrato che la società non ha dichiarato ricavi, il fatto che la cerchia sociale sia estremamente ristretta (pochi soci, in molti casi familiari o affini) fa presumere che il maggior reddito sia stato anche “ripartito” tra le persone fisiche (F. Rasi, La tassazione per trasparenza delle società di capitali a ristretta base proprietaria. Profili ricostruttivi di un modello impositivo, Padova, 2012; Ibidem, La ‘trasparenza per presunzione’ delle società a ristretta base proprietaria: l’attendibilità della presunzione ed il problema della qualificazione del reddito, in Riv. trim. dir. trib., n. 1/2013, 119; A. Viotto, Lezioni sull’IRES delle società di capitali, Bari, 2020, 67).

La ridotta compagine sociale, quindi, rappresenta a tutti gli effetti la chiave di volta che consente all’Amministrazione Finanziaria di presumere la distribuzione di utili in capo ai soci, di recuperare le imposte da questi non versate e di ribaltare su di loro l’onere di dimostrare in giudizio il contrario (R. Muffato, La presunzione di distribuzione di utili occulti nel caso di rettifiche a società di capitali a base ristretta o familiare, in Riv. dir. trib., 1999, II, 357). Ne consegue, che viene rimesso al contribuente il compito di produrre una prova tesa a dimostrare il fatto contrario.

Nel caso de quo, con unico motivo di ricorso in Cassazione, l’Agenzia delle Entrate contestava la sentenza della CTR che aveva accolto l’appello del contribuente che, socio al 50% di una società, si era visto imputare il maggior reddito accertato in capo alla società, in virtù proprio della ristretta base societaria.

Sebbene la Corte di Cassazione, per prima, abbia ritenuto esistente, nel caso di specie, una presunzione di distribuzione degli utili ai soci in società a ristretta base partecipativa, ha, nel tempo, riconosciuto, in capo al contribuente, la possibilità di vincere tale presunzione mediante prova contraria e con la dimostrazione che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti; in ogni caso, a parere di chi scrive, la ristretta base della compagine sociale è un dato di fatto che non consente di per sé stesso di trarre come univoca o, comunque, più probabile, rispetto ad altre possibili, la conclusione che gli utili societari non dichiarati siano stati effettivamente distribuiti ai soci (A. Perrone, Perché non convince la presunzione di distribuzione di utili “occulti” nelle società di capitali a ristretta base proprietaria, in Riv. dir. trib., n. 5/2014, 575).

 

 

 

  1. La presunzione di distribuzione non trova radici nella normativa tributaria (A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario, Torino, 2008), bensì nella giurisprudenza della Corte di Cassazione che, anni addietro, ritenne che nell’ipotesi di accertamento nei confronti di una società di capitali a ristretta compagine sociale, non può, in principio, escludersi la idoneità della base azionaria ristretta e/o familiare a fondare la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati (sentt. nn. 780 del 1980, 941 del 1986, 4051 e 4133 del 1987, 11785 del 1990, 2870 del 1992, 5729 e 6225 del 1995).

L’arbitrarietà della pretesa di fissare, per via giudiziale, la regula iuris secondo cui dall’accertamento della esistenza di utili extracontabili in capo ad una società a ristretta base partecipativa (fatto noto) si debba inferire, secondo un criterio di derivazione automatico e generale, l’avvenuta distribuzione pro quota ai soci dei medesimi utili (fatto ignoto). La teorizzazione, ad opera della giurisprudenza di legittimità, della esistenza di una siffatta presunzione generale applicabile erga omnes (in tutti i casi in cui è dato il fatto noto della esistenza di utili extracontabili in capo a società di capitali a ristretta base sociale) costituisce, per un verso, una “invasione di campo” da parte del giudice che, ancorché di legittimità, non è abilitato ad introdurre nell’ordinamento giuridico inesistenti presunzioni generali ed astratte, determinanti una inversione dell’ordinario onere della prova ex art. 2729 c.c., la cui previsione è riservata al legislatore; per altro verso sottrae al giudice di merito il potere-dovere di applicare egli la suddetta presunzione semplice, apprezzandone la capacità dimostrativa (ossia la gravità, precisione e concordanza) senza ricorrere ad un astratto giudizio ex ante di adeguatezza della presunzione, bensì esaminandone in concreto la idoneità probatoria sulla base degli specifici dati fattuali della specifica controversia (G. Locatelli, La presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili delle società di capitali a ristretta base partecipativa, in Corr. trib., n. 38/2018, 2914).

