argomento: Profili europei e Internazionali - Legislazione e prassi
Il panorama del diritto tributario internazionale è stato incisivamente ridefinito dall’introduzione del sistema della Global Minimum Tax. Tale cambio di paradigma mette alla prova la tradizionale nozione di sovranità fiscale, imponendo un nuovo approccio per affrontare le questioni di base erosion e profit shifting fondato sulla coordinazione e collaborazione tra gli Stati. Attraverso un’analisi comparativa tra differenti sistemi, l’obiettivo della presente indagine è quello di evidenziare in che modo questi standard stiano trovando applicazione nei vari ordinamenti e il loro impatto sulla governance fiscale globale.
PAROLE CHIAVE: two pillars - global minimum tax - sovranità fiscale
di Giorgio Antonio Autuori
1. Per quanto la proposta di istituire un sistema di imposta minima globale non si presenti nel panorama del diritto tributario internazionale come del tutto nuova, certo non sorprende la fatica, sia a livello puramente concettuale che sul piano prettamente pratico, con cui si è giunti solo di recente ad una proposta realmente concreta e compiuta.
In verità, la ratio stessa di un simile progetto giustifica e legittima il lungo e laborioso percorso compiuto in seno ai lavori dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, da ultimo condensatosi nel c.d. Statement on the Two-Pillar Solution to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy (OECD (2021), Statement on a Two Pillar Solution to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy, OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS, OECD, Paris): ed infatti, la volontà di partenza era proprio quella di progettare un sistema comune e condiviso di contrasto ai fenomeni di base erosion e profit shifting, nell’auspicabile intento di porre freno alla deleteria tendenza degli Stati di prodursi in iniziative individuali e momentanee che, lungi dal risolvere il problema, avevano piuttosto contributo ad esasperarlo.
Se la scelta di affidare tale delicatissimo compito ad un’organizzazione internazionale priva di legittimazione democratica, in primis, e di forza legislativa, in secundis, sarebbe di per sé meritevole di autonoma ed estesa riflessione, quello che preme in questa sede evidenziare è piuttosto l’attitudine adottata dai singoli Stati membri di fronte ad un insieme di regole, quali quelle della Two Pillar Solution, inevitabilmente destinate a dispiegare sui loro ordinamenti nazionali una profondissima incidenza (M. Baraké, P. Chouc, T. Neef, G. Zucman, Revenue Effects of the Global Minimum Tax Under Pillar Two, in Intertax, 50, 10, 2022, pp. 689 ss., e Suranjali Tandon, The Need for Global Minimum Tax: Assessing Pillar Two Reform, in Intertax, 2022, 50, 5, pp. 396 ss.). Coerentemente con tale assunto, e stante l’eccezionale latitudine del tema, si è ritenuto di condurre la presente ricerca secondo una duplice linea, contenutistica – concentrando l’attenzione sulla sola Global Minimum Tax - e metodologica – adottando un criterio di stampo marcatamente comparatistico.
Quanto alla prima, tale scelta risponde non solo e non tanto ad un’esigenza di carattere espositivo – essendo l’imposta minima globale l’unica ad aver trovato, ad ora, concreta attuazione negli ordinamenti nazionali, a differenza del Pillar One -, quanto, piuttosto, alla precisa volontà di focalizzare l’attenzione su di essa, in ragione delle sue potenziali conseguenze sia sul piano politico e ordinamentale, che su quello più strettamente giuridico. Se interventi mirati, nel loro ambito applicativo, a singoli aspetti della normativa fiscale non pongono significativi problemi per il legislatore, proprio in ragione della tendenziale semplicità con cui possono essere autonomamente integrati nell’ordinamento, considerazioni diametralmente opposte devono invece essere operate a fronte di iniziative destinate ad incidere in modo così ampio ed profondo sugli ordinamenti fiscali, richiedendo spesso e volentieri una serie di interventi normativi prodromici alla loro attuazione.
