Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

25/10/2022 - Il reato di omesso versamento delle ritenute

argomento: Sanzioni e contenzioso - Giurisprudenza

L’omesso versamento delle ritenute è un reato di natura omissiva a carattere istantaneo; il sostituto presenta la dichiarazione ma poi non versa allo Stato le somme dovute. Configurando un reato disciplinato dal D.Lgs. n. 74/2000, al superamento delle soglia di punibilità, si apre il giudizio penale. La Cassazione, con orientamento pressoché conforme, ritiene che per la commissione del reato, sia sufficiente la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato e non riconosce come causa di non punibilità l’eventuale crisi di liquidità eccepita dai ricorrenti.

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PAROLE CHIAVE: ritenute - omesso versamento - dolo


di Anna Rita Ciarcia

1.Con le sentenze in commento (Cass. penale, sez. III, sentt. n. 3772 del 3 febbraio 2022 e n. 3962 del 4 febbraio 2022), la Corte di Cassazione, sezione penale, è tornata a pronunciarsi sul reato di omesso versamento delle ritenute certificate operato dal datore di lavoro previsto dall’art. 10-bis del D.lgs. n. 74/2000.

L’omesso versamento è un reato di natura omissiva (secondo una dottrina penale la condotta di cui all’art. 10-bis non è configurabile come condotta esclusivamente omissiva, ma come condotta mista, costituita da una parte attiva e da una parte omissiva. La parte attiva consiste nella presentazione della dichiarazione; la parte omissiva consiste nel mancato versamento allo Stato di quanto liquidato in dichiarazione, cfr. Rossi, Osservazioni a Cass. pen., 5 novembre 2015, sez. III, n. 3098, in Cass. pen., n. 9/2016, 3379) e a carattere istantaneo, che si realizza laddove chiunque non versi entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti.

Quanto al momento consumativo del reato, essendo integrato da una condotta unisussistente, esso si realizza e si consuma con l’omissione del versamento che supera la soglia minima prevista alla scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo d’imposta dell’anno precedente (Cass., sez. III pen., sent. del 23 gennaio 2019, n. 22061).

Fino alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno precedente, il comportamento omissivo del contribuente non è penalmente rilevante, e la condotta criminosa si realizza e consuma solo nell’istante in cui, alla detta scadenza, si registri un’omissione del versamento che (indipendentemente dalle modalità del suo formarsi) superi la soglia minima prevista; la condotta penalmente rilevante non è l’omesso versamento delle ritenute nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento delle ritenute certificate nel maggiore termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell’anno precedente (così la sentenza citata n. 22061/2019 che richiama SS. UU. del 28 marzo 2013, n. 37425).

Si può, dunque, ritenere, che l’omissione ha ad oggetto il mancato versamento all’erario delle ritenute effettuate dal sostituto: si tratta, dunque, di somme di cui il sostituto ha avuto la disponibilità ma che non ha versato.

 

2.Sebbene molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. n. 74/2000 (Perrone, La nuova disciplina dei reati tributari: “luci” ed “ombre” di una riforma appena varata, in Riv. dir. trib., n. 4/2015, 61), richiedano che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo dell’art. 10-bis.

Per la commissione del reato, basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di punibilità, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore.

Di conseguenza, la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine previsto.

L’elemento psicologico della condotta tipizzata dall’articolo in esame, corrisponde, dunque, al dolo generico; a maggior ragione quando trattasi, come nel caso de quo, di ritenute che il contribuente ha nella propria disponibilità, le ha trattenute ma non le ha versate.

Non si è mancato, tuttavia di dubitare della sussistenza, in capo all’imprenditore che non versa le somme dovute, del dolo generico: il contribuente che non paga il fisco è consapevole di tale sua condotta ma ciò non significa che è sua intenzione porla in essere, giacché tale omissione può dipendere anche dall’impossibilità di provvedere al versamento di quanto dovuto stante la crisi di liquidità in cui versa l’azienda, posto che il soggetto obbligato ben potrebbe non avere a sua disposizione la somma dovuta in conseguenza di un evento estraneo alla sua volontà e che lui non ha potuto evitare (Pierdonati, Crisi dell’impresa e responsabilità penale del vertice della società verso nuovi equilibri giurisprudenziali, in Dir. pen. proc., 2013, 965).