Più recentemente, si è ritenuto che in tema di presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili accertati in capo ad una società a ristretta compagine sociale, si riconosce la legittimità sulla base del fatto noto costituito dalla complicità, dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che normalmente caratterizza la gestione sociale nell’ambito delle anzidette società (ord. n. 25501/2020).

I dubbi sulla validità di tale presunzione sono stati superati dalla considerazione che essa non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è tanto la sussistenza di maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società di capitali, che è mero presupposto della fattispecie, quanto piuttosto la ristrettezza della sua base azionaria e/o il suo carattere familiare (G. Scanu, La presunzione di distribuzione degli utili nelle ‘piccole’ società di capitali tra ragione fiscale e difesa del contribuente, in Riv. trib. dir. trib., n. 2/2012, 443). Secondo la Corte, inoltre, l’orientamento medesimo scaturisce dalla consapevolezza dei limiti del sindacato di legittimità in tema di prova presuntiva, posto che la valutazione circa l’attitudine probatoria del fatto noto (non solo quanto alla preferenza accordatagli rispetto ad altre possibili fonti di convincimento, ma anche in ordine all’esistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza) è istituzionalmente riservata al giudice del merito, costituendo un apprezzamento di fatto, soggetto, come tale, al controllo di legittimità limitatamente alla congruenza logica del procedimento adottato e all’osservanza delle norme e dei principi regolatori del particolare mezzo di prova (Cass. sez. V, sent. dell’8 marzo 2000, n. 2606).

La coincidenza tra realizzazione di utili extra-bilancio e distribuzione degli stessi ai soci, in una società a ristretta base azionaria, deve farsi dipendere da quel particolare dato quantitativo consistente nel fatto che i soci sono pochi e che, conseguentemente, essi si trovano nella condizione di poter conoscere l’attività della società; da ciò discende, quale conseguenza immediata e diretta, in virtù del più ampio grado di conoscibilità dell’attività economica posta in essere dalla società, la presunzione di attribuzione patrimoniale ai soci.

La presunzione, naturalmente, produce come effetto l’inversione dell’onere della prova a carico del socio; con la ovvia conseguenza che laddove questo dimostri, in sede giudiziale, che non vi sia stata questa distribuzione di utili, si debba escludere il semplice automatismo accertativo e ricadrà sull’Ufficio, l’ulteriore prova di elementi positivi di dimostrazione dell’avvenuta distribuzione (ulteriori, ovviamente, rispetto alla presunzione) (Cass., sez. VI - 5, ord. del 20 gennaio 2016, n. 923).

Parallelamente all’orientamento giurisprudenziale descritto, se n’è sviluppato un altro che ha inteso mitigare la probatio diabolica ammettendo che la stessa presunzione possa essere vinta qualora l’amministrazione non sia in grado di fornire la c.d “prova rafforzata” della ristretta base sociale e dell’effettiva distribuzione degli utili e/o laddove il contribuente dimostri la sua estraneità alla gestione e conduzione societaria. (Cass., sez. V, sent. del 23 dicembre 2019, n. 34282; sentt. del 29 ottobre 2019, n. 27639, 27638 e 27637; ord. del 16 ottobre 2019, n. 26112; sent. del 17 luglio 2019, n. 19171).

