Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

11/02/2025 - La nuova disciplina dell’adesione al p.v.c.: aspetti problematici (anche di ordine costituzionale)

argomento: Attuazione del tributo - Legislazione e prassi

Il presente contributo esamina l’istituto dell’adesione ai verbali di constatazione, disciplinato dal novellato art. 5-quater del d.lgs. n. 218 del 1997, con particolare riguardo ad alcuni aspetti interpretativi critici della disciplina e alla compatibilità del nuovo istituto con la Costituzione e con altri principi dell’ordinamento tributario.

PAROLE CHIAVE: accertamento - adesione - pvc


di Loris Tosi

1. La nuova disciplina dell’adesione al p.v.c., incastonata nell’art. 5-quater del D.Lgs. n. 218/1997 (dal D.Lgs. 12 febbraio 2024, n.13, emanato in attuazione della delega conferita dall’art. 17 della L. 9 agosto 2023, n. 111), ne riproduce per alcuni tratti la versione originaria (di cui all’art. 5-bis del medesimo D.Lgs. n. 218, introdotto dal D.L 25 giugno 2008, n. 112 e successivamente abrogato dalla L. 23 dicembre 2014, n. 190), ma la modifica significativamente (tra i commenti relativi alla previgente disciplina si segnalano in modo particolare: M. Ba­silavecchia, La definizione dei processi verbali, in Corr. trib., n. 36/2008, 2891 ss.; A. Carinci e T. Tassani, Dall’adesione all’acquiescenza nei nuovi strumenti deflativi del contenzioso tributario, in Dial. trib., n. 3/2009, 263 ss.; M. Pierro, I nuovi modelli di definizione anticipata del rapporto fiscale (adesione al ver­bale e adesione all’invito), in Rass. trib., n. 4/2009, 965 ss.; A. Giovanardi, L’adesione ai processi verbali di constatazione e agli inviti a comparire tra principio di eguaglianza e deterrenza delle sanzioni, in Rass. trib., n. 2/2010, 342 ss.).

Mi riferisco non tanto alla ratio dell’istituto, che rimane saldamente ancorata alla duplice logica deflattiva del contenzioso e facilitativa del gettito erariale (enfatizzata da un abnorme, ed assai poco razionale, abbattimento delle sanzioni ad un sesto del minimo edittale), ma alle varianti che ne ampliano il perimetro applicativo, estendendone la portata e rendendolo, per così dire, più elastico.

E’ su queste che intendo soffermarmi anche per evidenziarne alcuni aspetti problematici.

2. Anzitutto, unitamente alla limitazione che il p.v.c. riguardi le sole imposte dirette e l’IVA, è stata espunta la condizione che dal p.v.c. scaturisca un “accertamento parziale”. Ne consegue che, per effetto della riforma, è oggi definibile un p.v.c. avente ad oggetto una qualsiasi imposta e destinato a generare un qualsiasi tipo di accertamento.

Sul punto, però, la formulazione normativa potrebbe suscitare un primo dubbio interpretativo.

Mi riferisco alla terminologia utilizzata dal legislatore delegato per denominare l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate comunica al contribuente il perfezionamento della procedura di adesione, qualificato dal comma 5 dell’art. 5-quater come «atto di definizione dell’accertamento parziale». Una simile locuzione, infatti, potrebbe apparire contraddittoria rispetto a quanto appena detto circa l’ampliamento del campo di applicazione dell’istituto di cui ci stiamo occupando.

Il contrasto, tuttavia, pare a me solo apparente e spiegabile non tanto in termini svalutativi della precisazione normativa (come se si trattasse di una svista del legislatore, priva di valore precettivo) bensì valorizzando la natura dell’atto di definizione dell’accertamento, natura che – per consapevole volontà del legislatore - sarebbe quella di un vero e proprio “accertamento parziale”, in modo da consentire l’applicazione all’istituto in esame della disciplina di cui all’art. 2, comma 4, lett. b), del D.Lgs. n. 218 del 1997 (che, come noto, non preclude l’esercizio dell’ulteriore azione accertatrice pur in assenza di nuovi elementi).

Del resto, questa chiave di lettura sembra coerente con la natura del p.v.c., atto istruttorio che non necessariamente contiene rilievi definitivi (ancorché – come vedremo a breve – la recente riforma potrebbe incidere sulla natura stessa del p.v.c.).

