Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

11/07/2025 - Ritenuta su interessi outbound: una metamorfosi nel sintagma beneficial owner (?)

argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza

La previsione di cui all'art. 26, comma 5-bis, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che esonera dalla ritenuta alla fonte di cui al precedente comma 5, gli interessi e gli altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese italiane, è volta a favorire l'accesso al credito estero da parte degli operatori residenti, eliminando il rischio di una doppia imposizione giuridica degli interessi, che verrebbe altrimenti traslato sul debitore attraverso apposite clausole contrattuali. Conseguentemente, nel caso di finanziamento "indiretto", caratterizzato dall'interposizione di un soggetto che percepisce materialmente gli interessi ma è poi tenuto a retrocederli ad un terzo, sostanziale erogatore, è con riferimento a quest'ultimo, inteso quale beneficiario effettivo del reddito imponibile, che va accertato il possesso dei requisiti soggettivi stabiliti dalla norma.

» visualizza: il documento (Corte di Cassazione, 20 febbraio 2025, n. 4427) scarica file

PAROLE CHIAVE: beneficiario effettivo - ritenuta interessi infragruppo - redditi di capitale


di Giulio Garofalo

1. L’esenzione da ritenuta disciplinata dal comma 5-bis dell’art. 26 del d.P.R. n. 600/1973 trova la sua ratio in una marcata finalità agevolativa, inserendosi all’interno di un più ampio disegno normativo volto ad ampliare i canali attraverso i quali le imprese possono accedere al credito, in occasione di finanziamenti contratti a medio – lungo termine.

In tale contesto, e specificamente in relazione all’applicazione, nell’alveo della suddetta previsione, del principio del beneficiario effettivo, è recentemente intervenuta la Suprema Corte con la pronuncia che qui si annota, giungendo a conclusioni coerenti con quanto ferventemente auspicato dai commentatori (per un primo contributo sulla disposizione di nuovo conio, si veda Gusmeroli, Questioni aperte in tema di esenzione su interessi da finanziamenti a medio e lungo termine, in Boll. trib., 2017, p. 16; di recente, Giannelli, “Through the looking - glass”: possesso del reddito e clausola del beneficiario effettivo in una recente sentenza di legittimità in materia di (in)direct lending, in Riv. tel. dir. trib., 3 giugno 2025, 1 ss.), e, opportunamente, agli antipodi con taluni (incomprensibili) orientamenti di prassi adottati dall’Amministrazione finanziaria (in particolare, ci riferiamo alla Risoluzione n. 76/E del 12 agosto 2019 e alla Risposta a interpello n. 125/E del 2021).

Data la (potenziale) portata dirompente del principio di diritto enunciato dagli Ermellini, l’odierno contributo si propone, senza pretesa di esaustività, di tratteggiare il concreto atteggiarsi della clausola del beneficiario effettivo, con particolare riguardo all’applicazione, nell’ambito degli interessi outbound, del c.d. approccio look-through. Prima di affrontare funditus il novum giurisprudenziale, pare opportuno tracciare brevemente il framework normativo all’interno del quale detta clausola si trova ad operare.

L’individuazione del concetto di beneficiario effettivo, di matrice convenzionale, è stata oggetto (e, lo è ancora oggi) di una costante e articolata diatriba interpretativa. Come noto agli operatori della materia, il sintagma è rinvenibile tanto nel Modello di Convenzione OCSE per evitare le doppie imposizioni quanto nel Modello ONU, ed è ampiamente impiegato nella maggior parte delle convenzioni fiscali contro le doppie imposizioni concluse dall’Italia.

Tuttavia, né il Modello OCSE, né quello ONU, né i trattati fiscali conformi ad essi offrono una definizione positiva della locuzione in analisi (per una ricostruzione approfondita, si rinvia a Corasaniti, L’evoluzione della nozione di beneficiario effettivo tra il modello di convenzione OCSE e la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., 2021, p. 2493 ss.).