 

 

  1. La presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria, fondata sul disposto del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), induce, come detto, l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (Marcheselli, Spetta al contribuente provare la presunzione di distribuzione degli utili di società a ristretta base - La presunzione di distribuzione degli utili societari delle c.d. società a ristretta base, tra induzioni ragionevoli e abnormità istruttorie, in GT - Riv. giur. trib., n. 1/2016, 87)

Infatti, si ritiene che il ristretto numero dei soci facilita la possibilità di occultare guadagni, non facendoli transitare nella ordinaria contabilità, è per questo motivo che l’onere della prova viene spostato in capo al contribuente, a cui spetta il compito di provare il contrario, ponendo in evidenza le contraddizioni in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione Finanziaria (M. Beghin, L’occulta distribuzione dei dividendi nell’ambito delle società di capitali a “ristretta base” tra automatismi argomentativi e prova per presunzioni, in Giur. trib., 2004, 431).

Negli anni sono stati individuate delle situazioni che, se adeguatamente provate dal contribuente, impongono all’Amministrazione finanziaria l’individuazione di ulteriori elementi.

In primo luogo, la presunzione può essere vinta dimostrando la propria estraneità alla gestione sociale: infatti, il contribuente, nel caso de quo, ha provato che i propri rapporti con il socio amministratore si erano profondamente deteriorati tanto che tra gli stessi sono insorti liti giudiziarie civili e procedimenti penali e, a ulteriore riprova, il socio amministratore aveva revocato l’incarico al commercialista di fiducia della società. Questi elementi hanno portato i giudici della CTR a desumere, con un ragionamento logico-deduttivo fondato sui dati della comune esperienza, e confermato dalla Suprema Corte, che il socio non aveva possibilità di effettuare controlli sull’attività gestoria dell’amministratore, responsabile dell’acquisizione degli utili in nero, per l’assenza di contatti tra amministratore e socio stante i rapporti altamente conflittuali tra loro intercorrenti e non era neanche in grado venire a conoscenza dell’andamento e delle dinamiche attraverso il commercialista di fiducia.

Più in generale, il socio può vincere la presunzione laddove provi di avere ricoperto un ruolo meramente formale di semplice intestatario delle quote sociali (Cass., sez. V, ord. del 15 settembre 2021, nn. 24870 e 24871), senza avere concretamente svolto alcuna della attività di gestione e controllo riservate dalla legge (e dallo statuto) al socio della società (Cass., sez. VI, ord. del 1 dicembre 2020, n. 27445) (P. Coppola, La questione dell’onere della prova contraria (vincolata) in capo ai soci di società a ristretta base azionaria, in Riv. dir. trib. – suppl. online del 15 novembre 2021).

Il contribuente, quindi, può dimostrare, in giudizio, la propria estraneità e la mancanza di ingerenza nella conduzione societaria attraverso una attività concreta di dissociazione; pertanto, se il socio è estraneo alla gestione non opera la presunzione di percezione di utili non dichiarati.

L’utilizzo della presunzione legata alla ristretta base sociale, al fine di poter recuperare, sul singolo socio, quanto ritenuto occultamente distribuitogli dalla società, pur se ammesso, necessita di ulteriori elementi per provare la percezione di utili, nel caso in cui sia realizzato dall’Ufficio nei confronti di un socio (eventualmente con partecipazione minoritaria), avente deboli poteri di gestione.

Il procedimento presuntivo si basa, tra l’altro, anche sulla valutazione che in una società a ristretta base sociale ciascuno dei soci abbia un controllo sufficiente dell’effettivo andamento dell’azienda e che, comunque, sussista una sostanziale lealtà di fondo, nell’interesse comune, all’interno del gruppo ristretto: anche questo rientra nell’id quod plerumque accidit.

Questo procedimento presuntivo rimane valido in quando, e fino a quanto, non sussistano altri elementi, anche soltanto presuntivi semplici (aventi cioè il medesimo valore), in senso contrario.

E’ valida, per vincere la presunzione, anche la circostanza che un contribuente ritenga di essere stato parte lesa e di avere presentato querela nei confronti dell’altro socio.

