argomento: Imposte sui trasferimenti e altri tributi - Giurisprudenza
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 22 febbraio 2024, n. 4766, ha ribadito l’orientamento giurisprudenziale, interessante l’esatto perimetro interpretativo ascrivibile al novellato art. 20,d.P.R. n. 131/1986, secondo cui il conferimento di un ramo di azienda in una società neocostituita e la successiva cessione, ad opera della conferente, dell’intera partecipazione societaria, costituiscono plurimi negozi giuridici distinti che non possono essere unitariamente ricondotti e riqualificati, ai fini dell’imposta di registro, in cessione di azienda e, coerentemente, devono scontare l’imposta in misura fissa.
» visualizza: il documento (Corte di Cassazione, 22 febbraio 2024, ordinanza n. 4766)PAROLE CHIAVE: imposta di registro - riqualificazione dell’atto - prevalenza della sostanza sulla forma
di Giulio Garofalo
1. Con l’ordinanza annotata, la Corte di Cassazione ha corroborato il già granitico orientamento di legittimità sull’esatta portata esegetica ascrivibile al “rivoluzionario” art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 (di seguito, per convenzione “Tur”).
Sulla disposizione testé richiamata, invero, si è accesso un animato dibattito che ha visto contrapporsi, da un lato, la magistratura protesa a legittimare la valutazione di ogni elemento comunque correlato all’atto da registrare, affinché si pervenisse a una liquidazione dell’imposta coerente con la manifestata capacità contributiva e, dall’altro, il potere legislativo dedito ad arginare in questa fase interpretativa una tale indagine sugli elementi esterni all’atto sottoposto a registrazione, sancendone l’inutilizzabilità degli stessi.
La vexata quaestio ha origini alquanto remote, trovando la stessa genesi nella vigenza dell’art. 8 del R.D. n. 3269/1923, il quale disponendo che le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, ancorché non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, non circostanziava quali dovessero essere questi effetti, e cioè se quelli “giuridici” (propendendo per tale ricostruzione, Berliri, Le leggi del Registro, 1946; Giannini, Costituzioni di diritto tributario, 1938 e Vanoni, Natura e interpretazione delle leggi tributarie, 1962) o “economici” (tra i fautori di quest’ultima, Jarach, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, 1937 e Griziotti, Il principio della realtà economica negli artt. 8 e 68 della legge di registro, in Riv. dir. fin. sci. fin., 1939, II, p. 109).
In realtà, il “destino” della norma sarebbe stato di per sé dirimente, considerato che il legislatore, già nella trasmigrazione dal R.D. n. 30 dicembre 1923, n. 3269 al d.P.R. n. 634 del 1972 (art. 19), aveva specificato e, successivamente, suffragato - con l’art. 20 Tur – che gli effetti rilevanti, per potersi addivenire a una riqualificazione dell’atto, dovessero essere quelli giuridici dell’atto e non anche quelli economici, così come discendente dalla combinazione degli atti di volta in volta vagliati. Nonostante ciò, tuttavia, la “burrasca” interpretativa intorno la norma non trovava quiete. In particolare, secondo alcuni Autori (Tabet, L’art. 20 della Legge di Registro e la dottrina della metempsicosi, in GT – Riv. giur. trib., 2016, p. 589 e Beghin, Ancora equivoci sull’interpretazione degli atti ai fini dell’imposta di registro, in Corr. trib., 2017, p. 1622), ciò derivava dalla formulazione della disposizione sancita nell’art. 20 del Tur, la quale, anteriormente al restyling apportato con le L. nn. 205 del 2017 e 145 del 2018, disponeva che l’imposta trovava applicazione sulla scorta della “fusione” tra intrinseca natura ed effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, senza che possano assumere rilevanza ai fini impositivi il nomen iuris o la forma apparente.
La sopracitata disposizione ha, quindi, dato vita a divergenti opinioni dottrinali e giurisprudenziali, perdurate anche a seguito della novella, resasi indispensabile nell’ottica di placare, come anticipato, la tensione istituzionale tra legislatore e diritto vivente. Infatti, al fine di arginare risolutivamente la prassi dell’Amministrazione finanziaria di ricostruire la causa reale e il connesso risultato economico finale di distinte vicende negoziali in un’unica operazione, valorizzando elementi extra testuali e il collegamento funzionale tra più negozi autonomi, il legislatore tributario, resosi conto finanche dell’erronea interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità in relazione all’art. 20 è intervenuto tentando di dirimere i dubbi interpretativi sorti in merito alla sua portata applicativa e agli effetti retroattivi della nuova disposizione.