Invero, le principali ragioni sottese alla difficoltà di approdare a una definizione inequivocabile di beneficial owner risultano, prevalentemente, di radice culturale e si riconducono alle divergenze strutturali esistenti tra i sistemi giuridici di common law e quelli di civil law. Si tratta, a ben vedere, di un concetto ampiamente consolidato negli ordinamenti anglosassoni, dove assume rilevanza quale criterio attributivo del reddito contrapposto alla figura del legal owner, ma che presenta maggiori difficoltà di assimilazione nei sistemi di matrice romano-germanica, nei quali manca una corrispondente “sensibilità” concettuale.

Ebbene, il suo “debutto” nel panorama internazionale risale al 1997, anno in cui il concetto di beneficiario effettivo è stato formalmente introdotto nel Modello OCSE mediante il restyling degli artt. 10 (dividends), 11 (interest) e 12 (royalties). A tale (doveroso) innesto si è riconosciuto il pregio di fungere da strumento ad hoc per contrastare alcune pratiche aggressive di c.d. treaty shopping, ovvero strategie elusive fondate sull’indebito utilizzo dei benefici convenzionali tramite l’interposizione, nel flusso reddituale tra lo Stato della fonte e quello del reale percettore del reddito, di un soggetto residente in un Paese terzo (quale agent, nominee ovvero entità conduit).

Il riferimento alla clausola del beneficiario effettivo nel Modello OCSE, fortemente sostenuto dal Regno Unito, era infatti volto a superare gli evidenti limiti derivanti dal tenore letterale delle disposizioni illo tempore vigenti, le quali accordavano l’accesso ai benefici convenzionali a condizione che il soggetto erogante il reddito e quello percettore, cui il flusso stesso veniva imputato in base alla normativa tributaria nazionale, fossero residenti nei rispettivi Stati contraenti. In tal modo, tuttavia, non veniva richiesta alcuna indagine circa l’effettivo titolare del reddito, lasciando aperta la possibilità che soggetti privi dei necessari requisiti sostanziali potessero beneficiare delle “agevolazioni” convenzionali per il tramite dell’impiego di strutture interposte e strumentali (sul punto, con taglio storico, v. Ballancin, La nozione di “beneficiario effettivo” nelle Convenzioni internazionali e nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. trib., 2006, p. 209 e ss.).

Ricostruita nei termini di cui sopra la genesi della clausola, corre luogo ribadire che, nonostante l’inserimento del concetto di beneficiario effettivo nel Modello OCSE risalga a oltre quarant’anni fa, lo stesso non sia stato oggetto, ad oggi, di una definizione normativa puntuale. L’assenza di una chiara definizione ha spinto dottrina e prassi applicativa ad affidarsi alle indicazioni, per quanto non esaustive, racchiuse nel relativo Commentario OCSE. In ambito internazionale, infatti, è pacifico che l’interpretazione della clausola debba avvenire su base convenzionale e non attraverso il ricorso alle norme interne dei singoli Stati. Acuta dottrina ha, infatti, opportunamente sottolineato come l’ancoraggio alla disciplina domestica possa dar luogo a interpretazioni divergenti, minando l’efficacia della clausola e compromettendo la sua ratio sistematica nel contesto delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni (Giannelli - Pitrone, Beneficiario effettivo, in Avolio, a cura di, Fiscalità internazionale e dei gruppi societari, Milano, 2020, p. 703).

Riprova della lettura internazionalistica della clausola è evincibile dallo stesso Commentario OCSE, il quale ha avuto modo di chiarire che la locuzione in esame assume, nel contesto convenzionale, un significato autonomo, distinto non solo rispetto a quello che esso assume nelle normative interne degli Stati contraenti, ma anche rispetto a quello rilevante per finalità diverse (si pensi, ad esempio, al concreto operare dello stesso nella normativa antiriciclaggio). L’accezione della clausola del beneficiario effettivo deve, dunque, essere ricostruita alla luce dell’oggetto e dello scopo della Convenzione, che si concretano nell’obiettivo di attenuare o eliminare la doppia imposizione giuridica e di prevenire pratiche di elusione o evasione fiscale (sugli strumenti deputati a contrastare l’abuso delle Convenzioni, v. Pistone, L’abuso delle Convenzioni internazionali in materia fiscale, in Corso di diritto tributario internazionale, a cura di Uckmar, 2005, p. 813).