Quanto alla seconda, è evidente che il metodo comparatistico, lungi dal rappresentare una mera scelta di stile, si riveli invero estremamente funzionale a fronte di iniziative, quali la Global Minimum Tax, di carattere pressoché globale, che in tanto possono essere efficacemente studiate, in quanto siano adeguatamente calate nelle realtà in cui sono destinate ad inserirsi. Se, infatti, è ben vero che la premessa logica di una simile proposta sia quella di predisporre una regolamentazione uguale per tutti, sì da evitare che proprio i disallineamenti tra legislazioni diano adito a fenomeni di harmful tax competition e aggressive tax planning, è del pari innegabile che le reazioni da parte dei singoli Stati possano essere, tra loro, le più differenti. Tutto ciò a maggior ragione ove si consideri, da un lato, come l’intero progetto della Global Minimum Tax sia stato cristallizzato in un insieme di disposizioni di soft law, come tali prive di efficacia vincolante; dall’altro, come il successo dell’opera di recepimento demandata ai legislatori nazionali dipenda in larga misura anche dai backgrounds normativi su cui i loro interventi sono destinati ad innestarsi (P. Selicato, La comparazione nel Diritto tributario: riflessioni sul metodo, in Dal Diritto Finanziario al Diritto Tributario. Studi in onore di Andrea Amatucci, Vol. I, Editoriale Temis S.A. – Jovene Editore, Bogotà – Napoli, 2011, p. 81).
È per queste stesse ragioni che si ritiene sia imprescindibile adoperare la massima cautela possibile nell’evitare che la comparazione non si riduca ad una mera, sterile giustapposizione di esperienze giuridiche diverse, dovendo piuttosto spingersi oltre e tentare di fornire chiavi di lettura comuni per i vari ordinamenti, sia europei che extraeuropei, onde metterne in risalto, di volta in volta, i punti di tangenza e di distanza.
2. A fronte di risposte tendenzialmente “tiepide” da parte dei principali attori internazionali, l’Unione Europea si è sempre contraddistinta per il sincero favore mostrato nei confronti di un’idea di imposta minima globale. Non erano infatti mancate occasioni – spesso e volentieri in concomitanza delle vicende fiscali che hanno visto coinvolti i più grandi gruppi multinazionali - in cui proprio questa aveva affermato come, tra i vari strumenti di volta in volta proposti, un sistema di global minimum tax avrebbe senz’altro permesso di eliminare, una volta per tutte, quei disallineamenti tra legislazioni in cui i fenomeni BEPS trovano terreno fertilissimo per il loro sviluppo.
Non sorprende, quindi, che proprio l’Unione europea sia stata tra i primi ad aver dato seguito ad una simile iniziativa: tutt’altro che scontato, al contrario, il fatto che si sia ritenuto di consegnarne il contenuto ad una direttiva (Direttiva del Consiglio 2022/2523 “intesa a garantire un livello di imposizione fiscale minimo globale per i gruppi multinazionali di imprese e i gruppi nazionali su larga scala nell’Unione”), come tale vincolante nell’an per gli Stati membri, in capo ai quali residua comunque il delicato compito di stabilire il quomodo dell’attuazione negli ordinamenti interni. Proprio per queste ragioni, si ritiene opportuno volgere un primo sguardo verso lo scenario europeo, onde verificare in che modo i principali attori statali abbiano provveduto a trasfondere il contenuto della Direttiva nella loro legislazione nazionale.