Soprattutto negli ultimi anni, infatti, le difficoltà economiche e finanziarie che hanno investito molti settori hanno portato ad un aumento del reato di omesso versamento delle ritenute.

La giurisprudenza penale (Cass. pen., sez. III, sent. n. 6113 del 7 gennaio 2016) è costante nel ritenere irrilevante la crisi finanziaria addotta come “giustificazione” dal contribuente/imprenditore, sottolineando come questi avrebbe dovuto effettuare degli accantonamenti degli importi necessari a soddisfare il debito tributario piuttosto che utilizzare quelle somme per altre destinazioni; ciò in considerazione che l’Iva incassata non rientra nella disponibilità dell’imprenditore, il quale non è il soggetto inciso dal tributo ma “solo” colui che, per legge, riscuote dal consumatore finale per poi versare allo Stato (Cardone - Pontieri, L’incidenza dell’illiquidità dell’impresa sui reati di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000, in Riv. dir. trib., n. 2/2013, III, 19; gli Autori evidenziano come il buon contribuente deve considerare che egli non può disporre liberamente delle ritenute come se fossero soldi suoi, ma deve limitarsi ad accantonarle e poi versarle alle scadenze di legge allo Stato. Se non si comporta così dovrà rispondere del mancato versamento).    

Il buon contribuente non deve disporre delle ritenute come se si trattasse di risorse proprie , ma deve limitarsi ad accantonarla per poi versarla all’Erario: se così non fa, risponde del mancato versamento, senza poter invocare a propria scusante lo stato di insolvenza che ha contribuito colposamente a provocare.

 

3. Gli spazi per ritenere l’assenza dell’elemento soggettivo o la sussistenza della scriminante della forza maggiore quale conseguenza di una improvvisa ed imprevista situazione di illiquidità appaiono, ad oggi, oggettivamente ristretti; occorre premettere che per forza maggiore deve intendersi la forza esterna della natura che determina, in modo irresistibile, il soggetto a tenere un comportamento attivo o omissivo; ciò non può dirsi nel caso ex art. 10-bis (Mantovani, Diritto penale, Padova, 2001, 374; Giovannini, Impossibilità di pagare le imposte nelle imprese in crisi: la forza maggiore esclude la pena?, in Corr. trib., n. 42/2012, 3257).

Nei reati omissivi affinché si possa integrare la causa di forza maggiore occorre l’assoluta impossibilità e non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso.

Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Cass. pen., sez. III, sent. n. 55480 del 13 dicembre 2017; Cass. pen., sez. III, sent. n. 47250 del 10 novembre 2016; Cass. pen., sez. III, sent. n. 43599 del 29 ottobre 2015).

Da un esame della giurisprudenza di merito degli ultimi anni, si evidenzia che i motivi dell’illiquidità che vengono generalmente sottoposti all’attenzione dei Tribunali, insieme o in alternativa, sono: a) l’aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare dei licenziamenti; b) l’aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società; c) la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, spesso nei confronti dello Stato. Ebbene, nessuna di queste situazioni, seppure provata, può integrare, ex sé, le cause di non punibilità previste dal codice penale ovvero lo stato di forza maggiore (art. 45 c.p. - Cass. pen., sez. III, sent. n. 30397 del 18 luglio 2016; per i giudici l’omesso versamento era stato il frutto di una scelta consapevole di politica aziendale; una decisione non dettata, dunque, da una forza maggiore, in quanto non ravvisabile la necessità assoluta di violare la normativa vigente. La Corte ha ricordato che la mancata disponibilità della somma necessaria per soddisfare un debito tributario non costituisce forza maggiore qualora derivi da una precisa scelta di politica imprenditoriale) o lo stato di necessità (art. 54 c.p. - Trib. di Bari, sez. II, sent. del 22 febbraio 2016; Trib. di Bari, sez. II, sent. del 15 febbraio 2016; Trib. di Bari, sez. II, sent. del 26 marzo 2015, Trib. di Padova, sent. del 16 febbraio 2015).

In tutte le sentenze si precisa che nessuno dei motivi indicati rientri nelle ipotesi di non punibilità. Non lo è, in primis, la pur comprensibile scelta di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. L’art. 54 c.p., esclude, infatti, la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Ed è pacifico nella giurisprudenza della Corte di Cassazione che con l’espressione “danno grave alla persona”, il legislatore abbia inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano, come la vita, l’integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l’onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana. Pur essendo dunque fuori discussione che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi, tuttavia, che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell’art. 54 c.p..