In una prima fase di elaborazione all’interno del Modello OCSE, la nozione di beneficiario effettivo è stata delineata secondo un criterio prevalentemente giuridico-formale, identificando tale soggetto in colui che, non rivestendo il ruolo di mero intermediario, risultasse fiscalmente titolare del reddito in forza della legislazione del proprio Stato di residenza e, conseguentemente, assoggettato ad imposizione (liable to tax). In tale impostazione iniziale, risultava sufficiente la semplice attribuzione formale del reddito sulla base della normativa domestica applicabile, senza che fosse richiesta alcuna ulteriore verifica di natura sostanziale, anche qualora il soggetto percettore si configurasse come mero veicolo interposto, non eleggibile ai benefici convenzionali.

Con l’evolversi delle dinamiche fiscali internazionali, l’OCSE ha progressivamente orientato la propria analisi verso un approccio di tipo substance over form, attribuendo preminenza ai poteri di disposizione e godimento effettivo del reddito da parte del soggetto formalmente titolare. Tale evoluzione ha trovato un primo riconoscimento nel Commentario OCSE del 2003, per essere poi compiutamente formalizzata nella versione del 2014, adottata quale reazione al crescente fenomeno del treaty shopping, frequentemente attuato attraverso l’interposizione di entità conduit tra il soggetto erogante e il beneficiario finale. In questo contesto, la figura del beneficiario effettivo assume una specifica valenza antielusiva, in quanto utilizzata come strumento per negare l’accesso ai benefici convenzionali a soggetti interposti che, pur formalmente destinatari dei flussi reddituali, siano vincolati – de iure o de facto – a trasferire tali somme a terzi, dimostrandosi in sostanza meri fiduciari o amministratori privi di poteri effettivi sui proventi ricevuti.

Alla luce dell’attuale formulazione del Commentario OCSE, si qualifica come beneficiario effettivo il soggetto che, a prescindere dalla titolarità formale degli strumenti finanziari da cui origina il reddito, gode del diritto di utilizzarlo e beneficiarne economicamente, senza essere tenuto, in forza di obbligazioni giuridiche o contrattuali, formali o sostanziali, a ritrasferirlo ad altro soggetto (c.d. obbligazione di ritrasferimento) (Arginelli, Spunti ricostruttivi della nozione di beneficiario effettivo ai fini delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia, in Riv. Dir. Trib., 2017, p. 29 e ss.).

La rilevanza della clausola del beneficiario effettivo si è estesa, altresì, anche nell’ordinamento dell’Unione europea. In tale contesto, sebbene essa trovi espressa codificazione solo nella Direttiva n. 2003/49/CE del Consiglio del 3 giugno 2003 (c.d. Direttiva Interessi e Royalties), risulta nondimeno richiamata – seppure implicitamente – anche in relazione alla Direttiva n. 2011/96/UE del Consiglio del 30 novembre 2011 (Direttiva Madre-Figlia), attraverso l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell’Unione europea e la prassi amministrativa degli Stati membri. In entrambi i casi, la nozione in esame è utilizzata come criterio dirimente per l’accesso ai benefici fiscali previsti dalle suddette direttive e dalle norme nazionali di recepimento.

Quanto brevemente premesso, non essendo questa la sede per ripercorrere approfonditamente le tappe che hanno contraddistinto la genesi del sintagma, rende lampante l’importanza di perimetrare correttamente tale concetto, al fine di assicurare, da un lato, che la rinuncia o l’attenuazione della potestà impositiva dello Stato della fonte sui flussi di dividendi, interessi e canoni si realizzi, nella logica di evitare la doppia imposizione giuridica con la concomitante potestà impositiva dell’altro Stato, solo nei confronti di beneficiari che effettivamente rientrano nel range applicativo della Convenzione o delle Direttive, dall’altro, di non penalizzare situazioni ben distanti da schemi riconducibili al fenomeno, stigmatizzabile, del treaty shopping.