Nonostante il loro ruolo di primo piano nella corsa al tax appeal, proprio i Paesi Bassi sono stati – forse inaspettatamente – tra i primi ad essersi concretamente attivati in tal senso. Il disegno di legge di recepimento è stato infatti sottoposto all’attenzione del Parlamento olandese lo scorso 31 maggio 2023, ed è stato definitivamente approvato dalla House of Representatives, pur con alcuni emendamenti, nella notte tra il 26 ed il 27 ottobre dello stesso anno. La versione finale, entrata in vigore lo scorso 1° gennaio 2024, non si discosta dalla struttura-modello delle GloBE Rules, che sembra replicare fedelmente in tutte le sue componenti: accanto alla Income Inclusion Rule, in vigore già dal 2024, si accompagna una Undertaxed Profits Rule, in funzione dal 31 dicembre 2024, oltre ad un sistema di safe harbours (OECD (2022), Safe Harbours and Penalty Relief: Global Anti-Base Erosion Rules (Pillar Two), OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS, OECD, Paris) – sia permanenti che temporanei – e ad un regime di penalty relief, volto ad evitare un’applicazione eccessivamente netta e repentina della normativa sanzionatoria in caso di violazioni legate alle suddette regole. Parimenti significativo è il fatto che il legislatore olandese abbia optato per l’introduzione immediata di una Qualified Domestic Minimum Top-up Tax, sì da evitare che l’attivazione del meccanismo della top-up tax comporti uno spostamento di gettito dalle casse dell’Erario olandese a favore di quelle dello Stato tenuto a riscuoterla.
Un percorso analogo è stato compiuto anche in Germania, dove la nuova normativa in tema di Global Minimum Tax è ufficialmente entrata in vigore lo scorso 27 dicembre 2023, con applicazione ai periodi di imposta con inizio successivo a tale data. Il primo disegno di legge per l’attuazione della Direttiva del Consiglio 2022/2523 è stato presentato per la discussione dal Ministro delle Finanze tedesco il 20 marzo 2023; dopo aver subito una serie di modifiche durante l’estate, anche su iniziativa degli stakeholders coinvolti, la bozza finale è stata finalmente approvata dal Bundestag (il Parlamento federale tedesco) e dal Bundesrat (il Consiglio federale tedesco) rispettivamente il 10 novembre 2023 e il 15 dicembre 2023. Più che nella previsione – accanto alla Income Inclusion Rule e alla Undertaxed Profits Rule – di una Qualified Domestic Minimum Top-up Tax, come nel caso dell’Olanda, risalta piuttosto la decisione di introdurre uno strutturato sistema di safe-harbours: dietro di questo si cela, a ben vedere, la condivisibile esigenza di evitare che un’applicazione tout court delle nuove regole possa risultare nell’imposizione di oneri amministrativi eccessivi sia nei confronti delle imprese che della stessa amministrazione finanziaria.
In realtà, considerazioni del tutto analoghe possono essere svolte anche per altri paesi europei, tra cui la Francia e la Spagna, che sin da prima dell’adozione della Direttiva – e dunque, a prescindere dall’imposizione di un obbligo di recepimento negli ordinamenti interni – si erano dichiarate apertamente a favore dell’istituzione di un’imposta minima globale sui profitti dei grandi gruppi multinazionali.
Quanto alla Francia, il primo disegno di legge in tema di Global Minimum Tax è stato pubblicato il 27 settembre 2023, per poi essere reso definitivo con il Finance Act for 2024, n° 2023-1322 del 29 dicembre 2023; accanto ad una classica Income Inclusion Rule, già in vigore dal 1° gennaio 2024, e ad una Qualified Domestic Minimum Top-up Tax, è stata prevista anche una Undertaxed Profits Rule che, come nel caso dei Paesi Bassi, ha trovato applicazione solamente a partire dal 1° gennaio 2025: essa, tuttavia, è strutturata non come negazione di una deduzione, secondo il modello standard adottato dagli altri Paesi, bensì come una vera e propria forma di prelievo aggiuntivo, come previsto dall’art. 12 della Direttiva del Consiglio 2022/2523, che espressamente contempla tale alternativa.