Analogamente nessuna conseguenza può discendere in termini di punibilità, in ogni caso, dalla circostanza che il mancato pagamento dei creditori diversi dall’Erario sia stato ritenuto necessario in quanto si è ritenuto di dover prioritariamente pagare altri creditori, tra cui i fornitori, per scongiurare il fallimento della società. E ciò sia perché il fallimento avrebbe ben potuto essere richiesto dallo stesso Erario proprio in relazione ai crediti tributari, sia perché la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad integrare l’ipotesi di forza maggiore sopra delineata.

In ultimo, nessuna autonoma rilevanza può derivare dal fatto che il ricorrente provi di vantare crediti verso terzi che non sia riuscito ad esigere. E ciò vale anche se il terzo debitore sia lo Stato o un altro ente pubblico, laddove l’interessato abbia nei confronti dello stesso rapporti di tipo contrattuale, ad esempio per la prestazione di servizi.

La legge, infatti, disciplina in maniera tassativa i casi in cui può procedersi a compensazione del debito tributario. E, al di fuori di questi, il mancato pagamento dei crediti che l’interessato può addurre nei confronti dello Stato o dell’ente pubblico, rientra nel suo normale rischio d’impresa, di tipo privatistico, e non può certo elidere l’obbligazione, di natura pubblicistica, che egli ha verso l’Erario (Terracina, Evasione da riscossione, difficoltà finanziarie e sanzioni penali, in Dialoghi trib., n. 1/2013, 89).

Ci sono state, però, delle aperture ovvero si è ritenuto che non è escluso che, in astratto, siano possibili casi, il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria; tuttavia è necessario, perché in concreto ciò si verifichi, che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l’aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l’azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario).

In altri termini, il ricorrente che voglia giovarsi in concreto di tale esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, nei termini di cui si è detto, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa e non consolidata crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Cass. pen., sez. III, sent. del 27 marzo 2018, n. 20725; n. 9224 del 7 marzo 2016).

Pertanto, non può escludersi del tutto che l’assoluta impossibilità di adempiere il debito fiscale possa avere incidenza sull’elemento soggettivo del reato tributario, ma sarà necessario che l’imprenditore assolva l’onere di allegazione concernente sia il profilo della non imputabilità all’indagato della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto.

4. Nella sentenza n. 3962/2022 la Corte analizza un’ulteriore doglianza formulata dal ricorrente, concernente la mancata applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, disciplinata dall’art. 131-bis c.p..

L’art. 131-bis c.p. stabilisce che nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore al massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p., l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento risulti non abituale. L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità quando l’autore abbia agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o abbia adoperato sevizie o ancora abbia approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa o quando la condotta abbia cagionato o da essa siano derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. Il comportamento deve ritenersi abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate.

La causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto è certamente applicabile al reato in esame in quanto per esso è prevista la reclusione da sei mesi a due anni, quindi rientra nell’ambito previsto dall’art. 131-bis c.p. (Di Francescantonio, L’omesso versamento delle ritenute dovute o certificate tra cause di non punibilità e scriminanti: le maglie strette della giurisprudenza di legittimità, in Dir.  e prat. trib., n. 2/2021, II, 970)

Inoltre, la Cassazione penale ha espressamente riconosciuto che “la causa di non punibilità del fatto per particolare tenuità (art. 131- bis c.p.), è applicabile anche ai reati tributari che prevedono specifiche soglie di punibilità. Infatti, il valore soglia costituisce elemento che integra il reato, concorrendone a definirne il disvalore, al di sotto del quale la condotta è ritenuta, secondo una valutazione tipica del legislatore, non offensiva dell’interesse tutelato. La non punibilità del fatto ai sensi dell’ art. 131- bis c.p., presuppone l’esistenza di un reato perfetto in ogni suo aspetto (oggettivo e soggettivo), sicché il superamento anche solo di un centesimo del valore soglia costituisce conditio sine qua non dell’applicabilità dell’istituto, non ragione della sua esclusione” (Cass., sez. III pen., sent. del 12 giungo 2020, n. 20090; 3 marzo 2020, n. 17175; 5 maggio 2016, n. 18680).

