Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

04/04/2022 - Inerenza, marchio e costi infragruppo: la “redditività di lungo termine” secondo la Cassazione

argomento: IRES - Giurisprudenza

L’ordinanza della Corte di Cassazione in commento ripercorre il consolidato orientamento giurisprudenziale sull’inerenza dei costi infragruppo, soffermandosi sulla deducibilità delle royalties per l’uso di un marchio in un mercato B2B. La pronuncia valorizza la progettualità del gruppo e il mercato di riferimento, pur collegando l’inerenza alla nozione di redditività di lungo termine.

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PAROLE CHIAVE: marchio - inerenza - costi infragruppo


di Silvia Giorgi

  1. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento (Cass. Ord. 14 luglio 2021 – 3 novembre 2021, n. 31288) ripercorre il proprio orientamento in tema di inerenza, con particolare riferimento alla deducibilità dei costi per servizi infragruppo, e rigetta il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, in quanto la società contribuente ha assolto all’onere probatorio, dimostrando “la verosimile prospettiva di una maggiore redditività di lungo termine”.

Nella concreta fattispecie, la società accertata aveva dedotto i costi relativi all’utilizzo del marchio, pur non avendolo direttamente apposto sui prodotti medicali realizzati per conto di operatori del settore farmaceutico. Il giudice di merito aveva, quindi, rilevato il ruolo della contribuente quale produttore di servizi in un mercato di riferimento business to business: si era, quindi, avvantaggiata degli standard di qualità sottesi al marchio utilizzato, senza alcuna necessità di apporlo sui prodotti finali commercializzati a valle dalle case farmaceutiche nel mercato business to consumer.

La Corte, in particolare, ha valorizzato alcuni elementi richiamati diffusamente dal giudice di merito con riferimento all’utilità della spendita del marchio, evidenziata da uno studio di consulenza prodotto dalla società: in primo luogo, l’ impatto sulla riduzione di rischi in quanto, anche nel mercato business to business il marchio è garanzia di qualità, con registrazione e tutele in ambito europeo ed internazionale; in secondo luogo, negoziazione ed acquisto vengono favoriti, differenziando le offerte industriali, in un mercato che non può che essere competitivo, dovendo, comunque, il fornitore dimostrare punti di forza e qualità per convincere le imprese acquirenti (ossia le case farmaceutiche) a selezionarlo rispetto ad eventuali concorrenti. Sulla base di tali premesse, la società aveva, peraltro, dimostrato attraverso una specifica analisi dei vantaggi qualitativi e quantitativi, il valore aggiunto derivante dagli standard sottesi alla spendita del marchio utilizzato, anche se non apposto sui prodotti finali, coerentemente con la natura di marchio di servizi e non già di marchio di prodotti.

 

  1. La decisione della Corte ripercorre brevemente le tappe del proprio orientamento in tema di inerenza e onere della prova, evolutosi negli ultimi anni, recependo in gran parte le sollecitazioni dottrinali. È noto che l’inerenza è considerata principio imperante nell’ambito della rilevanza delle componenti negative nel calcolo del reddito d’impresa (Funditus, sull’inerenza nel suo rapporto con la trama costituzionale, GIOVANNINI, Principi costituzionali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. Trib., 2011, 3, p. 621): un costo è inerente se ed in quanto si presenti quale effetto della gestione dell’impresa. Ciononostante, in una più ampia prospettiva, l’inerenza concerne anche le componenti positive, quale generale collegamento teleologico di tutte le componenti con l’attività d’impresa (TINELLI, Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Riv. Dir. Trib., 2002, 5, p. 448). Essa consente di accertare quali componenti si pongono in relazione funzionale – non meramente occasionale - con la produzione del reddito, attraverso un collegamento oggettivo di riferibilità all’esercizio dell’impresa. Per le componenti negative, la deduzione dei costi, in un quadro di determinazione analitica degli imponibili, è caratteristica del concetto pregiuridico di reddito, inteso come reddito netto (LUPI, Redditi illeciti, costi illeciti, inerenza ai ricavi e inerenza all’attività, in Rass. Trib., 2004,6, p. 1935). La ratio di tale clausola è, dunque, quella di tener conto, nella determinazione del reddito d’impresa, delle sole spese che immediatamente o mediatamente afferiscono alla produzione di reddito, escludendo, invece quelle afferenti a consumi o investimenti privati dell’imprenditore o di terzi (ZIZZO, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa in AA.VV. L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Tomo II, Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da TESAURO, Torino, 1994, p. 557; VIGNOLI, La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari. Riflessioni sull’inerenza nella tassazione attraverso le aziende, Roma, 2012, p. 122.).