Meno lineare ed immediato è stato invece l’iter di recepimento in Spagna, dove la Global Minimum Tax ha trovato effettiva attuazione solamente alla fine dello scorso anno. Il primo disegno di legge è infatti stato sottoposto all’attenzione del Consejo de Ministros a metà 2024, dove è stato formalmente approvato il 4 giugno 2024 ed immediatamente rimesso alle Cortes Generales – che costituiscono l’organo legislativo spagnolo – affinché vi compisse il proprio iter parlamentare. Iter conclusosi, appunto, solo a fine anno, con la pubblicazione sul Boletín General del Estado della Ley7/2024 del 20 dicembre 2024. Quanto al contenuto, la normativa non si differenzia da quella adottata in Francia e, più in generale, dal modello predisposto dalla Direttiva, se non per il mancato rispetto del termine iniziale, fissato al 1° gennaio 2024, quantomeno per la Income Inclusion Rule.
Per la verità, notevoli passi in avanti sono stati compiuti anche da altri Stati che, come l’Olanda, si sono sempre mostrati particolarmente sensibili di fronte al tema di una tassazione minima a livello globale. Ed infatti, se l’argomento è controverso di per sé in ragione della sua decisa connotazione ideologico-politica, appare ancor più critico proprio con riferimento agli ordinamenti che da sempre puntano sulla riduzione delle aliquote per attrarre nel loro territorio gli investimenti dei gruppi multinazionali.
Può quindi sorprendere, in questo senso, che tra i primi Paesi ad essersi attivati per il recepimento della Direttiva vi sia anche l’Irlanda, da sempre protagonista di celebri scenari di base erosion and profit shifting. Non è quindi un caso che l’attenzione del legislatore irlandese si sia rivolta, più che alle classiche Income Inclusion Rule – in vigore dal 1° gennaio 2024 - e Undertaxed Profits Rule – in funzione dal 1° gennaio 2025 - , all’istituzione di una Qualified Domestic Minimum Top-up Tax, così da evitare che l’eventuale top-up tax dovuta in ragione dell’applicazione delle prime due regole confluisca nelle casse di un altro Stato.
Analogamente può dirsi anche del Lussemburgo: il Bill n. 8292, volto al recepimento del contenuto della Direttiva, ha ricevuto l’approvazione del Granducato il 28 luglio 2023, per poi essere presentato il successivo 4 agosto all’attenzione della Chambre des dèputès, che lo ha definitivamente approvato il 20 dicembre dello stesso anno; la legge attualmente in vigore si mostra fedele allo schema predisposto in sede UE, con la previsione di una Income Inclusion Rule, una Qualified Domestic Minimum Top-up Tax e una Undertaxed Profits Rule, rispettivamente in vigore dal 1° gennaio 2024 (le prime due) e dal 1° gennaio 2025 (la terza).
Del resto, è dato rilevare come, ad oggi, la gran parte (se non la totalità) degli Stati membri dell’Unione abbia intrapreso o addirittura già portato a compimento iniziative legislative volte al recepimento della Global Minimum Tax – o quantomeno della Income Inclusion Rule – nei propri ordinamenti nazionali, la cui entrata in vigore era stata individuata, nella timeline scandita direttamente dalla Direttiva, nel 1° gennaio 2024.
3. Al di fuori dell’Unione Europea, invece, molto più modeste e timide appaiono le iniziative intraprese negli scorsi mesi dagli Stati Uniti, che si sono limitati ad affrontare solo indirettamente la questione, senza tuttavia procedere alla predisposizione di un sistema conforme al progetto elaborato in sede OCSE.
Tale riluttanza appare tanto più inspiegabile ove si tenga presente come l’insieme di regole condensate nel Pillar Two, e di fatto simboleggiate dalla Global Minimum Tax, rinvenga il proprio predecessore nello US Tax Cuts and Jobs Act (c.d. TCJA) del 2017, le cui colonne portanti, ovvero il Global Intangible Low-Taxed Income (c.d. GILTI) e la Base Erosion Anti-Avoidance Tax (c.d. BEAT), costituiscono di fatto i precursori della Income Inclusion Rule e della Undertaxed Profits Rule (R. S. Avi-Yonah, M. Salaimi, Minimum Taxation in the United States in the Context of GloBE, in Intertax, 50, 10, 2022, pp. 673 ss.; R. Avi-Yonah, Y. R. Kim, Tax Harmony: The Promise and Pitfalls of the Global Minimum Tax, in Michigan Journal of International Law, 2022, 43, 3).