3. Una seconda sostanziale differenza tra la nuova adesione al p.v.c. e quella previgente risiede nella possibilità per il contribuente di condizionare l’adesione al verbale alla rimozione di «errori manifesti» presenti nel verbale stesso, mediante apposita segnalazione diretta all’organo che ha redatto il p.v.c. (Agenzia delle Entrate o Guardia di Finanza, ove la verifica sia stata condotta da quest’ultima). L’organo che ha redatto il verbale, nei dieci giorni successivi, può poi correggere gli errori indicati dal contribuente, informandone quest’ultimo ed il competente ufficio dell’Agenzia.

Questa innovazione va letta come un tentativo di rendere più “elastica” la gestione del p.v.c. nei rapporti tra contribuente ed Agenzia, mantenendo ferma la regola secondo cui l’adesione non può che avere ad oggetto il contenuto integrale del p.v.c.

Ma l’obiettivo è stato perseguito in modo poco convincente.

Invero - come si vedrà a breve - la portata di una simile innovazione (e la stessa conformità costituzionale della nuova disciplina) dipende molto da come debba essere (e verrà nella pratica) intesa la locuzione di «errori manifesti» e da quale spazio vada garantito al contribuente per avanzare eventuali osservazioni, circa tali errori, a mezzo di un contraddittorio endoprocedimentale con l’organo che ha emesso il verbale.

 

4. Iniziamo dal significato che deve attribuirsi alla nozione di «errori manifesti».

La locuzione utilizzata dal legislatore delegato, infatti, non è , di per sé,  idonea a individuare con precisione il novero di errori suscettibili di essere rimossi dall’organo che ha redatto il verbale. Il problema dell’ampiezza della locuzione racchiusa nel comma 1 del nuovo art. 5-quater, d’altronde, era stato sollevato dalla VI Commissione delle Camera dei Deputati (finanze), chiamata ad esprimere parere sullo schema di decreto legislativo predisposto dal Governo. La VI Commissione, infatti, pur esprimendo parere favorevole sullo schema di decreto legislativo, aveva tuttavia invitato il Governo a valutare l’opportunità di «precisare la portata normativa della locuzione «errori manifesti» di cui al comma 1, lettera b) del nuovo articolo 5-quater del decreto legislativo n. 218 del 1997, anche al fine di consentire al contribuente di condizionare l’adesione all’accertamento alla rimozione, da parte dell’amministrazione medesima, dei rilievi rispetto ai quali il contribuente fornisca adeguate controdeduzioni, suffragate da supporto documentale» (cfr. parere della VI Commissione permanente della Camera dei Deputati del 21 dicembre 2023). L’invito della Commissione parlamentare era, dunque, quello di includere nella nozione di errori manifesti un novero tendenzialmente ampio di ipotesi di vizi del p.v.c., purché opportunamente suffragate da un adeguato supporto documentale.

Da parte sua, il Governo ha parzialmente disatteso l’indicazione della VI Commissione, affermando, nella relazione illustrativa del D.Lgs. n. 13 del 2024, che debbano considerarsi manifesti soltanto gli «errori ictu oculi riconoscibili, senza necessità di attività interpretativa o valutativa» (cfr. Relazione Illustrativa del Decreto Legislativo 12 febbraio 2024, n. 13).

Sebbene nemmeno quest’ultimo chiarimento sia in grado di fare piena chiarezza sulla portata applicativa del nuovo art. 5-quater, è piuttosto evidente l’intenzione dell’Esecutivo di circoscrivere in misura significativa le ipotesi di errori suscettibili di essere oggetto di istanza di adesione condizionata (come, peraltro, si può indirettamente evincere dal ridottissimo termine entro cui l’organo che ha redatto il verbale può procedere alla rimozione degli errori, pari a soli dieci giorni).

Occorre tuttavia sottolineare come una simile interpretazione restrittiva del novero degli errori idonei a dar luogo all’istanza di adesione “condizionata” non sia condivisibile e come, soprattutto – per le ragioni che si esamineranno tra poco – rischi di esporre il novellato art. 5-quater a una censura d’illegittimità costituzionale per irragionevolezza della disciplina.