2. I fatti di causa originano dall’impugnazione del silenzio – rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di rimborso presentata da una società italiana in relazione alle ritenute applicate e versate (nella misura ridotta dell’art. 11 della Convenzione tra Italia e Lussemburgo) sugli interessi corrisposti al proprio socio unico, una società di diritto lussemburghese, e da questa retrocessi al proprio socio, un fondo comune di investimento lussemburghese, sulla scorta della (sopravvenuta) applicabilità dell’esenzione di cui al citato art. 26, comma 5-bis del d.P.R. n. 600/1973.

Nei vari gradi di giudizio, l’Amministrazione finanziaria ha infatti sostenuto che la società lussemburghese primo percettore degli interessi, non integrava i requisiti soggettivi richiesti al soggetto finanziatore per poter beneficiare della suddetta esenzione, non qualificandosi essa (bensì il socio) quale investitore istituzionale eligible.

Secondo la tesi dell’Amministrazione finanziaria, disattesa già dai giudici di secondo grado, l’esenzione di cui all’art. 26, comma 5-bis, non sarebbe infatti applicabile ai finanziamenti effettuati da entità soggettivamente qualificate in via indiretta, ossia attraverso entità interposte, mancando in tale norma un richiamo letterale alla nozione di beneficiario effettivo, presente invece nell’art. 26-quater del d.P.R. n. 600/1973.

Con una posizione innovativa in relazione alla specifica norma esaminata, ma coerente con altri precedenti concernenti l’applicazione delle ritenute convenzionali e/o delle Direttive UE (Cass. n. 26923/2024; Cass. n. 16173/2023; Cass. n. 11191/2023; Cass. n. 6005/2023), la Cassazione rigetta la posizione dell’Agenzia delle Entrate, affermando che i requisiti soggettivi del finanziatore richiesti dalla norma di esenzione domestica debbano essere rivestiti dal beneficiario effettivo degli stessi, individuabile attraverso il cd.d. approccio look trought, che si rivela necessario specialmente nell’ipotesi di finanziamenti infragruppo (ove è consuetudine, se non fisiologico, il ritrasferimento dei flussi). La Suprema Corte ritiene, infatti, irrilevante la mancanza di un riferimento letterale al beneficial owner nella norma, valorizzando piuttosto l’identità di ratio tra l’art. 26, comma 5-bis, ed altre disposizioni ove detto riferimento è esplicitato, cioè a dire l’eliminazione delle doppie imposizioni sui flussi di interessi cross border (per un primo commento al nuovo filone giurisprudenziale, si veda Rasi, La nuova “creazione” della Cassazione: il beneficiario effettivo “interno”, in Rass. trib., 2023, p. 347 e ss.). 

La portata innovativa della sentenza in commento consiste, dunque, nell’estendere l’applicazione del concetto di beneficiario effettivo del reddito, in un’ottica fortemente sostanzialistica, anche al regime di esenzione ex art. 26, comma 5-bis del d.P.R. n. 600/1973, da cui era stato (in modo del tutto irragionevole) escluso dall’Amministrazione finanziaria.

3. La decisione della Corte consente un’analisi approfondita, tanto sotto il profilo dell’interpretazione normativa quanto rispetto al principio di diritto affermato e alle argomentazioni logico – sistematiche che ne costituiscono il caposaldo.

Rispetto al primo aspetto, corre luogo segnalare come la Suprema Corte abbia consapevolmente abbandonato l’interpretazione meramente letterale sostenuta dall’Agenzia delle Entrate, orientandosi invece verso una ricostruzione del significato della norma fondata sulla sua ratio legis (sul tema dell’interpretazione nel diritto tributario, si veda la monografia di Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, 2003). Più precisamente, la Corte di Cassazione ha rilevato che il riferimento alla formulazione letterale della norma non può essere considerato risolutivo, atteso che espressioni analoghe si rinvengono anche all’interno delle Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni ispirate al Modello OCSE, le quali, al pari del regime di esenzione previsto dalla disposizione in oggetto, perseguono l’obiettivo comune di evitare fenomeni di doppia imposizione sui flussi reddituali transfrontalieri derivanti da interessi.