In verità, già nell’agosto 2023 il Congresso aveva approvato l’Inflaction Reduction Act of 2022, con cui era stata prevista una nuova “corporate minimum tax”, con aliquota pari proprio al 15%, su alcuni gruppi multinazionali. Nel Fiscal Year 2024 Budget, pubblicato il 9 marzo 2023 insieme con le General Explanations of the Administration’s Fiscal Year 2024 Revenue Proposals (il c.d. Green Book), l’Amministrazione di Biden ha voluto dare un impulso positivo verso il recepimento delle GloBE Rules, principalmente attraverso l’innalzamento del corporate tax rate dal 21% al 28% e dell’aliquota sui ricavi esteri delle multinazionali americane dal 10,5% al 21%.
Una feroce opposizione a tale iniziativa era subito sorta tra le file dei Repubblicani, ed in particolare del Ways and Means Committee, competente in materia di scelte legislative in materia fiscale. Già pochi mesi dopo, e precisamente il 25 maggio, proprio il Committee aveva introdotto il c.d. Defending American Jobs and Investment Act, col precipuo scopo di “to prevent President Biden’s global tax surrender from killing American jobs, surrendering sovereignty over our tax code, and handing a competitive advantage to the Chinese Communist Party. The bill creates a reciprocal tax applicable to any foreign country that imposes unfair taxes on U.S. businesses and workers under the Organization for Economic Co-operation and Development (OECD)’s global tax deal”. In sostanza, la visione di fondo era quella di limitare quanto più possibile tutte le misure che potessero finire per ridimensionare la potestà impositiva degli Stati Uniti a favore di altri Stati; ruolo cruciale, sul punto, avrebbe dovuto essere stato ricoperto dal Department of the Treasury, cui sarebbe spettato il compito di identificare “imposte extraterritoriali” ed “imposte discriminatorie” a danno delle imprese americane, “come la sovrattassa UTPR”.
Sul punto, un significativo cambio di rotta si era verificato in occasione di un annuncio congiunto dello stesso Department of the Treasury e dell’Internal Revenue Service (i.e. l’Amministrazione Finanziaria statunitense), risalente allo scorso 12 settembre 2024, con cui era stato proposto un Notice of Proposed Rulemaking, volto ad implementare una Corporate Alternative Minimum Tax (o CAMT) secondo quanto previsto dall’Inflaction Reduction Act. In sostanza, secondo la linea dettata dal progetto OCSE, tale iniziativa sarebbe volta ad assicurare che le più grandi imprese americane – per il momento quelle con ricavi di almeno un miliardo di dollari annui – scontino una tassazione effettiva pari almeno al 15%.
In verità, l’attuazione della Global Minimum Tax negli Stati Uniti sembra al momento tutt’altro che certa: se la Presidenza Biden si è contraddistinta per un posizione a tratti “attendista” sul tema, a dir poco perentorio è stato invece l’intervento del neo-eletto Presidente Trump, che con l’Ordine Esecutivo The Organization for Economic Co-operation and Development (OECD) Global Tax Deal (Global Tax Deal), ha niente meno affermato che gli impegni precedentemente assunti verso l’implementazione dell’imposta minima globale negli USA risultano in una “giurisdizione extraterritoriale sul gettito americano”, avendo come effetto quello di porre limiti eccessivi alla possibilità di “porre in essere politiche fiscali nell’interesse delle imprese e dei lavoratori americani”. Proprio per tale motivo, nel medesimo Ordine il Presidente ha specificato che “ogni e qualsiasi impegno assunto dalla precedente amministrazione per conto degli Stati Uniti in relazione al Global Tax Deal non ha forza od effetto alcuno negli Stati Uniti in mancanza di un atto del Congresso che adotti le pertinenti disposizioni del Global Tax Deal”.