Invero, al fine di stabilire la portata applicativa della nozione di «errori manifesti», di cui alla disposizione in commento, si dovrebbe prendere le mosse dalla littera legis, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 12 delle Preleggi, che notoriamente assegna all’interpretazione letterale un primato su tutti gli altri canoni interpretativi, aventi un ruolo succedaneo (in tal senso si veda, su tutte, Cass. civ., Sez. lavoro, 27 maggio 2022, n. 17329). Ebbene, interpretando letteralmente il primo comma dell’art. 5-quater del D.Lgs. n. 218 del 1997, la conclusione dovrebbe essere quella secondo cui il contribuente potrebbe condizionare l’adesione al p.v.c. a fronte di errori facilmente rilevabili attraverso un’analisi non particolarmente approfondita, a prescindere da quale natura essi rivestano. Dovrebbero, quindi, assumere rilievo non soltanto gli errori materiali macroscopici (come tipicamente gli errori di calcolo), ma anche gli errori di diritto particolarmente plateali compiuti dai verificatori, come ad esempio l’applicazione di un errato coefficiente di ammortamento, un’aliquota IVA errata, la mancanza considerazione di un plafond oppure ancora la mancata applicazione del principio del favor rei e via dicendo.

È evidente che il lessico utilizzato dal legislatore delegato consente di includere all’interno del novero degli errori suscettibili di venire rimossi dall’organo verbalizzante un numero considerevole di ipotesi, con l’unica condizione che tali errori siano manifesti e, quindi, facilmente rilevabili. Per converso, un’interpretazione eccessivamente restrittiva dell’art. 5-quater (nei termini enunciati dal Governo nella suddetta relazione illustrativa) si rivelerebbe contraria alla littera legis, che appunto è chiara nell’introdurre una nozione aperta di errore, astrattamente suscettibile di infinite integrazioni.

È pur vero – peraltro e come, del resto, rilevato anche dalla VI Commissione della Camera dei Deputati – che la centralità del tema rispetto all’operatività dell’istituto richiederebbe che l’attività ermeneutica approdasse a soluzioni meno vaghe ed opinabili, auspicabilmente individuando una sorta di catalogo – ovviamente esemplificativo e non tassativo, alla luce di quanto appena detto – di ipotesi di errori manifesti del p.v.c.

A tal fine, potrebbe soccorrere quanto disposto dall’art. 7-ter dello Statuto dei diritti del Contribuente, specie laddove individua le fattispecie di violazione o elusione di giudicato e di vizi di nullità qualificati espressamente come tali da disposizioni entrate in vigore successivamente al d.lgs. 219/2023 (che, in effetti, potrebbero ben verificarsi, diversamente dall’ulteriore ipotesi di difetto assoluto di attribuzione).

Ma soprattutto, potrebbe soccorrere la disciplina positiva dell’autotutela tributaria obbligatoria, ora contenuta nel novellato art. 10-quater dello Statuto (introdotto, si noti, dall’art. 1 del d.lgs. n. 219 del 2023, decreto legislativo attuativo della mede­sima legge delega, la n. 111 del 2023, che costituisce la base giuridica del d.lgs. n. 13 del 2024), il quale pure prevede che l’Amministrazione finanziaria sia tenuta a procedere all’annullamento di atti di imposizione in presenza di determinati casi di «manifesta illegittimità dell’atto o dell’imposizione», espressamente elencati nel corpo del medesimo articolo. Anche il citato art. 10-quater, quindi, fa ricorso al concetto di errore manifesto e ne indica una serie di fattispecie.

Alla luce di tale analogia, come vedremo non solo terminologica, è ragionevole ritenere che l’elencazione dell’art. 10-quater possa rivelarsi utile per individuare un nucleo minimo degli «errori manifesti» cui far riferimento nell’interpretazione del novellato art. 5-quater. È innegabile, infatti, che, sebbene la rimozione di errori manifesti del verbale di constatazione non possa essere qualificata de plano come una forma di autotutela tributaria (non essendo relativa ad un atto impositivo ma meramente istruttorio), essa è però frutto dell’esercizio di un potere per molti versi simile, in quanto, come nell’ipotesi di esercizio del vero e proprio potere di autotutela, anche nell’adesione “condizionata” al p.v.c. si assiste ad un’amministrazione pubblica (l’organo che ha redatto il verbale) che modifica ex post un atto (in questo caso il p.v.c.) emesso in precedenza.