Infatti, che solo uno (o una parte) dei soci abbia percepiti gli utili sociali occulti, ponendo in essere così il reato di appropriazione indebita in danno degli altri soci, evidentemente non può costituire una ipotesi normale, ma non può neppure essere escluso. Indubbiamente l’esistenza di una denunzia e/o querela da parte della parte lesa (che presentandola assume precise responsabilità esponendosi al rischio di essere imputata a sua volta di calunnia se i fatti risultino inconsistenti) potrebbe costituire se non una prova, un valido elemento indiziario ulteriore in senso contrario alla applicazione in concreto al caso specifico della presunzione (semplice, anche se di carattere generale), della distribuzione a tutti i soci degli utili occulti. Ma, pur in mancanza di essa, che avrebbe tranquillizzato maggiormente, anche il semplice fatto che in questo caso gli utili occulti siano stati reperiti in un posto specifico (esattamente in un conto corrente del socio amministratore delegato), e non risulti un ulteriore spostamento di quei fondi (o di altri di importo corrispondente) costituisce un consistente elemento, sia pure indiziario semplice, in senso contrario all’operatività nel caso concreto della presunzione, anch’essa semplice, dell’avvenuta distribuzione proporzionale dei fondi a tutti i soci. Il giudice del merito non poteva ragionevolmente non tenerne conto ed avrebbe dovuto motivare specificamente su questo punto (Cass., sez. V, sent. del 7 novembre 2005, n. 21573, in Dir. e prat. trib., n. 1/2006, II, 187).

 

 

 

  1. Quanto ai rapporti tra l’accertamento notificato alla società e l’atto impositivo nei confronti dei soci, è ricorrente nella prassi, che l’Agenzia delle entrate non effettui alcuna indagine sulla situazione economica dei soci, limitandosi ad accertare la “ristretta base sociale” dell’ente ed a ribaltare sugli stessi, pro quota, gli utili extracontabili accertati in capo alla società. (M. Cedro, In tema di accertamento nei confronti dei soci di redditi non dichiarati dalle società di capitali a ristretta base sociale: segnali di maggiore tutela per i soci, in Rass. trib., n. 3/2020, 846; F. Rasi, Aggiornamenti in tema di società a ristretta base proprietaria: finalmente un approccio sincretico, in Dir. e prat. trib., n. 6/2019, 2399).

A tal proposito, tuttavia, si pone il problema derivanti dalla coeva pendenza delle controversie attivate dai soci e dalla società e dal conseguente rischio di giudicati contrastanti; pertanto si analizzano tre situazioni (accertamento della società impugnato; accertamento della società divenuto definitivo per omessa impugnazione; accertamento della società definito in adesione con l’Ufficio) con conseguenti ricadute sull’atto impositivo notificato al socio.

Nell’ipotesi di società a ristretta base sociale, l’accertamento relativo agli utili extracontabili della società, anche se non definitivo, è presupposto dell’accertamento presuntivo nei riguardi del singolo socio, in ragione della sua quota di partecipazione agli utili sociali, sicché l’impugnazione dell’accertamento “pregiudicante” costituisce, fino al passaggio in giudicato della pronuncia che lo riguarda, condizione sospensiva, ex art. 295 c.p.c., ai fini della decisione della lite sull’accertamento “pregiudicato” relativo al singolo socio, la cui esistenza e persistenza grava sul contribuente che la invochi sotto forma di allegazione e prova del processo scaturente dall’impugnazione del provvedimento impositivo.

Pertanto, in caso di pendenza separata di procedimenti relativi all’accertamento del maggior reddito contestato ad una società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, quest’ultimo giudizio deve essere sospeso, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992, e dell’art. 295 c.p.c., in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società (S. Loconte La sospensione del processo tributario, in Il Processo, n. 2/2019, 359; G. Benaglia, Il litisconsorzio necessario e la sospensione dei processi per i soci di società a “ristretta base”, in Il fisco, n. 13/2016, 1251); costituendo l’accertamento tributario nei confronti della società un indispensabile antecedente logico-giuridico di quello nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano (Cass., sez. VI - 5, ord. del 6 aprile 2017, n. 8988).  