Progressivamente e storicamente, il contenuto del principio si è evoluto: dapprima, inteso restrittivamente, quale rigoroso collegamento – se non immedesimazione - della componente negativa ai ricavi, e, dunque, ai beni o servizi prodotti. Ha, poi, subito una trasformazione fino ad includere tutte le spese necessarie alla produzione di reddito, approdando, da ultimo, alla sostituzione del nesso costo - bene con quello costo - attività d’impresa.

L’inerenza si è, quindi, emancipata dalla riferibilità delle spese alla produzione di reddito, essendo sufficiente la sola riferibilità delle spese all’attività d’impresa, attraverso una revisione critica del concetto di necessarietà della spesa. La giurisprudenza, ha quindi, sposato da oltre un decennio il principio per cui l’inerenza esprime la “relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa” tale per cui “il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili” (Corte di cassazione, 21 gennaio 2009, n. 1465).

Nella valorizzazione del ruolo del programma imprenditoriale, l’inerenza deve apprezzarsi in relazioni a scelte complementari o integrative rispetto all’attività programmata e/o idonea a soddisfare le esigenze emerse nell’attività stessa, non necessariamente in termini di rimuneratività ma anche mera funzionalità (FICARI, Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 188).

Il nesso funzionale, peraltro, lungi dal rilevare in un giudizio di inevitabilità del comportamento si traduce nell’idoneità a soddisfare l’interesse dell’impresa alla realizzazione di un programma economico, fermo restando che la valutazione non deve fondarsi né sulla sussistenza di operazioni attive o proventi imponibili, né sulla valutazione di stretta necessità della spesa, la quale ben potrebbe essere voluttuaria e finanche superflua se finalizzata all’acquisto di un bene o servizio destinato ad essere utilizzato esclusivamente nell’attività economica. Da, ultimo, la giurisprudenza si è spinta a svalutare ogni riferimento all’interesse (Cassazione 11 gennaio 2018, ordinanza n. 450; in dottrina VICINI RONCHETTI, Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. dir. trib., 2019, 5, p. 551), ritenendo che i componenti negativi di reddito non sono fiscalmente deducibili nella misura in cui arrecano “utilità” per l’impresa ma sulla base di una più complessa disamina del costo alla luce del complessivo programma imprenditoriale.

 

  1. In questa cornice si colloca anche la pronuncia in commento che, pur valorizzando la dimensione utilitaristica, cala il concetto di interesse nello specifico programma d’impresa e nel mercato di riferimento, confermando, sul versante probatorio, gli elementi valutati in sede di merito. Il giudizio di inerenza nella deducibilità dei costi infragruppo riesuma le nozioni di interesse e utilità, ormai recessivi nella giurisprudenza sul principio “in generale”: per i costi infragruppo è, infatti, consolidato il leitmotiv per cui la deducibilità del corrispettivo riconosciuto alla capogruppo impone la dimostrazione che la controllata tragga dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima sia obiettivamente determinabile e adeguatamente documentata (ex multis 6 luglio 2021, n. 19001). L’onere della prova che incombe sulla controllata non è, quindi, assolto con la mera esibizione del contratto (c.d. cost sharing agreement) riguardante le prestazioni fornite dalla controllante, ma richiede la specifica allegazione degli elementi necessari a determinare l’utilità effettiva o anche soltanto potenziale conseguita dalla consociata. Nel caso di specie, l’effettiva utilità è accertata in relazione alla progettualità della controllata e del gruppo nel suo insieme, in una complessiva operazione di outsourcing: da quanto è dato evincere nella pronuncia, la contribuente aveva progressivamente mutato il suo ruolo all’interno del gruppo, trasformandosi da produttore “interno” a produttore “terzo”, al potenziale servizio di cause farmaceutiche interessate alla realizzazione di farmaci da immettere sul mercato business to consumer. Ciò non aveva inficiato l’utilità della spendita del marchio, inteso come marchio di servizi e non come marchio di prodotti, idoneo a contraddistinguere gli standard della “casa” in occasione di fiere e manifestazioni analoghe nell’ambito del mercato business to business. In particolare, detta utilità era stata evidenziata nello studio di una società di consulenza che aveva enfatizzato i numerosi benefici derivanti dall’utilizzo del segno distintivo anche in un mercato interorganizzativo in quanto il marchio è garanzia di qualità ed è giuridicamente tutelato, garantendo l’acquirente (casa farmaceutica) dei servizi nel mercato B2B rispetto ai consumatori finali a valle; al contempo, gli standard qualitativi sottesi al segno distintivo determinano un vantaggio selettivo e competitivo, fondamentale per convincere le imprese acquirenti nella scelta tra i vari concorrenti.

Pur non essendo stata dimostrata l’effettiva incidenza sull’incremento di ricavi, la Corte ritiene che sia sufficiente la “mera prevedibilità della realizzazione di utili”, non necessariamente nell’immediato, attraverso un meccanismo di “prognosi postuma”.