Senza dubbio, pertanto, quantomeno le ipotesi contemplate dall’art. 10-quater dello Statuto del Contribuente dovrebbero essere incluse nel novero degli «errori manifesti», alla cui rimozione è ora possibile condizionare l’adesione al verbale di constatazione, che quindi dovrebbero comprendere le seguenti circostanze:

  1. a) errore di persona;
  2. b) errore di calcolo;
  3. c) errore sull’individuazione del tributo;
  4. d) errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’amministrazione finanziaria;
  5. e) errore sul presupposto d’imposta;
  6. f) mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti;
  7. g) mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini ove previsti a pena di decadenza (cfr. art. 10-quater, comma 1, della L. n. 212 del 2000).

Del resto, quelli appena citati sono sovente errori che non necessitano di particolari approfondimenti per essere rilevati, ancorché la disciplina legislativa presenti una formulazione che si presta a interpretazioni particolarmente estensive, soprattutto per quanto riguarda l’ipotesi di errore sul presupposto dell’imposta. Questo, tuttavia, è un problema attinente alla disciplina dell’autotutela obbligatoria, che andrebbe affrontato in altra e più opportuna sede.

5. Volendo proseguire lungo questa linea argomentativa, si potrebbe giungere a sostenere che i casi di manifesta illegittimità dell’atto testé menzionati (indicati dallo Statuto del Contribuente quali circostanze di esercizio obbligatorio dell’autotutela tributaria) non costituiscano semplicemente un parametro di riferimento in base al quale ricostruire in via interpretativa il novero degli errori manifesti di cui al novellato art. 5-quater, ma rappresentino ipotesi di vizi del p.v.c. che l’organo verbalizzante è vincolato, vale a dire obbligato, a rimuovere. È possibile, infatti, affermare che il potere dell’organo che ha emesso il p.v.c. di rimuovere, su istanza del contribuente, gli errori manifesti che affliggono il verbale stesso non soltanto presenti delle affinità con il potere di autotutela tributaria, ma sia esso stesso espressione di tale potere.

Ciò in quanto, se è vero che il verbale di constatazione costituisce un atto istruttorio endoprocedimentale di natura essenzialmente servente (in tal senso si veda quanto statuito da Cass., 28 aprile 1998, n. 4312) – e, pertanto, non rientri nella definizione di atti impositivi, con riferimento ai quali è possibile esercitare il potere di autotutela – è del pari innegabile, come osservato in dottrina nel vigore dell’abrogato art. 5-bis del D.Lgs. n. 218 del 1997 (si vedano M. Pierro, op. cit., 984; N. Zanotti, op. cit., 1497 ss.), che, in virtù dell’introduzione dell’istituto dell’adesione al p.v.c., quest’ultimo atto subisca un mutamento della propria natura giuridica, perdendo la veste di mero atto istruttorio e servente per acquisire quella di provvedimento, in quest’ottica analogo ad un vero e proprio atto impositivo.

Dovendo, infatti, il contribuente prestare adesione al contenuto integrale del verbale, i rilievi ivi formulati finiscono per incidere direttamente sulla sfera giuridica del privato, il quale procederà ad assolvere le imposte e sanzioni per come individuate e quantificate dall’organo che ha redatto il p.v.c. Il verbale di constatazione, pertanto, supera la sua originaria funzione di atto meramente istruttorio e acquista una rilevanza giuridica diversa, ricoprendo il ruolo di atto finalizzato a contestare le violazioni soggette a definizione agevolata (sul punto, si veda N. Zanotti, op. cit., 1502). Come è stato osservato, dinanzi all’adesione al p.v.c. si assiste ad un’anticipazione dell’esercizio del potere impositivo nella fase istruttoria che perde la sua natura servente per acquistare una funzione para-accertativa (i termini sono quelli utilizzati da M. Pierro, op. cit., 984).

Ben si capisce, allora, come non sia illogico sostenere che, alla luce della mutata natura giuridica assunta dal p.v.c. nel contesto dell’adesione prevista dal novellato art. 5-quater, il verbale di constatazione possa rientrare nel novero degli atti impositivi ai sensi dell’art. 10-quater dello Statuto del Contribuente e quindi che l’organo che ha redatto il verbale, nell’ipotesi in cui tale atto fosse viziato da errori sussumibili nell’elencazione ivi prevista, sia obbligato a rimuovere tali errori, non residuando in capo ad esso alcun margine di discrezionalità.