Ma vi è di più, nell’art. 53-bis, co. 1 Tur, è stato aggiunto il rinvio espresso all’art. 10-bis, della L. n. 212/2000, ciò non tanto al fine di conclamare l’applicabilità della nuova disciplina dell’abuso del diritto anche nell’ambito dell’imposta di registro, quanto piuttosto al fine di demarcare l’ambito applicativo dell’art. 20 e, pertanto, di sancire lapalissianamente il confine tra il potere di (esatta) qualificazione del contenuto giuridico dell’atto registrato (art. 20) e il (diverso) potere di contestazione delle condotte abusive in tale settore impositivo (art. 10-bis).
Sulla base di quanto sopra e, soprattutto, alla luce della posizione assunta dalla Corte Costituzionale sull’esatta esegesi da affibbiare all’art. 20 Tur con le sent. nn. 158/2020 e 39/2021, lo stesso deve essere adoperato soltanto per individuare il regime impositivo da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, a prescindere: i) dagli elementi interpretativi esterni all’atto stesso; ii) dagli interessi economici oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti (per una ricostruzione approfondita dei diversi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, si permetta di rinviare a Melis, Art. 20 del Registro, ultimo atto: tra giudici piccati e pifferi di montagna, la Consulta scrive il lieto fine, in Dir. prat. trib., 2021, p. 252).
2. Nella fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte, l’Agenzia delle Entrate aveva riqualificato l’operazione di conferimento di un ramo d’azienda in una società neocostituita seguito dalla cessione, ad opera della conferente, dell’intera partecipazione societaria. Muovendo dalla precedente formulazione del citato art. 20, infatti, l’Amministrazione finanziaria rilevò che l’operazione, nel complesso, rappresentasse una cessione d’azienda e, di conseguenza, la assoggettò a imposta di registro in misura proporzionale in luogo di quella in misura fissa.
I giudici di entrambe le Corti di merito avevano accolto la tesi erariale, allineandosi all’allora costante giurisprudenza di legittimità (ex pluribus, Cass. 30 maggio 2018, n. 13610; Cass. 15 marzo 2017, n. 6758; Cass. 18 maggio 2016, n. 10216; Cass. 2 dicembre 2015, n. 24594; Cass. 19 marzo 2014, n. 6405; Cass. 14 febbraio 2014, n. 3481).
In riforma della sentenza di seconde cure, la Corte di Cassazione ha statuito che: i) l’attuale formulazione della disposizione non legittima la riqualificazione della cessione di quote in cessione d’azienda sulla scorta della mera sostanza economica dell’operazione; ii) gli effetti prodotti dalla cessione di quote e dalla cessione d’azienda non sono parificabili, poiché la prima attribuisce un diritto personale di partecipazione alla vita societaria, al contrario, la seconda, un diritto reale sul patrimonio societario (cfr. Cass. 25 gennaio 2023, n. 2252).
In altri termini, l’attività di riqualificazione degli atti sulla base dei loro effetti economici è consentita solo attraverso la disciplina dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis della L. n. 212/2000, nel rispetto delle condizioni e delle garanzie endoprocedimentali ivi disposte. L’art. 20 oggi vigente, dunque, costituisce una mera norma di/sull’interpretazione che deve fondarsi unicamente sul loro contenuto letterale senza sconfinare nell’analisi di eventuali fattori a essi esterni, in coerenza: i) sia con il tenore letterale della disposizione; ii) sia con la natura giuridica dell’imposta di registro, che è un’imposta d’atto.
La pronuncia in esame, da valutarsi con favore, conferma l’orientamento – a oggi consolidato (Cass. 13 dicembre 2023, n. 34917; Cass. 25 settembre 2023, n. 27289; Cass. 25 maggio 2023, n. 14535) – della Suprema Corte sulla corretta interpretazione delle disposizioni negoziali ai fini dell’imposta di registro e il divieto per l’Amministrazione finanziaria di riqualificare, nel loro complesso, le operazioni di riorganizzazione aziendale mediante l’art. 20 del Tur.
3. Malgrado gli interventi normativi e giurisprudenziali supra richiamati abbiano contribuito a rafforzare la valenza cartolare del tributo di registro, restituendo al medesimo l’originaria configurazione di imposta d’atto, la diatriba interpretativa, nella quale s’innesta anche l’ordinanza annotata, muove(va) dalla stretta correlazione, nell’ambito del tributo di registro, tra “forma giuridica” e “sostanza economica” (si permetta di rinviare per un’analisi funditus alla monografia di Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, 2017): essendo la seconda (quale concreto ed effettivo atteggiarsi di situazioni, rapporti e vicende nel contesto sociale) rappresentata dalla prima (riferita a un ambito di qualificazioni astratte fondate sull’esercizio di poteri autoritativi o di autonomia), la tassazione viene incentrata sul negozio giuridico, di per sé ritenuto sintomatico di capacità contributiva.