Naturalmente, l’annullamento dell’avviso emesso a carico di società di capitali a ristretta base partecipativa, con sentenza passata in giudicato, per vizi attinenti al merito della pretesa tributaria, avendo carattere pregiudicante, spiega i suoi effetti a favore di tutti i soci e quindi anche nel connesso giudizio avente ad oggetto l’avviso di accertamento notificato al singolo socio e relativo al suo reddito da partecipazione scaturente a seguito di rettifica operato nei confronti della società (Cass., sez. V, ord. del 10 dicembre 2021, n. 39285; viceversa, tale carattere pregiudicante non si rinviene invece in ipotesi di giudicato formale (come nell’ipotesi di inesistenza della notifica e per errata intestazione dell’avviso), le quali danno luogo ad un giudicato formale, e non sostanziale, difettando una pronuncia che revochi in dubbio l’accertamento sulla pretesa erariale (Cass., sez. V, sent. del 19 gennaio 2021, n. 752)).

Nel diverso caso in cui l’atto impositivo notificato alla società sia divenuto definitivo per omessa impugnazione, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità, il socio, che si vede notificare il conseguente avviso personale per la distribuzione di utili extracontabili, lungi dal poter mettere in discussione, nel merito, un accertamento che nei confronti del soggetto societario si è reso definitivo, potrà tuttavia difendersi relativamente alla propria posizione, dimostrando che l’utile extracontabile non gli è stato mai distribuito, ma che è stato accantonato o reinvestito dalla società nel pieno rispetto del diritto di difesa costituzionalmente garantito all’art. 24 della Carta stessa (Cass., sez. V, ord. del 29 ottobre 2019, n. 27637; sent. del 29 luglio 2016, n. 15828).

Tale orientamento, tuttavia, non può dirsi legittimo, perché in contrasto con il diritto di difesa sancito dalla Costituzione; infatti il socio si vedrebbe costretto a subire le conseguenze di un giudizio riferito ad altro e diverso soggetto giuridico.

La Corte di Cassazione, recentemente, ha rivisto il proprio orientamento statuendo che l’accertamento nei confronti del socio è indipendente da quello svolto nei confronti della società, costituendo quest’ultimo unicamente il presupposto di fatto, ma non condizione dell’accertamento nei confronti del socio stesso. Il socio, nel procedimento che lo riguarda, può, quindi, confutare non solo l’avvenuta distribuzione degli utili, ma finanche la stessa ricorrenza della loro formazione in capo alla società (Cass., sez. V, sent. del 4 gennaio 2022, n. 2).

Infine, si analizza il caso in cui la società abbia definito, in adesione, il proprio avviso di accertamento; preliminarmente si precisa che sebbene, in sede di verbale di adesione, spesso venga inserita una clausola secondo cui il maggior reddito della società rileva “solo ai fini della presente adesione”, questo deve essere interpretato come un accordo tra la società e l’Amministrazione preclusivo di ulteriori accertamenti nei confronti della prima, ma non può impedire la presunzione di distribuzione di maggiori utili ai soci e, quindi, la notifica di autonomi avvisi ad essi.

Deve escludersi, in considerazione della finalità propria dell’accertamento con adesione (che è quella di pervenire alla definizione della lite nella logica deflattiva a mezzo dell’abbuono di parte delle sanzioni dovute dal contribuente), che l’istanza di adesione formulata dalla società estenda la propria efficacia ai soci che non abbiano proposto, a loro volta, analoga istanza; ciò in quanto l’accertamento definito con adesione, che non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile o modificabile da parte dell’ufficio, riguarda la sola società ed il maggior reddito accertato in capo ad essa non si presume distribuito ai soci, incombendo sull’ufficio l’onere della prova in ordine alla distribuzione di esso (Cass., sez. V, ord. del 20 dicembre 2018, n. 32959).