In questo modo, la rimozione degli errori manifesti presenti nel verbale si configurerebbe come esercizio di un autentico potere di autotutela dell’Amministrazione finanziaria che – ripetesi: al ricorrere delle ipotesi previste dallo Statuto del Contribuente – dovrebbe qualificarsi come autotutela obbligatoria.

In ogni caso, riprendendo l’inizio del ragionamento – ed anche a non voler ritenere che il p.v.c. assurga a vero e proprio atto impositivo (e, dunque, che l’organo verbalizzante sia obbligato a rimuovere gli errori segnalati dal contribuente, se rientranti tra le fattispecie individuate dallo Statuto del Contribuente) – se si dovesse adottare una soluzione interpretativa restrittiva del comma 1 dell’art. 5-quater (come quella che il Governo è parso fare propria nella relazione illustrativa del D.Lgs. n. 13 del 2024) e, quindi, negare che gli «errori manifesti» ivi previsti dovrebbero coincidere quantomeno con quelli elencati dall’art. 10-quater ai fini dell’esercizio dell’autotutela obbligatoria, la disposizione rischierebbe di appalesarsi costituzionalmente illegittima in quanto irragionevole.

E ciò perché, se si comparano l’art. 5-quater e l’art. 10-quater, emergono, come si è visto: la sostanziale identità della terminologia legislativa, l’affinità sostanziale degli istituti e la simultaneità temporale dei due interventi normativi.

6. Quanto evidenziato nel precedente paragrafo non esaurisce, tuttavia, il discorso circa la possibile difformità dell’istituto in esame rispetto alla Carta costituzionale.

Il nuovo art. 5-quater, infatti, potrebbe dar luogo ad un’ulteriore criticità, sotto il profilo dell’eccesso di delega dell’articolo 1 del D.Lgs. n. 13 del 2024 (che il nuovo art. 5-quater ha introdotto) rispetto alla legge di delegazione n. 111 del 2023.

Come si è detto, infatti, il primo articolo del Decreto n. 13 del 2024 è stato adottato in attuazione dell’art. 17 («Princìpi e criteri direttivi in materia di procedimento accertativo, di adesione e di adempimento spontaneo»), comma 1, lettere a) e b), punti da 1 a 4, della legge 9 agosto 2023, n. 111 (come specificato nella stessa Analisi di Impatto della Regolamentazione redatta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze), con cui il legislatore ha dato incarico al Governo di riformare il procedimento accertativo secondo i seguenti principi e criteri direttivi:

«a) semplificare il procedimento accertativo, anche mediante l’utilizzo delle tecnologie digitali, con conseguente riduzione degli oneri amministrativi a carico dei contribuenti;

  1. b) applicare in via generalizzata il principio del contraddittorio, a pena di nullità, fuori dei casi dei controlli automatizzati e delle ulteriori forme di accertamento di carattere sostanzialmente automatizzato, e prevedere una disposizione generale sul diritto del contribuente a partecipare al procedimento tributario, secondo le seguenti caratteristiche:

1)  previsione di una disciplina omogenea indipendentemente dalle modalità con cui si svolge il controllo;

2)  assegnazione di un termine non inferiore a sessanta giorni a favore del contribuente per formulare osservazioni sulla proposta di accertamento;

3)  previsione dell’obbligo, a carico dell’ente impositore, di formulare espressa motivazione sulle osservazioni formulate dal contribuente;

4)  estensione del livello di maggiore tutela previsto dall’articolo 12, comma 7, della citata legge n. 212 del 2000».

Nelle intenzioni del legislatore delegato, infatti, l’art. 1, comma 1, dovrebbe operare un coordinamento delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 218 del 1997, in tema di accertamento con adesione, con le norme di attuazione della delega relativa allo Statuto del contribuente, con particolare riguardo alla previsione di un obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo.