Sebbene una simile affermazione manifesti di per sé una cesura netta ed intransigente rispetto alla posizione della Presidenza uscente, la sua portata dirompente può essere a maggior ragione apprezzata ove letta in combinato con quanto dichiarato nel successivo Ordine Esecutivo America First Trade Policy. Mediante un richiamo alla Section § 891 del Title 6 dello United States Code, esso sancisce che, in risposta a trattamenti fiscali discriminatori o a vere e proprie forme di “extraterritorial taxes” nei confronti di cittadini o imprese statunitensi da parte di Stati esteri, gli Stati Uniti potranno adottare speculari contromisure, tra cui il raddoppio delle aliquote per le imposte sui redditi delle società e delle persone fisiche.
Naturalmente, l’incidenza di simili dichiarazioni trascende le scelte di policy statunitensi: vista la posizione di assoluta influenza degli USA non solo in seno allo stesso OCSE, ma più generalmente sul panorama economico e socio-politico globale, il rischio che altri Stati, magari proprio nel timore di una simile risposta all’eventuale applicazione di una minimum tax, decidano a loro volta di discostarsene è a dir poco concreto.
4. Al di fuori dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, si registrano feedbacks generalmente positivi da parte di un significativo numero di Stati, che hanno già provveduto ad implementare nelle loro normative fiscali nazionali una forma di minimum tax, e ciò in assenza di un preciso vincolo normativo come invece avvenuto per gli Stati membri dell’Unione Europea.
Ne è un esempio il Regno Unito, che già con il Finance Act 2023 ha introdotto nel proprio ordinamento una Income Inclusion Rule, denominata “multinational top-up tax”, e una Qualified Domestic Minimum Top-up Tax, chiamata invece “domestic top-up tax”, entrambe in vigore a partire dal 1° gennaio 2024. In occasione dell’ultimo “Legislation Day”, tenutosi lo scorso 18 luglio, l’Esecutivo ha peraltro colto l’occasione per formulare proposte di revisioni ed integrazioni da includere nel Finance Bill 2024, tra cui proprio l’opportunità di prevedere anche una forma di Undertaxed Profit Rule, verosimilmente a partire dal 2025.
Quanto agli altri Paesi membri dell’Inclusive Framework, lo scenario può dirsi relativamente positivo: accanto a quelli poc’anzi rammentati, sono numerosi gli Stati che hanno già provveduto a dare completa ed effettiva attuazione alla Global Minimum Tax nei loro ordinamenti interni: è il caso, in verità, di molti Stati europei e non, tra cui Australia, Austria, Belgio, Canada, Croazia, Danimarca, Finlandia, Gibilterra, Grecia, Indonesia, Lichtenstein, Norvegia, Nuova Zelanda, Polonia, Portogallo, Singapore, Svezia e Turchia.
Meno entusiastiche, ma comunque apprezzabili, sono state le iniziative di Stati come il Sud Africa, che hanno iniziato a dare attuazione quantomeno alle regole fondamentali su cui la global minimum tax si articola, Islanda, Isole Mauritius e Qatar, che si sono limitate ad annunciare l’intenzione di procedere al più presto in tal senso, ed Estonia, Lettonia e Lituania, che hanno invece optato per la possibilità di rinviare l’applicazione della Income Inclusion Rule e della Undertaxed Profits Rule al 2030, in virtù di quanto previsto dall’art. 50 della Direttiva del Consiglio 2022/2523.
Alquanto ridotto, invece, il numero di Stati che non si sono espressi in alcun modo sulla questione: tra questi si annoverano, prevedibilmente, Arabia Saudita, Argentina, Cina, Isole Vergini Britanniche, Messico, Panama e Trinidad e Tobago, oltre alla gran parte degli Stati africani.
5. Ricostruito in questi termini lo stato dell’arte dell’attuazione della Global Minimum Tax, è dato rilevare, sin da ora e senza difficoltà, come la risposta degli Stati alla stessa sia stata tendenzialmente soddisfacente, pur delineandosi uno scenario caratterizzato da reazioni eterogenee, sia in punto di modalità che di tempistiche di attuazione.