In tale contesto, merita particolare attenzione il dato normativo contenuto nel comma 5-bis dell’articolo 26, che prevede l’esenzione dalla ritenuta sugli interessi con riferimento ai finanziamenti erogati da soggetti qualificati. La disposizione, dunque, individua il presupposto oggettivo dell’agevolazione nella qualifica soggettiva dell’effettivo erogatore del finanziamento, il che consente di ritenere compatibile con un’interpretazione testuale anche la circostanza per cui il rapporto tra tale soggetto e l’impresa residente beneficiaria possa essere mediato da uno o più livelli interposti (Miele – Fasolino, Esenzione dalle ritenute su interessi da finanziamenti e principio del beneficiario effettivo, in Corr. trib., 2019, p. 939).

Corrobora tale impostazione interpretativa la rubrica dell’art. 6 del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 – disposizione modificativa dell’esenzione in commento – la quale reca l’esplicita dicitura «Prestito indiretto per investitori istituzionali esteri». Tale elemento, costituisce un ulteriore indizio della voluntas legis di allargare il beneficio anche a operazioni di finanziamento realizzate in via indiretta. La coerenza tra il tenore letterale della norma e la configurabilità di finanziamenti indiretti nell’ambito di applicazione dell’esenzione permette, pertanto, di neutralizzare sin dall’origine l’obiezione formulata dall’Amministrazione finanziaria circa la necessità di un’interpretazione restrittiva della norma agevolativa.

Con riferimento al profilo contenutistico, la pronuncia della Suprema Corte si distingue per la puntuale ricostruzione sistematica e teleologica della disposizione esaminata. In tale prospettiva, è interessante osservare come gli Ermellini giungano alle proprie conclusioni attraverso un duplice ordine di considerazioni: da un lato, riconoscendo un'identica ratio tra l’art. 11 del Modello OCSE, la Direttiva interessi e canoni e l’art. 26, comma 5-bis del d.P.R. n. 600/1973, e richiamando conseguentemente la nozione di beneficial ownership così come delineata dalla Corte di Giustizia nelle cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16 (le cosiddette “Sentenze Danesi”).

Tale approccio – che si discosta dall’impostazione più rigida sposata dall’Agenzia delle Entrate nella propria prassi interpretativa in relazione all’art. 26, comma 5-bis, citato – valorizza, ai fini dell’interpretazione di una disposizione di diritto interno, i principi e i chiarimenti elaborati in sede unionale in materia di beneficial ownership, confermando in tal modo la coerenza dell’orientamento della Cassazione con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea; dall’altro lato, la Corte ravvisa nell’applicazione della clausola del beneficiario effettivo un corretto sviluppo del principio di capacità contributiva, che impone, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 1 del d.P.R. n. 917/1986, la verifica dell’effettiva titolarità del reddito e della concreta disponibilità dello stesso da parte del percettore (sulla titolarità del reddito, si permetta di rinviare alla monografia di Paparella, Possesso dei redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000).

Da ciò consegue che il beneficiario effettivo si identifica con il soggetto cui il reddito risulta fiscalmente imputabile in forza della sua effettiva disponibilità economica, ossia con colui che trae un vantaggio sostanzialmente finanziario dagli interessi percepiti. Tale individuazione può avvenire, se del caso, mediante l’applicazione del c.d. approccio look-through, che consente di superare eventuali interposizioni formali e di risalire, effettivamente, al titolare economico del reddito.

Particolarmente significativa, in questo senso, risulta la valorizzazione della c.d. “Sentenza Interessi” (cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16) da parte della Corte, la quale sottolinea come il concetto di beneficiario effettivo non debba essere inteso in senso tecnico o restrittivo, bensì debba essere interpretato in modo conforme all’oggetto e alla finalità della convenzione applicabile. In particolare, tale finalità consiste, da un lato, nell’eliminare fenomeni di doppia imposizione e, dall’altro, nel prevenire condotte elusive o fraudolente. In questa chiave ermeneutica, la nozione in esame coincide con quella di soggetto al quale il reddito sia imputabile in forza della sua disponibilità economica, come già precisato, eventualmente da individuarsi tramite un approccio look-through.