Ebbene, se la delega al Governo, operata dalla L. n. 111 del 2023, ha come obiettivo quello di applicare in via generalizzata il principio del contraddittorio, emerge l’inconferenza della contemporanea reintroduzione di un istituto, quale l’adesione al p.v.c., che viceversa tende ad escludere un confronto dialettico tra contribuente e Amministrazione finanziaria (la questione è stata compiutamente esaminata, nel vigore dell’abrogato art. 5-bis del d.lgs. n. 218 del 1997, da A. Giovanardi, op. cit., passim, nonché da M. Pierro, op. cit., passim). Non può sfuggire, infatti, che l’adesione al p.v.c. si risolve in un’acquiescenza che il contribuente manifesta nei confronti di un atto (istruttorio ma in nuce impositivo) il cui contenuto è stabilito unilateralmente dall’organo verificatore senza poter svolgere alcun intervento difensivo o collaborativo (salvo – come si dirà – lo spiraglio aperto dalla nuova ipotesi di adesione “condizionata”).

Se ciò è vero, l’elisione di ogni spazio di confronto tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria, nel contesto dell’art. 5-quater del D.Lgs. n. 218 del 1997, non sembra rispettare i principi e criteri direttivi posti dalla legge delega n. 111 del 2023, che, di contro, ha espressamente incaricato il Governo di «applicare in via generalizzata il principio del contraddittorio».

Come si diceva, saremmo di fronte ad un caso di eccesso di delega.

Nondimeno, v’è spazio per riconciliare la disciplina della definizione del p.v.c. con i principi e criteri direttivi stabiliti dal Parlamento, utilizzando la breccia fornita dall’adesione “condizionata” di cui abbiamo sopra trattato e che ora, in una diversa prospettiva, potrebbe essere valorizzata per recuperare una sorta di contraddittorio endoprocedimentale anche all’interno dell’istituto dell’adesione al verbale di constatazione.

Abbiamo visto come il nuovo art. 5-quater del D.Lgs. n. 218 del 1997 consenta al contribuente di condizionare l’adesione al verbale alla rimozione, da parte dell’organo che lo ha redatto, degli errori manifesti presenti nel p.v.c. stesso. E come i verificatori, nel termine di dieci giorni dalla comunicazione di adesione condizionata, possano correggere gli errori indicati dal contribuente mediante aggiornamento del verbale.

Ebbene, onde comporre il contrasto tra i principi e criteri direttivi stabiliti dalla legge delega e l’introduzione dell’adesione al p.v.c. di cui al nuovo art. 5-quater, si dovrebbe interpretare quest’ultima disposizione nel senso di imporre all’organo che ha redatto il p.v.c., a fronte di una comunicazione di adesione condizionata, di instaurare un autentico contraddittorio con il contribuente. Ciò consentirebbe a quest’ultimo di addurre eventuali vizi del p.v.c. ed obbligherebbe i verificatori ad esaminarli criticamente onde condividerli o, se del caso, respingerli, motivandone adeguatamente le ragioni.

Così interpretata, l’adesione al p.v.c. si ricollocherebbe nell’alveo del principio del contraddittorio anticipato ed anzi lo rafforzerebbe.

Ovviamente, non sfugge come la soluzione qui proposta sollevi un duplice ordine di criticità.

Il primo risiede nel fatto che il contraddittorio – qualora la verifica sia stata effettuata da un organo diverso dall’Agenzia delle Entrate: Guardia di Finanza o Agenzia delle Dogane – potrebbe instaurarsi ben prima della fase accertativa e con un soggetto normalmente sprovvisto del relativo potere.

Il secondo risiede nell’estrema esiguità del lasso temporale (dieci giorni) entro il quale un momento così importante del confronto tra contribuente e Amministrazione finanziaria dovrebbe risolversi.

Ma mentre anticipare il contraddittorio rispetto a quella che sarebbe la sua sede naturale non sembra ledere alcun principio ordinamentale, è sulla seconda criticità che bisognerebbe semmai intervenire, per rendere il termine di dieci giorni più congruo e, in definitiva, costituzionalmente coerente.

7. L’assimilazione dell’atto di definizione ad un vero e proprio provvedimento di natura sostanzialmente accertativa suffraga la tesi della sua impugnabilità, come peraltro sostenuto dalla giurisprudenza nel vigore del precedente art. 5-bis, qualora l’atto di definizione presentasse difformità rispetto ai rilievi contenuti nel p.v.c. ed oggetto di adesione.