In particolare, e nonostante la tendenziale prudenza con cui i legislatori si sono mossi nell’implementazione delle nuove regole, sembrano sopravvivere alcuni timori, tutti più o meno direttamente legati all’elevatissimo coefficiente di tecnicismo che caratterizza la materia e, ancor più, al rischio di vedere pregiudicata la propria competitività fiscale sul piano internazionale.
Più precisamente, volendo trarne una prima considerazione di carattere sistematico, due sono i fattori che, più di altri, testimoniano tali ritrosie. Quanto al primo, si registra un frequente impiego dei safe harbours e dei regimi di penalty relief, che rispondono rispettivamente all’esigenza di assicurare un’introduzione graduale delle nuove regole e di evitare un’applicazione immediata e tout court dell’apparato sanzionatorio che correda le regole della Global Minimum Tax; era prevedibile, dunque, che trovassero vasto impiego proprio presso gli Stati membri dell’Unione Europea, che, per rispettare le tempistiche – peraltro alquanto serrate – imposte dalla Direttiva, hanno avuto a disposizione molto meno tempo per adeguare i propri ordinamenti nazionali alle nuove regole.
Quanto al secondo, e forse ancor più significativamente, è dato rilevare un costante ricorso alla Qualified Domestic Minimum Top-Up Tax (N. Noked, Designing Domestic Minimum Taxes in Response to the Global Minimum Tax, in Intertax, 50, 10, 2022, pp. 678 ss.), la cui ratio è proprio quella di far sì che, una volta innescato il meccanismo di base dell’imposta minima globale, la top-up tax dovuta possa essere riscossa direttamente dallo Stato ove l’Effective Tax Ratesia stato inferiore al 15%, e non dallo Stato di residenza della società capogruppo, evitando così una fuga di gettito a favore di quest’ultimo. Per quanto, quindi, la previsione di una Qualified Domestic Minimum Top-Up Tax appaia ragionevole – ed anzi a tratti ovvia – in punto di “convenienza erariale” per lo Stato, rimane comunque in capo ai legislatori il delicato compito di assicurarne non solo la rispondenza al modello standard definito nella Direttiva (o comunque a livello OCSE), ma anche la coerenza con il quadro normativo vigente e con i principi regolatori della materia.
6. Alla luce di queste considerazioni, diviene legittimo chiedersi se la decisione di concepire un modello di imposta minima globale nei termini anzidetti, da un lato, e la peculiare scelta dell’Unione Europea di consegnarne il contenuto ad un atto vincolante, dall’altro, si presenti – in prospettiva futura – come una scelta vincente o meno.
Tutto ciò a maggior ragione ove si consideri come la Direttiva non si sia limitata a riportare le disposizioni previste nell’ambito del progetto originario, spingendosi piuttosto ad introdurre alcune significative novità, prima tra tutte l’estensione della normativa in parola anche ai gruppi non multinazionali, e dunque puramente “interni”. Una simile misura si rivela, a ben vedere, non solo scarsamente coerente con la logica di fondo dell’intero progetto, ma anzi addirittura controproducente, nel momento in cui rischia di vanificare l’intento di creare un sistema di tassazione delle imprese equo ed uniforme per tutti. Laddove la gran parte degli Stati non membri dell’Unione non optasse – come prevedibile – per la spontanea introduzione di una simile misura, sarebbe lampante il pregiudizio per la competitività fiscale degli Stati membri nel momento in cui i gruppi di imprese “non multinazionali” ivi residenti decidessero di trasferirsi all’estero onde non vedersi applicata la global minimum tax.
