Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

25/05/2023 - Il regime italiano delle locazioni brevi alla luce del diritto dell'Unione Europea: la Corte di Giustizia torna sul caso airbnb

argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, dopo il noto caso belga, torna nuovamente ad affrontare le problematiche poste dalle imprese allocate in altri Paesi Membri che gestiscono piattaforme digitali di intermediazione immobiliare per locazioni brevi, verificando se gli obblighi imposti dalla normativa italiana (raccolta e trasmissione di dati, effettuazione di ritenuta alla fonte e nomina di un rappresentante fiscale) siano compatibili con il principio di libera prestazione dei servizi. I Giudici europei riconoscono l’assenza di effetti restrittivi in capo alle prime due misure, che hanno carattere generale ed un ambito applicativo privo di distinzioni, mentre censurano la terza, reputata non proporzionata alle finalità di interesse generale da perseguire.

» visualizza: il documento (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 22 dicembre 2022 – causa C-83/21) scarica file

PAROLE CHIAVE: economia digitale - libera prestazione dei servizi - locazioni brevi


di Lorenzo Pennesi

1. Nell’ultimo decennio si è registrato un aumento esponenziale di piattaforme digitali che offrono in rete servizi afferenti ai più disparati settori commerciali e che hanno reso del tutto irrilevante la collocazione geografica dei prestatori e degli utenti, tanto da condurre le istituzioni dell’Unione Europea a coniare la definizione di “mercato unico digitale” (in questi termini, Commissione dell’Unione Europea, Strategia per il mercato unico digitale in Europa, COM/2015/0192/final; si vedano, anche, ZOLL, The rise of the Platform Economy: a new challenge for EU Cosumer Law?, in Journal of European Consumer and Market Law, 2016, 3 ss.; HADZHIEVA, Impact of Digitalisation on International Tax Matters: Challenges and Remedies, 2019).

Nell’ambito di tale nuovo “mercato unico”, un’importante nicchia è occupata dalle piattaforme che gestiscono locazioni immobiliari di breve durata - tra le quali, la più nota, è Airbnb - aventi l’obiettivo di porre in contatto, in tempo reale, domanda ed offerta secondo la logica del prezzo più competitivo, così da imporsi in un settore che, in passato, era esclusivo monopolio dalle imprese di intermediazione immobiliare.

Tali piattaforme sono divenute oggetto, in numerosi Paesi Membri dell’Unione Europea, di normative rigorose, volte a regolamentarne i profili civilistici, amministrativi e tributari, rispetto alle quali la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è stata chiamata, ripetutamente, a valutarne la compatibilità con i principi del diritto unionale e, in specie, con il principio di libera circolazione dei servizi di cui all’art. 56 TFUE (si vedano CGUE, 20 dicembre 2017, Asociaciòn Profesional Elite Taxi, C-434/15; CGUE, 19 dicembre 2019, Airbnb Ireland, C-390/18).

2. Il caso più recente, e noto, è rappresentato dalla sentenza 27 aprile 2022, causa C-674/20 (Airbnb – Belgio), a mezzo della quale la Corte di Giustizia si è pronunciata, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulla legittimità della normativa belga che ha imposto alle piattaforme di intermediazione immobiliare di trasmettere dati ed informazioni relative agli operatori registrati nella piattaforma, oltre al numero di pernottamenti e unità abitative gestite, al fine di verificare il corretto assolvimento dell’imposta regionale sugli esercizi ricettivi turistici, riconoscendone la piena conformità alle Direttive nn. 2015/1535 e 2000/31/CE in tema di prestazione di servizi, nonché all’art. 56 TFUE (per un commento si vedano PENNESI, La libera prestazione dei servizi nell'Unione Europea e l'obbligo di trasmissione dei dati all'amministrazione finanziaria nazionale da parte degli intermediari di piattaforme online: il caso Airbnb, in questa Rivista, 2023; FARELLA, Causa Airbnb: gli obblighi informativi fiscali per le piattaforme digitali non limitano la libera prestazione di servizi, in prat. trib. int., 2022, 1652 ss.).