A completamento del quadro di riferimento, si ricorda che il 26 febbraio 2019 la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha reso le note sentenze in tema di Direttiva interessi e canoni (cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16) e Direttiva madre-figlia (cause riunite C-116/16 e C-117/16), esaminando il significato e la portata della clausola del beneficiario effettivo nonché del principio generale antiabuso, e soffermandosi sul loro reciproco rapporto applicativo.

In estrema sintesi, le due pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno contribuito in maniera decisiva a chiarire i concetti di beneficiario effettivo e di abuso del diritto, enunciando, inter alia, i seguenti princìpi fondamentali.

In primo luogo, è stato affermato che l’art. 1 della Direttiva 2003/49/CE (Direttiva interessi e royalties) dev’essere interpretato nel senso che il beneficio dell’esenzione dalla ritenuta sugli interessi si applica esclusivamente ai soggetti che possano qualificarsi come beneficiari effettivi. Con tale espressione, la Corte ha inteso riferirsi a quelle entità che risultano effettivamente destinatarie, sotto il profilo economico, degli interessi percepiti e che dispongano, in via autonoma, del potere di determinarne la destinazione, senza vincoli di natura giuridica o contrattuale che ne condizionino l’utilizzo.

In secondo luogo, i giudici di Lussemburgo hanno sottolineato come, per una corretta interpretazione della nozione di beneficiario effettivo nell’ambito dell’ordinamento unionale, si possa fare utile riferimento al Commentario OCSE – anche nelle sue versioni successive – in considerazione del fatto che la Direttiva interessi e canoni si ispira espressamente all’art. 11 del Modello OCSE e ne condivide la ratio, volta ad evitare fenomeni di doppia imposizione giuridica e a contrastare pratiche di frode ed evasione fiscale.

In terzo luogo, è stato ribadito che il principio generale del diritto dell’Unione Europea, secondo il quale i singoli non possono trarre vantaggio in modo fraudolento o abusivo dalle norme dell’ordinamento unionale, impone alle autorità amministrative e giurisdizionali nazionali di negare il beneficio dell’esenzione – prevista dalla normativa europea – ogniqualvolta sia riscontrata una condotta fraudolenta o abusiva, anche in assenza di specifiche clausole di esclusione nel diritto interno o nei trattati convenzionali applicabili.

Infine, per accertare l’esistenza di una pratica abusiva, è necessario verificare congiuntamente due requisiti: da un lato, la presenza di elementi oggettivi che evidenzino il mancato conseguimento dell’obiettivo sostanziale perseguito dalla normativa UE, nonostante il rispetto formale delle condizioni richieste; dall’altro, un elemento soggettivo, consistente nell’intento del contribuente di ottenere indebitamente un vantaggio mediante la predisposizione artificiosa delle condizioni necessarie a tal fine (sul tema, si veda Pistone, Beneficiario effettivo e clausole generali antielusione, in Dir. prat. trib., 2020, p. 1552 ss.).

Costituiscono indizi rilevanti dell’abuso, ad esempio, la presenza di società interposte prive di sostanza economica, nonché la configurazione meramente formale della struttura del gruppo societario, degli schemi finanziari adottati o delle modalità di erogazione dei finanziamenti (inoltre, sul rapporto tra la clausola del beneficiario effettivo e il divieto di abuso del diritto, si veda Carpentieri, La clausola del beneficiario effettivo nelle Direttive europee: le sentenze “danesi” e i rapporti con il divieto di abuso del diritto, in Riv. tel. dir. trib., 30 gennaio 2025, 1 ss.).

In entrambe le sentenze menzionate, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea fa ricorso e attribuisce un ruolo centrale al look-through approach, ovvero a quel criterio interpretativo in base al quale, nei casi in cui il soggetto che percepisce immediatamente il reddito non rivesta la qualifica di beneficial owner, è consentito considerarlo come entità fiscalmente trasparente, procedendo dunque a guardare oltre tale veicolo interposto al fine di verificare se le condizioni per l’applicazione della pertinente direttiva risultino soddisfatte in capo al o ai soggetti a monte della struttura societaria.