Ne consegue che l’avviso di accertamento notificato al socio mantiene la propria autonomia e gli elementi addotti dalla società in sede di accertamento con adesione potranno essere considerati, nella fase contenziosa instauratasi tra l’amministrazione ed il socio, solo quali elementi di prova da valutare unitamente alle prove offerte dal contribuente (Cass., sez. V, ord. del 24 gennaio 2019, n. 1947), nel rispetto del diritto alla difesa riconosciuto al socio; se la società ha definito la propria posizione con una procedura per adesione, il verosimile maggior reddito accertato (che però, sicuramente sarà inferiore rispetto al reddito inizialmente accertato alla società) con questa modalità potrà, eventualmente, rappresentare un elemento per dimostrare il conseguimento da parte della società di redditi non dichiarati, da cui consegue la presunzione di distribuzione al socio, il quale, però, potrà fornire la più ampia prova contraria.

Infatti, il socio non partecipa al procedimento di accertamento del maggior reddito a carico della società di capitali, pertanto lo stesso deve sempre avere la possibilità di contestare la pretesa dell’ufficio, anche quando questa si fondi sul maggior reddito societario concordato per adesione della persona giuridica (Cass., sez. V, ord. n. 16810 del 7 luglio 2017; occorre, peraltro, considerare che in quest’ultima decisione viene accolto il ricorso dell’Agenzia, perché la questione consisteva nel fatto che l’Ufficio voleva provare, rispetto ai soci, maggiori redditi societari attraverso gli accertamenti bancari mentre la CTR li aveva evidentemente esclusi sulla base del valore accertato in adesione dalla società. Il principio affermato nella sentenza ovvero l’autonomia tra reddito accertato con adesione e maggior reddito effettivo della società, si è tradotto quindi in termini favorevoli all’Agenzia).

 

 

  1. Essere socio di una società di capitali con compagine sociale ristretta significa trovarsi in una situazione oggettiva, che è giuridicamente rilevante perché lo scarso numero di soci si converte nel dato qualitativo della maggiore conoscibilità degli affari societari. La giuridicità di tale situazione oggettiva sì esprime attraverso la sottoposizione del socio all’onere di conoscere.

La ridotta compagine sociale rappresenta, pertanto, a tutti gli effetti la chiave di volta che consente all’Amministrazione Finanziaria di presumere la distribuzione di utili in capo ai soci, di recuperare le imposte da questi non versate (unitamente a sanzioni e interessi) e di ribaltare su di loro l’onere di dimostrare in giudizio il contrario.

La presunzione, basata sulla regola di comune esperienza, secondo cui la ristretta base azionaria legittima la compartecipazione alla gestione e il controllo reciproco tra soci, anche a prescindere dal vincolo familiare, può venir meno allorché risulti l’inesistenza di rapporti con vincolo di complicità, che avvalorino lo stretto legame esistente tra i soci.

In particolare, come nel caso della sentenza in esame, tra le circostanze che potrebbero scagionare il socio accertato, vi è la dimostrazione che, nonostante la ristretta compagine, altri soci detengano il controllo delle scelte gestionali e amministrative; pertanto la prova che il socio non sia edotto delle vicende relative alla gestione della società fa venir meno il “presupposto” fondamentale da cui muove la presunzione: vale a dire l’esistenza di quell’elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi.

Quanto al socio, destinatario dell’atto impositivo conseguente a quello societario, in pendenza del giudizio della società, è giusto ed opportuno sospendere il giudizio individuale del socio, per evidente rapporto di pregiudizialità tra gli atti impositivi. Nel diverso caso in cui l’atto della società sia diventato definitivo (per sentenza passata in giudicato o per adesione della società), il socio, potrà esercitare il proprio diritto di difesa ed agire in giudizio per dimostrare la mancata percezione di utili, stante l’autonomia dei giudizi e la diversità dei soggetti passivi coinvolti.