Nella cornice della pronuncia, invero, i Giudici europei hanno dapprima precisato che tale normativa non rientra nell’ambito applicativo della Direttiva 2000/31/CE (Direttiva sul commercio elettronico), avendo natura marcatamente tributaria, e, a seguire, che la posizione di mercato rivestita dagli intermediari che operano mediante piattaforme digitali, come Airbnb, li pone nella fisiologica condizione di fungere da collettori di informazioni rilevanti per il Fisco, di modo che eventuali rapporti di collaborazione con l’Amministrazione finanziaria non possono configurare una indebita restrizione alla prestazione dei servizi nell’Unione ma una conseguenza diretta del gioco concorrenziale.

Le lucide argomentazioni esposte nella pronuncia fungono, pertanto, da autorevole precedente ed hanno esercitato una influenza notevole nella soluzione dell’analogo caso che qui ci occupa, avente ad oggetto la compatibilità della disciplina italiana sulle locazioni brevi (art. 4 del D.l. 24 aprile 2017, n. 50) con i medesimi principi e norme dell’acquis comunitario.

In specie, la citata disciplina prevede per gli intermediari del settore tre oneri principali: (i) l’obbligo di trasmettere all’Amministrazione finanziaria italiana dati inerenti ai contratti di locazione conclusi mediante la piattaforma in loro gestione, (ii) l’obbligo di operare una ritenuta alla fonte quali sostituti d’imposta, anche riscuotendo la c.d. cedolare secca, nonché (iii) l’onere di designare un rappresentante fiscale residente o stabilito nel territorio dello Stato ove essi siano residenti ovvero stabiliti nel territorio di altro Stato Membro (per un approfondimento sulla disciplina, si vedano LOVECCHIO, Ambito di applicazione più ampio per le locazioni brevi, in Corr. Trib., 2017, 2289 ss.; BERETTA, Il regime fiscale delle locazioni brevi, in Dir. prat. trib., 2018, 1019 ss.).

La questione pregiudiziale di cui è stata investita la Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE concerne, per l’effetto, proprio la compatibilità di tali previsioni normative con il principio di cui all’art. 56 TFUE che, per le imposte non armonizzate, si declina in un generale divieto all’introduzione di discipline che possano dissuadere gli operatori economici a stabilirsi in un dato Paese Membro ovvero gli utenti a fruire di taluni servizi offerti, in ragione di incombenti eccessivamente pregiudizievoli od onerosi imposti dalla legislazione domestica (nella giurisprudenza europea, ex multis, CGUE, 18 dicembre 2007, Jundt, C-281/06; in dottrina BORIA, Taxation in European Union, Berlino, 2017, 97 ss.; PISTONE, Diritto tributario europeo, Torino, 2020).

3. Alla luce di quanto precede, la Corte si sofferma in via preliminare sulla applicabilità delle Direttive nn. 2015/1535, 2006/123 e 2000/31/CE al caso di specie atteso che esse sono ostative alla introduzione di norme che rendano più difficoltosa la libera circolazione dei servizi nel mercato dell’Unione Europea, con l’espressa eccezione, conformemente al disposto dell’art. 114 TFUE, delle norme appartenenti al “settore tributario”, in relazione al quale gli Stati Membri conservano ampi spazi di autonomia (si veda LA SCALA, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla costituzione dell’Unione Europea, Milano, 2005).

In linea con il precedente belga e con le considerazioni espresse dall’Avvocato Generale Maciej Szpunar in data 07 luglio 2022, i Giudici europei escludono tuttavia – in maniera tranchant - l’applicabilità delle predette Direttive giacché gli oneri introdotti in capo agli intermediari dalla disciplina italiana delle locazioni brevi del 2017 sono evidentemente riconducibili alla “sfera fiscale”, essendo preordinati ad agevolare la riscossione di entrate tributarie ed a coadiuvare l’Amministrazione finanziaria nella raccolta di dati rilevanti a fini di controllo ed accertamento.

Più in particolare, tali oneri si inseriscono in un più ampio quadro di attuazione della norma tributaria sostanziale, di modo che l’esclusione di quest’ultima dall’ambito applicativo delle Direttive non può che riverberarsi anche sulle disposizioni che ad essa sono strettamente ancillari.

Trattasi di una conclusione del tutto condivisibile, da cui residua la necessità di prestare attenzione alla sola latitudine applicativa dell’art. 56 TFUE rispetto agli obblighi imposti dalla normativa italiana.