Il riferimento al criterio penalistico che allude ad una valutazione di idoneità ex ante ma in concreto è quanto mai opportuno, giacché, con precipuo riferimento ai costi per la produzione di beni immateriali, l’impraticabilità della valutazione ex post è confermata dalla deducibilità dei costi per studi e ricerche ex art. 108 T.U.I.R..

In seguito alle modifiche apportate dall’art. 13 bis, co. 2°, lett. c) del d.l. 244/2016 (art. 108, co. 1°), tali costi sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio, mentre, ex art. 108 co. 3° T.U.I.R., qualora diano vita all’acquisto di beni, il relativo ammortamento dovrà essere diminuito dei costi per studi e ricerche già dedotti.  Da ciò si desume che, qualora le attività di studio e ricerca confluiscano nella realizzazione di un bene immateriale, si impone il raccordo fra i costi precedentemente dedotti – quando ancora il risultato “latitava” – e quelli relativi all’acquisto del bene.

Se, invece, detta attività non confluisce in alcun risultato utile, non potrà, comunque, essere disconosciuta la deducibilità dei costi per difetto di inerenza sulla base di una valutazione ex post, là dove, con il giudizio di prognosi postuma di cui sopra, le attività di studio e ricerca intraprese fossero coerenti con il programma imprenditoriale e, dunque, ex ante idonee, sulla base delle circostanze del contesto concreto, a produrre utilità.

La stessa giurisprudenza ha avallato tale conclusione, precisando che le spese per l’attività di ricerca e sperimentazione possono essere pienamente dedotte anche allorquando abbiano condotto alla realizzazione di un prodotto fallimentare e, quindi, non commerciabile (cfr. Cass. 23 ottobre 2006, n. 22786, in Il Fisco, 2006, p. 7181).

 

  1. La sentenza in commento, pur confermando la centralità della verifica utilitaristica ai fini della deducibilità dei costi infragruppo, contiene timidi elementi di rottura rispetto all’orientamento consolidato (definito “ius receptum” dalla pronuncia stessa”). Innanzitutto il perentorio abbandono della linea che ricollega la deducibilità all’effettiva produzione di ricavi, qui felicemente e recisamente sostituita dalla “verosimile prospettiva di una maggiore redditività a lungo termine”.

A tal fine, viene confermato l’iter logico seguito dal giudice di merito che aveva mutuato la locuzione di matrice penale, della c.d.  “prognosi postuma”, ossia una valutazione ex ante ed in concreto (così come prospettato da GIORGI, I beni immateriali nel sistema del reddito di impresa, Torino 2020, p. 171): la prospettiva di incremento della redditività deve, quindi, apprezzarsi collocandosi idealmente nella posizione dell’impresa nel momento in cui pone in essere l’atto giuridico rilevante finalizzato al sostenimento del costo e in ragione di tutte le circostanze del caso concreto. La Corte afferra, quindi, il momento in cui il sindacato di inerenza può efficacemente dispiegarsi e valorizza le circostanze concrete sintomatiche del futuro conseguimento di un vantaggio economico. Manca, forse, l’ultimo slancio per la lettura dell’utilità (anche nei rapporti infragruppo) non più in termini di necessario incremento di redditività – attuale o potenziale che sia – ma di mera coerenza con il programma d’impresa della controllata e del gruppo nel suo insieme.

La sentenza coglie, insomma, il momento ma non lo cavalca, soffocando in parte l’innovatività della conclusione, opportunamente incentrata sull’obiettivo del gruppo nel suo complesso (l’operazione di outsourcing) e sul mercato di riferimento.

Vero che il giudizio di inerenza deve effettuarsi ex ante e in concreto, ma deve investire l’attitudine del comportamento d’impresa a soddisfare l’interesse o il programma della controllata e del gruppo, perdendo ogni rilevanza sia l’effettivo conseguimento di ricavi, sia di qualsivoglia altra utilità accertabile solo ex post.  

Un ulteriore elemento - su cui la Corte non si è soffermata esplicitamente pur analizzando diversi elementi sintomatici del progetto d’impresa -  è il parametro di “oggettivizzazione” del programma imprenditoriale che, dalla “mente” degli ideatori, deve necessariamente estrinsecarsi in elementi oggettivamente apprezzabili (e documentabili). Tale oggettivizzazione del programma non deve essere appiattita al parametro di una astratta “normalità” economica, giacché il rischio è quello di considerare “inerente” solo quella spesa che l’imprenditore modello avrebbe sostenuto secondo l’id quod plerumque accidit. Il che si rivela particolarmente insoddisfacente apprezzando l’inerenza per i beni immateriali (in particolare, il riferimento più che al marchio è ai beni immateriali innovativi), in quanto proprio l’impresa originale e intraprendente potrebbe pionieristicamente sostenere costi che fuoriescono dal circuito della normalità dei più.