Tuttavia, nel caso de quo, l’omesso versamento delle ritenute era pari ad € 395.962,10, mentre la soglia di punibilità è di € 150.000; la Corte, pertanto, ha ritenuto, correttamente, che  l’entità del superamento della soglia fosse tale da non consentire l’applicazione dell’art. 131-bis c.p..

 

5. Brevemente si evidenzia la recente sentenza della Corte Costituzionale (sent. del 14 luglio 2022 n. 175) emanata in riferimento all’art. 10-bis in esame.

Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale sia dell’art. 7, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 158 del 2015, sia dell’art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000, come modificato dall’art. 7, comma 1, lettera b), del d. lgs. n. 158 del 2015, limitatamente alle parole «dovute sulla base della stessa dichiarazione o».

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata innanzi alla Corte dal Tribunale di Monza (con ordinanza n. 155 del 27 maggio 2021), in riferimento agli artt. 3, 25, comma 2, 76, 77, comma 1, Cost. sia dell’art. 7, comma 1, lett. b), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23) – nella parte in cui ha inserito le parole «dovute sulla base della stessa dichiarazione o» nel testo dell’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205) – sia, conseguentemente, dello stesso art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, come modificato, nella parte in cui prevede la rilevanza penale di omessi versamenti di ritenute dovute sulla base della mera dichiarazione annuale del sostituto d’imposta.

Secondo il giudice rimettente, quanto alla violazione degli artt. 25, comma 2, 76 e 77, comma 1, Cost., l’ampliamento della fattispecie incriminatrice del delitto di omesso versamento delle ritenute, di cui all’art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000, non trova alcuna copertura nella delega di cui all’art. 8 l. 11 marzo 2014, n. 23 (Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita), perché tale disposizione avrebbe delegato il Governo alla «revisione del sistema sanzionatorio penale tributario», limitando lo spazio d’azione del legislatore delegato alla mera «possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto conto anche di adeguate soglie di punibilità».

Pertanto, il Governo non avrebbe potuto introdurre una nuova fattispecie penale, prima non prevista, così violando anche il principio di stretta legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.

Le disposizioni censurate violerebbero anche il principio di uguaglianza e quello di ragionevolezza, perché punito il contribuente che presenti un modello 770 veritiero e ometta di versare le ritenute per un importo superiore alla soglia di euro 150.000, mentre andrebbe esente da pena il sostituto di imposta che, rendendosi ugualmente inadempiente a un debito tributario di pari entità, abbia presentato una dichiarazione infedele, indicando un debito inferiore alla soglia di punibilità.

La Corte, con la recente sentenza n. 175/2022, ha ritenuto le questioni fondate.

In particolare la Corte ha ravvisato il denunciato eccesso di delega (di cui agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost.) che, concernendo l’introduzione di una fattispecie di reato da parte del legislatore delegato, va valutato congiuntamente al rispetto della riserva di legge e del principio di stretta legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.. 

La Corte ha osservato che la disposizione censurata ha introdotto una nuova fattispecie di reato, che incrimina l’omesso versamento, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, delle ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione per un ammontare superiore a una determinata soglia di punibilità, condotta che in precedenza costituiva un mero illecito amministrativo tributario.

Tale fattispecie si affianca a quella dell’omesso versamento, alle stesse condizioni, delle ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti.

Nonostante le affinità tra le due condotte, che concernono le stesse ritenute operate dal sostituto, esse sono diverse e hanno avuto un trattamento giuridico nettamente distinto, come ricostruito dalla Corte.

In particolare, sino al momento della delega del 2014, il reato previsto, concernente la condotta omissiva del sostituto, era solo quello dell’omesso versamento delle ritenute certificate, mentre la condotta di omesso versamento delle ritenute dovute in base alla dichiarazione del sostituto rimaneva distinta e non sanzionata penalmente, pur costituendo anch’essa un illecito in ragione dell’inadempimento dell’obbligo fiscale, assoggettato a sanzione amministrativa tributaria.

Il legislatore, nel porre la delega di cui all’art. 8, comma 1, della legge n. 23 del 2014, non ha ripristinato la sanzionabilità penale anche di quest’ultima condotta, né ha autorizzato a farlo il legislatore delegato, “sicché quest’ultimo, nel reintrodurre questa fattispecie penale, equiparandola a quella già prevista dall’art. 10-bis, ha violato i princìpi e criteri direttivi della delega”.