Trattandosi di un’imposta indiretta, infatti, è necessario individuare la reale natura e gli effetti giuridici prodotti dall’atto presentato per la registrazione, non essendo possibile un arricchimento in termini monetari, né tantomeno determinare un reddito o un volume d’affari: la capacità contributiva è esclusivamente incorporata nelle clausole dell’atto stesso (Beghin, L’elusione fiscale e il principio di divieto di abuso del diritto, 2021, p. 453). Agli effetti giuridici corrisponde una precisa valenza economica dell’operazione: quest’ultima non può sovrastare la qualificazione dell’atto che discende dalla ponderazione dei suoi effetti giuridici.
Posta la questione nei termini suindicati, si rende necessario, anzitutto, rimarcare come la prevalenza della “substance over form”– soprattutto nel sistema del registro – è un principio non imperativo (Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario secondo la Corte Costituzionale, in Riv. trim. dir. trib., 2021, p. 45 e ss.), non storicamente barbicato e assente di qualsivoglia addentellato costituzionale (Stevanato, Imposta di registro e discrezionalità del legislatore nella progettazione dei tributi, in Corr. trib., 2020, p. 37), la cui applicazione oltre a far emergere effetti non voluti dal legislatore, potrebbe generare (in verità, ha già generato nella lettura della Suprema Corte con il precedente orientamento) una destrutturazione dell’Ordinamento tributario, sovvertendo le fonti del diritto attraverso la sostituzione di queste ultime con un diritto vivente del caso singolo e del (mutevole) precedente giurisprudenziale.
A ben vedere, infatti, il principio in discorso appare smascherato proprio focalizzandosi sulla disciplina positiva della legge di registro, nelle mutevoli versioni che si sono avvicendate nel tempo. Tale assunto, affiora non soltanto dalla tariffa allegata al testo unico registro, la quale stabilisce plurimi livelli di tassazione del tipo di atto giuridico e non dell’operazione economica ma, altresì, delle peculiari regole di registrazioni di taluni atti, quali, ad esempio, quelli formati per corrispondenza, assoggettati a tassazione solo in caso d’uso e, dunque, in ipotesi piuttosto marginali, ovvero gli atti stipulati all’estero, non gravati da imposizione, ad eccezione di limitate fattispecie connotate dalla presenza di beni in Italia o, ancora, i contratti verbali, che sfuggono all’obbligo di registrazione, pur evidenziando la medesima ricchezza espressa da operazioni economiche che scontano il tributo. Di qui l’equivoco dell’evocata prevalenza della “sostanza economica” (che altro non è se non l’effetto giuridico del collegamento negoziale, tutt’al più declinato in termini di fattispecie a formazione progressiva) sulla “forma giuridica” degli atti sottoposti a registrazione: ciò che sembra imporsi è, piuttosto, la sostanza giuridica (e gli effetti tributari voluti dal legislatore) rispetto al nomen iuris attribuito alle parti.
Eppure, l’Amministrazione finanziaria nel ricostruire la reale natura giuridica dell’atto – pur non potendosi discostare dallo schema negoziale impiegato e dalle conseguenze giuridiche che il medesimo è idoneo a produrre – ha ripetutamente e incongruamente adoperato l’art. 20 del Tur al fine di fugare la possibilità di sostenere un onere tributario non corrispondente al nomen iuris utilizzato, intitolando l’atto in un certo modo e redigendo le relative clausole in maniera non fedele con l’intitolazione (Gallo, Brevi osservazioni su un caso di cessione totalitaria di partecipazioni senza il trasferimento d’azienda, in Boll. trib., 2018, p. 1107).