Secondo la prospettiva della Corte di Giustizia dell’Unione, l’applicazione del look-through approach dovrebbe, tendenzialmente, condurre a esiti favorevoli per il contribuente, in tutte quelle ipotesi in cui, pur essendo presente una conduit company, il soggetto qualificabile come beneficial owner risulti eleggibile ai fini dell’applicazione delle direttive europee. In tal caso, infatti, possono ritenersi soddisfatti: (i) il requisito della corresponsione del reddito al "beneficiario effettivo" richiesto dalla Direttiva interessi e royalty; e/o (ii) l’onere probatorio volto a dimostrare l’assenza di intenti abusivi nella struttura societaria, condizione necessaria per l’applicazione della Direttiva madre-figlia. Viceversa, sulla base del medesimo principio, l’approccio look-through potrà essere impiegato per disvelare l’artificiosità della struttura giuridica laddove il soggetto qualificabile come beneficial owner sia un’entità localizzata in un Paese terzo non appartenente all’Unione o, comunque, non in possesso dei requisiti soggettivi previsti dalle direttive.

In relazione alla sentenza n. 4427/2025, si osserva come la Corte di Cassazione, in primo luogo, riconosca un’analogia di ratio tra l’art. 26, comma 5-bis, del d.P.R. n. 600/1973 e la Direttiva interessi e canoni, quest’ultima, a sua volta, ispirata all’art. 11 del Modello OCSE. Sulla base di tale presupposto, la Suprema Corte interpreta la norma nazionale sopra richiamata alla luce delle categorie concettuali e delle nozioni elaborate dalla Corte di Giustizia UE nella c.d. "Sentenza Interessi", valorizzando così (e finalmente!) un approccio sistematico e coordinato tra fonti interne, convenzionali e dell’ordinamento unionale.

4. La sentenza annotata ha permesso di estrinsecare una riflessione articolata, tanto sotto il profilo interpretativo quanto per le implicazioni operative che essa comporta (comporterà).

Sul piano ermeneutico, si rileva come la Corte abbia adottato un’interpretazione di natura teleologica, pervenendo all’applicazione, nell’ambito di una disposizione di matrice interna, del principio del look-through approach, già affermatosi in ambito sovranazionale. Tale risultato è stato ottenuto mediante l’individuazione di una ratio unificante tra discipline di diversa origine – convenzionale, europea e domestica – e mediante il riconoscimento del look-through approach quale espressione applicativa del principio costituzionale di capacità contributiva.

Sotto altro versante, ovverosia quello strettamente operativo, la pronuncia è suscettibile di produrre effetti significativi – favorevoli o meno – su tutte le strutture di finanziamento indiretto, siano esse già esistenti o di futura implementazione. La portata del principio di diritto affermato dalla Suprema Corte risulta, infatti, in palese antinomia con l’orientamento consolidato dell’Agenzia delle Entrate, quale espresso nei documenti di prassi sinora emanati in materia. Tale discrasia interpretativa condurrà, inevitabilmente, gli operatori del diritto a confrontarsi con l’esigenza di individuare un delicato punto di equilibrio tra, da un lato, il rispetto del principio di capacità contributiva e, dall’altro, la salvaguardia del legittimo affidamento dei contribuenti.

Da ultimo – ma non per questo meno rilevante – si impone l’auspicio di un intervento chiarificatore da parte dell’Amministrazione finanziaria. Alla luce del carattere innovativo e potenzialmente sistemico della pronuncia in oggetto, appare quanto mai opportuna l’adozione di un atto ufficiale che, prendendo atto dell’orientamento giurisprudenziale adottato dalla Cassazione, fornisca indicazioni operative in grado di offrire certezza interpretativa agli operatori economici, specie in un settore delicato come quello degli investimenti transfrontalieri, che riveste un ruolo strategico per il sistema economico nazionale.