L’art. 8, comma 1, della legge n. 23 del 2014 concerneva la revisione del sistema sanzionatorio penale tributario declinato in specifici criteri, secondo una duplice direttrice: per un verso, la determinazione della pena detentiva (compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di sei anni), secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti e tenendo conto di adeguate soglie di punibilità, con la possibilità, per il legislatore delegato, anche di mitigare e finanche depenalizzare reati per condotte meno gravi; per altro verso, la configurazione di fattispecie penali, ma con riferimento a condotte ritenute di particolare gravità, in relazione, cioè, a «comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa», che riguardavano anche il regime della «dichiarazione infedele» nonché l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie.

La Corte ha rilevato come la condotta di chi non versa le ritenute indicate nella relativa dichiarazione come sostituto d’imposta – che, al momento della delega, non costituiva reato, ma illecito amministrativo tributario, e solo in passato, fino alla riforma del 2000, è stata punita come reato contravvenzionale – “non è certo ascrivibile a «comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa»”; nemmeno essa è assimilabile al regime della «dichiarazione infedele» dal momento che ciò che rileva è l’omesso versamento delle ritenute «dovute in base alla dichiarazione», a prescindere dal fatto che essa sia fedele o infedele.

Tale condotta, per contro, “sarebbe semmai rientrata tra le «fattispecie meno gravi» per le quali la pena, ove il fatto costituisse reato, avrebbe potuto essere mitigata e finanche trasformata in sanzione amministrativa”.

In definitiva, per la Corte, il legislatore delegato ha introdotto nell’art. 10-bis una nuova fattispecie penale (omesso versamento di ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione del sostituto), affiancandola a quella già esistente (omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti), senza essere autorizzato a farlo dalla legge di delega, mentre sarebbe stato necessario un criterio preciso e definito per poter essere rispettoso anche del principio di stretta legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.).

E’ stata poi dichiarata l’illegittimità costituzionale sia dell’art. 7, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 158 del 2015, sia dell’art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000, come modificato dall’art. 7, comma 1, lettera b), del d. lgs. n. 158 del 2015, limitatamente alle parole «dovute sulla base della stessa dichiarazione o».

Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, stante la sussistenza di un rapporto di chiara consequenzialità con la decisione assunta, discende, secondo la Corte, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 158 del 2015, che ha inserito nella rubrica del reato previsto dall’art. 10-bis le parole «dovute o». Analoga declaratoria riguarda anche la rubrica di quest’ultima disposizione limitatamente alle parole «dovute o».

La Corte ha chiarito che, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale, viene conseguentemente ripristinato il regime vigente prima del d.lgs. n. 158 del 2015, che ha introdotto la disposizione censurata, sicché, da una parte, l’integrazione della fattispecie penale dell’art. 10-bis richiede che il mancato versamento da parte del sostituto, per un importo superiore alla soglia di punibilità, riguardi le ritenute certificate; dall’altra, il mancato versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione, ma delle quali non c’è prova del rilascio delle relative certificazioni ai sostituiti, costituisce ora illecito amministrativo tributario.

La parte di maggior interesse ai fini in esame è che, per effetto dell’art. 2, comma 2, c.p., la nuova e più favorevole disciplina non riguarda solo i fatti futuri, ma travolge il giudicato di condanna.

La Corte, da ultimo, ha sottolineato come spetterà al legislatore rivedere tale complessivo regime sanzionatorio per renderlo maggiormente funzionale e coerente.

6. La Cassazione penale conferma che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo, sia sufficiente il dolo generico, che si esaurisce nella coscienza e volontà da parte del datore di lavoro di omettere o ritardare il versamento delle ritenute, con conseguente irrilevanza di eventuali criticità aziendali; infatti, il reato in oggetto non richiede il dolo specifico e, pertanto, è sufficiente il compimento della condotta omissiva nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato.

Tale conclusione è riconducibile alla circostanza che le ritenute sono parte integrante della stessa retribuzione con la ovvia conseguenza che il datore di lavoro non può disporre liberamente delle ritenute effettuate anzi lo stesso non potrebbe mai considerarsi liberato dall’onere contributivo, in quanto, nel momento in cui corrisponde le retribuzioni ai lavoratori, è altresì tenuto ad accantonare le somme necessarie al fine di poter adempiere il debito tributario, anche se ciò dovesse comportare l’impossibilità di pagare gli stipendi nel loro intero ammontare.