Alla luce delle recenti modifiche normative e dell’allineata interpretazione giurisprudenziale, l’art. 20 Tur, in coerenza con il carattere “istantaneo” del tributo di registro, rientrante nel novero della fattispecie a struttura chiusa (D’Amati, Diritto Tributario, Teoria e critica, 1985, p. 87), deve oggi essere inteso nel senso di assoggettare ad imposizione unicamente gli effetti giuridici scaturenti dal documento presentato alla registrazione, prescindendo da qualsivoglia nexus negoziale o dall’individuazione della causa concreta, incentrata su un modello interpretativo di tipo funzionale, in grado di valorizzare lo scopo pratico perseguito dalle parti (c.d. funzione economico – individuale), quale sintesi degli interessi reali che il negozio è diretto a realizzare al di là dello schema astratto adoperato. Quanto sopra deriva da un’ulteriore considerazione, infatti, al momento della registrazione, l’Amministrazione finanziaria non dispone di elementi diversi ed ulteriori rispetto a quelli direttamente desumibili dall’atto e non è, pertanto, in grado di svolgere alcuna attività istruttoria consona a determinarne una discordante qualificazione giuridica. In tal modo, pur potendosi realizzare vantaggi fiscali indebiti, sottraendo ad imposizione l’effettiva ricchezza imponibile, siffatto modus operandi potrebbe rilevare soltanto in un momento successivo – sul piano dell’abuso del diritto – e non ai fini della qualificazione dell’atto ai sensi dell’art. 20 Tur, a cui non è possibile ascrivere alcuna funzione antielusiva (Mastroiacovo, L’attività riqualificatoria ex art. 20 TUR non può travalicare lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta inquadrabile, in Riv. dir. trib., 2017, p. 1).
Pertanto, è necessario tenere distinte le situazioni fisiologiche da quelle patologiche (in cui trovano applicazione gli strumenti antiabuso): l’evoluzione normativa mostra, in maniera inequivocabile, che gli atti da sottoporre a registrazione devono essere interpretati in chiave giuridico – sostanziale, sulla scorta dei canonici criteri interpretativi in grado di fare emergere gli effetti prodotti dalla fattispecie, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalle parti; soltanto in presenza di un collegamento negoziale “abusivo” sarà possibile avvalersi delle misure di contrasto appositamente predisposte dall’Ordinamento. Oltretutto, come anticipato, il richiamo effettuato all’art. 10-bis, L. n. 212/2000, nel corpo del testo dell’art. 53 bis Tur, consente attualmente una riqualificazione dell’operazione nel suo complesso, anche avvalendosi di atti collegati o di elementi extra – testuali, espressamente rievocati dalla norme dello Statuto dei diritti del contribuente, qualora siano configurabili ipotesi di “abuso del diritto”, vale a dire, situazioni prive di sostanza economica volte a realizzare essenzialmente indebiti vantaggi tributari, in assenza di ragioni extrafiscali non marginali, pure di ordine organizzativo o gestionale, relative a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa, previa applicazione delle prescritte garanzie procedimentali (Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, in Rass. trib., 2017, p. 299): richiesta di chiarimenti, rigoroso riparto dell’onere probatorio, motivazione specifica e rafforzata dell’atto impositivo, sospensione della riscossione frazionata. Attraverso la disposizione statutaria si confrontano i risultati, sul presupposto che gli atti siano stati ex ante correttamente interpretati.
Difatti, valorizzare la sequenza negoziale è cosa ben diversa dalla mera interpretazione dell’atto presentato alla registrazione, dovendo l’Amministrazione finanziaria dimostrare che le parti, lungi dall’essersi limitate a desiderare gli effetti tipici derivanti dai singoli atti, hanno ricercato il coordinamento tra gli stessi, in vista della realizzazione di un fine ulteriore e unitario che trascende gli effetti degli atti isolatamente considerati e assume una propria autonomia, anche sul piano causale.
In questo scenario, il difetto di sostanza economica – consistente nell’impiego abnorme della strumentazione negoziale – è espressione del carattere tortuoso del percorso prescelto, connotato da una conformazione innaturale, anomala o contorta per nulla lineare rispetto agli obiettivi che le parti hanno inteso perseguire. La sostanza economica, riguarda il profilo oggettivo della fattispecie, differisce dalle ragioni economiche dell’operazione, che attengono, invece, al profilo soggettivo.
Perciò, sono prive di sostanza economica quelle situazioni che non determinano un valore aggiunto apprezzabile rispetto a operazioni alternative che, a parità di risultato economico – giuridico, si presentano più lineari, da un lato, e fiscalmente più onerose, dall’altro.
Nel vigente sistema ordinamentale, dunque, l’art. 10-bis, L. n. 212/2000, ispirato allo schema della tassazione differenziale, assurge a clausola generale in materia di abuso del diritto, tanto in relazione agli aspetti sostanziali quanto per quelli procedimentali, applicabile in maniera indiscriminata a tutte le prestazioni tributarie, compresa l’imposta di registro (Ficari, Virtù e vizi della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10-bis della legge n. 212/2000, in Riv. trim. dir. trib., 2016, p. 313).