Questo orientamento, fatto proprio dalla giurisprudenza della Cassazione (per tutte, si veda Cass., Sez. VI, 21 febbraio 2020, n. 4566) viene rafforzato dalla nuova disciplina dell’autotutela (obbligatoria), in seno alla quale è espressamente prevista l’impugnabilità dei provvedimenti di diniego [nel vigore dell’abrogato art. 5-bis del D.Lgs. n. 218 del 1997, l’impugnabilità del rigetto dell’istanza è stata confermata anche dalla giurisprudenza di merito, che ha colto un’affinità con la fattispecie del rigetto di domanda di definizione agevolata di rapporti tributari, che l’art. 19, comma 1, lett. h), del D.Lgs. n. 546 del 1992 inserisce espressamente nel novero degli atti impugnabili. In questo senso, vd. C.T.P. Genova, 29 novembre 2011, n. 456].

Invero, alla luce di quanto sopra rilevato al par. 5 si potrebbe ritenere che anche un atto di diniego dell’istanza di adesione possa assurgere a vero e proprio atto di natura provvedimentale, immediatamente lesivo e, come tale, autonomamente impugnabile davanti al giudice tributario.

Questa conclusione si concilierebbe con la giurisprudenza, di legittimità e di merito, sopra citata (formatasi nella vigenza della precedente disciplina, che non contemplava la fattispecie di adesione condizionata).

Esso, tuttavia, confliggerebbe con la disciplina del processo tributario che impedisce di attribuire un ruolo processuale ad un soggetto diverso dal titolare del potere accertativo, quale sarebbe la Guardia di Finanza tenuta a pronunciarsi su un’istanza di adesione condizionata.

8.  Dubbi, infine, sorgono con riferimento al rapporto tra la nuova disciplina dell’adesione al p.v.c. e la disciplina del ravvedimento in presenza di p.v.c., anch’essa oggetto di riforma ad opera dell’ancor più recente art. 3, comma 1, lett. g), del c.d. “Decreto Sanzioni”.

L’ultima versione dell’art. 13, comma 1, lett. b-quater), del D.Lgs. n. 472 del 1997, prevede che il contribuente possa accedere al ravvedimento (e così giovarsi dell’abbattimento ad un quinto del minimo delle sanzioni) solo qualora la regolarizzazione degli errori e delle omissioni avvenga «senza che sia stata inviata comunicazione di adesione al verbale ai sensi dell’articolo 5-quater del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218».

In altre parole, i due istituti – all’atto pratico, per certi aspetti sovrapponibili – ora convivono ancorché ne sia stata prevista la giuridica alternatività, con prevalenza dell’adesione al p.v.c. sul ravvedimento in presenza di p.v.c. (è opportuno rammentare che la precedente versione dell’adesione al p.v.c. è stata abrogata dalla l. n. 190 del 2014, che ha contestualmente introdotto la possibilità di effettuare il ravvedimento operoso anche successivamente alla constatazione delle violazioni per mezzo del p.v.c.)

Rimangono, tuttavia, alcuni dubbi interpretativi, frutto di un non compiuto coordinamento tra le due disposizioni.

Infatti, la norma non prevede espressamente quale sorte possa avere il ravvedimento operoso in presenza del p.v.c. qualora l’istanza di adesione al p.v.c., pur presentata, non sia stata coltivata dal contribuente ovvero (in caso di istanza condizionata) sia stata respinta dall’Amministrazione (si evidenzia che l’eventualità di un rigetto dell’istanza di adesione deve considerarsi limitata quasi esclusivamente all’ipotesi di adesione “condizionata”, in quanto appare difficile individuare delle ragioni per le quali l’organo che ha redatto il p.v.c. dovrebbe respingere un’istanza “semplice”).

Ebbene, nel primo caso è da ritenersi che operi l’effetto preclusivo di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 472 del 1997, in quanto il mancato perfezionamento dell’adesione al p.v.c. è dipeso da una scelta (deliberata o inevitabile) del contribuente.

Nel secondo caso, invece, è lecito dubitare della correttezza di una conclusione basata unicamente sulla lettera della norma, giacché sussistono fondate ragioni per ritenere che, rispetto alla ratio della norma, la reiezione dell’istanza di adesione al p.v.c. realizzi una condizione del tutto assimilabile della mancata presentazione della medesima istanza.