Astraendosi dal problema specifico della Direttiva, che rimane comunque uno spunto eccellente per riflettere sul tema, è dato rilevare come proprio in scenari di questo tipo – e, più generalmente, nella non vincolatività dell’intera iniziativa OCSE - risiede la radice di quelle preoccupazioni e di quelle incertezze che, manifestatesi per la prima volta già in occasione dei lavori OCSE, si sono riproposte nel tempo e continuano tuttora a ripresentarsi. Volendo prendere in prestito un concetto particolarmente caro alla logica, ed in specie alla teoria dei giochi, lo scenario poc’anzi delineato potrebbe essere definito un classico “Equilibrio di Nash”. Tale concetto postula una situazione in cui più agenti razionali non abbiano alcun interesse ad essere gli unici a cambiare, mutando unilateralmente la propria strategia, nell’assunto che ogni giocatore abbia già intrapreso quella che ritiene migliore per sé, e che quindi massimizza il suo profitto, a prescindere dalle strategie adottate dai suoi avversari. Se, quindi, è corollario logico dell’equilibrio di Nash il fatto che il singolo agente non possa migliorare la propria condizione agendo in autonomia, ciò non esclude che un risultato migliore per tutti possa essere raggiunto attraverso un cambiamento comune e congiunto di un gruppo o di tutti i giocatori. Calando la metafora nel caso concreto, se ne trae l’ovvia conclusione per cui nessuno Stato o gruppo di Stati abbia, in realtà, alcun interesse ad essere l’unico ad agire, rivedendo in aumento la propria corporate tax rate, poiché ciò determina semplicemente una perdita di tax appeal rispetto agli Stati che non si muovano nella stessa direzione.
Volendo lasciare momentaneamente da parte le numerose, seppur ragionevoli, preoccupazioni che il tema suscita, è dato rilevare come il sol fatto di essere riusciti a raggiungere un accordo pressoché globale sia il segnale inequivocabile di un atteggiamento ormai maturo e pienamente consapevole da parte degli Stati, consci da un lato dei danni prodotti da decenni di iniziative estemporanee ed unilaterali, e dall’altro dell’impellente necessità di un radicale cambio di paradigma, in cui si guardi finalmente alla collaborazione internazionale non come una limitazione ed una minaccia alla sovranità fiscale, bensì come l’unico strumento effettivamente in grado di salvaguardarla. Muovendo dunque dall’assunto per cui i predetti fenomeni possano essere efficacemente intercettati solamente attraverso un’iniziativa comune, e non più unilaterale ed autonoma da parte di singoli Stati, è inevitabile che il ruolo dei legislatori nazionali – e, conseguentemente, della partecipazione democratica al tributo – rischi di passare, quantomeno inizialmente, in secondo piano (P. Boria, L’ordine internazionale della concorrenza fiscale, in Riv. Dir. Trib. Int., 2019, n. 2, p. 30, A. Marinello, Sovranità dello Stato e global minimum tax, Pacini Giuridica, 2023, p. 2 ss.). Tale considerazione appare, dunque, tanto più critica, ove si consideri come un cambiamento nel modo di concepire la tassazione dei grandi gruppi multinazionali – cui la global minimum tax è precipuamente diretta –, radicale al punto di limitare la discrezionalità dei legislatori nazionali nel determinate le loro politiche fiscali, sia destinato a produrre effetti a catena sugli ordinamenti tributari degli Stati di destinazione e, da ultimo, sulla loro attrattività fiscale.
Rimane quindi da domandarsi se tale constatazione – e, più generalmente, le reticenze mostrate da taluni al momento dell’attuazione della Global Minimum Tax - possa rappresentare un limite od un ostacolo alla piena realizzazione di un sistema che trova la sua conditio sine qua non proprio nel carattere globale dell’accordo su cui si fonda, e che anzi perde senso e forza proprio nella misura in cui alcuni Stati intendano muoversi diversamente da quanto originariamente deciso. Anche senza voler trarre in questa sede considerazioni finali – invero premature - circa la probabilità di successo dell’intera iniziativa, la Two Pillar Solution e, più specificamente, la Global Minimum Tax, testimoniano indiscutibilmente la significativa evoluzione ed il profondo mutamento della fisionomia del diritto tributario internazionale rispetto alle sue origini, con l’affermarsi di un nuovo paradigma di fiscalità sempre più dipendente dai rapporti sovranazionali tra gli Stati.