In tale prospettiva, il riferimento operato dall’art. 53-bis Tur, all’art. 10-bis, L. n. 212/2000, deve essere inteso come non tanto a conclamare l’applicabilità della disciplina dell’abuso del diritto anche al tributo di registro (soluzione a cui, peraltro, era possibile già in passato pervenire in via ermeneutica), quanto, piuttosto, a circoscrivere ulteriormente l’ambito applicativo dell’art. 20 Tur, definendo, in maniera chiara, il confine tra la (corretta) qualificazione del contenuto giuridico dell’atto presentato alla registrazione e il (diverso) potere di contestare le condotte abusive, alla luce del differente ambito applicativo delle due disposizioni, tenute distinte per nature, presupposti e funzione.
Nel sistema delineato dal Tur coabitano, quindi, due distinte nozioni di “atto”: una, residuale e restrittiva, rilevante in sede di registrazione, momento di applicazione fisiologica del tributo, che impone di fare riferimento, sulla base di un criterio cartolare, ai soli effetti giuridici desumibili dal medesimo, senza alcuna possibilità di avvalersi di elementi esterni o di valorizzare situazioni di collegamento negoziale, non avendo l’Amministrazione finanziaria né il potere, né la struttura organizzativa per monitorare i successivi accadimenti e ricostruire la reale volontà delle parti; l’altra, necessariamente più ampia, al cui interno, all’esito dell’attività istruttoria, condotta sulla scorta delle prescrizioni racchiuse nell’art. 10-bis, i suddetti elementi e il collegamento negoziale possono acquisire rilevanza, unitamente alla condotta tenuta dalle parti, ai fini dell’esatta qualificazione della fattispecie, in modo da far emergere i reali effetti della complessiva operazione. In questa prospettiva, l’applicazione dell’imposta di registro assurge ad “esercizio a geometria variabile” (Beghin, L’interpretazione dell’atto ai fini dell’imposta di registro: un esercizio a geometria variabile, in Corr. trib., 2020, p. 454) in ragione del momento dell’esatta qualificazione giuridica dell’atto: le regole ermeneutiche utilizzate in occasione della registrazione, in quanto adoperate in una fase iniziale del procedimento, caratterizzata da tempi risicati e dalla limitata azione da parte del Fisco, sono assai scarne e circoscrivono l’attività interpretativa al mero profilo oggettivo e cartolare, vale a dire, a ciò che emerge dal contenuto dell’atto, in modo da valorizzarne gli obiettivi effetti negoziali, seppur non corrispondenti al titolo o alla forma apparente, senza alcuna possibilità di dare spazi a interpretazioni di natura economica o sostanzialistica, incentrate sulla causa in concreto e spesso caratterizzate dalla concatenazione di atti o dal principio di prevalenza della sostanza sulla forma.
4. Le conclusioni raggiunte dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza qui annotata sono pienamente condivisibili e si pongono in continuità con la (ormai) radicata giurisprudenza di legittimità.
Appare ictu oculis la discrasia rispetto alle regole civilistiche d’interpretazione del contratto, che attribuiscono rilievo anche ad elementi ulteriori (quali, ad esempio, la comune intenzione delle parti) e a collegamenti negoziali preordinati al perseguimento di un interesse economico unitario, che, in quanto tale, risulta difficilmente riconducibile agli effetti giuridici che i singoli atti, atomisticamente considerati, sono in grado di produrre. È lampante, dunque, una divergenza qualificatoria: una valida in sede civile e tra le parti, in cui potrebbero assumere rilevanza anche elementi extra – testuali; l’altra utilizzabile sul piano impositivo, incentrata esclusivamente sull’atto presentato alla registrazione, vale a dire, sui dati risultanti dal documento in cui il medesimo è incorporato. Trattandosi di un’imposta istantanea, è necessario fotografare l’atto nel momento in cui il medesimo viene sottoposto a registrazione. Nella successiva fase istruttoria e in quella di formazione del provvedimento impositivo, invece, coordinando l’art. 20 con il successivo 53-bis del Tur, la regola subisce un’evidente dilatazione, legittimando l’Amministrazione finanziaria a ragionare su fatti e a focalizzare l’attenzione sull’operazione posta in essere, in modo da delineare le condotte delle parti e ricavarne indicazioni relative ai reali effetti prodotti dall’atto ovvero al conseguimento di vantaggi tributari indebiti.
Ciononostante, è opportuno rammentare che laddove il contribuente si sia limitato ad operare una scelta tra differenti tipi negoziali ai quali il legislatore ricollega un diverso onere fiscale, non si ritiene consentito, neanche sotto tale profilo dell’abuso del diritto, contestare il ricorso ad uno strumento negoziale in luogo di un altro, trattandosi di una facoltà espressamente riconosciuta dall’art. 10-bis, co. 4 della L. n. 212/2000, in quanto espressione del principio del legittimo risparmio d’imposta.