4. In questa prospettiva, il primo aspetto che viene esaminato dalla Corte di Giustizia concerne l’onere per gli intermediari digitali di provvedere alla raccolta ed alla successiva trasmissione al Fisco italiano delle informazioni relative ai contratti stipulati per loro tramite.

Secondo i Giudici europei tale onere deve essere apprezzato secondo una duplice prospettiva.

Innanzitutto, in ragione della chiara formulazione letterale dell’art. 4 del D.l. 24 aprile 2017, n. 50, esso ha portata evidentemente generale atteso che colpisce tutti gli intermediari, indipendentemente dalla loro collocazione geografica e senza compiere alcuna distinzione in ragione del tipo di servizio di locazione immobiliare che viene offerto; ne discende, quale corollario, che se esso incide maggiormente su taluni operatori in luogo di altri, come avviene nel caso di Airbnb, ciò è esclusivamente dovuto al maggior numero di transazioni che si registrano sui rispettivi portali digitali che essi hanno in gestione.

In sostanza, come già affermato dalla Corte nel recente precedente belga che ha affrontato una identica fattispecie, la maggiore intensità dell’onere informativo in capo all’intermediario che gestisce più transazioni commerciali, lungi dal determinare una indebita restrizione del principio di libera prestazione dei servizi, è, al contrario, diretta conseguenza dell’elevato grado di efficienza e competitività che connota oggi il mercato unico europeo, il quale ha permesso a tale impresa intermediaria di collocarsi in una posizione di supremazia rispetto ai propri competitors, così confermando l’ottima salute di cui gode il libero gioco concorrenziale (sul ruolo della concorrenza, si vedano le riflessioni sempre attuali di CARTABIA, Principi inviolabili ed integrazione europea, Milano, 1995).

Peraltro, gli intermediari che soggiacciono a tale obbligo non sono chiamati al sostenimento di alcun costo aggiuntivo, se non in misura del tutto marginale, atteso che l’acquisizione e conservazione di dati sensibili è un’attività automatica e profondamente radicata nelle imprese che operano nel mercato digitale (la rilevanza fiscale dei dati raccolti online, peraltro, è un tema rilevantissimo del moderno diritto tributario; diffusamente su questo ambito, AA.VV., Diritto tributario digitale, a cura di L. Del Federico, F. Paparella, Pisa, 2023).

L’art. 56 TFUE, pertanto, non può dirsi violato da una norma nazionale che abbia portata generale e che si riveli inidonea a rendere più difficoltosa la prestazione di servizi in seno all’Unione, limitandosi ad incidere in maniera maggiore, secondo un andamento proporzionale, sui soli operatori economici che abbiano raggiunto una maggiore penetrazione di mercato (in senso analogo anche CGUE, 08 maggio 2014, Pelckmans Turhout, C-483/12; CGUE, 22 novembre 2018, Voralberger Landes Und Hypothekenbank, C-625/17).

5. Il secondo profilo, oggetto di esame da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, concerne un tema non affrontato nell’analogo precedente belga, ossia la compatibilità con il principio di libera prestazione dei servizi degli obblighi di ritenuta che vengono imposti agli intermediari sui compensi percepiti dai propri clienti.

Invero, l’intermediario Airbnb, alla stregua delle piattaforme analoghe, è chiamato dalla normativa italiana ad agire quale sostituto d’imposta, operando una ritenuta alla fonte sulle somme che transitano attraverso la piattaforma e che rappresentano il corrispettivo dovuto dai conduttori ai locatori, dovendole poi versare, anche in forma di cedolare secca, all’Erario.

Tale onere potrebbe, secondo le riflessioni esposte dal predetto intermediario nelle memorie presentate alla Corte, apparire discriminatorio poiché gli intermediari che detengono piattaforme e che si occupano di gestire i pagamenti sono abitualmente allocati all’estero, mentre i pochi intermediari residenti non intervengono sul lato economico della transazione e, per l’effetto, si troverebbero a non dover effettuare alcuna ritenuta (sul tema della discriminazione si veda BIZIOLI, Il principio di non discriminazione, in AA. VV., I principi europei del diritto tributario, Padova, 2013, 191 ss.).

Trattasi di una circostanza di carattere prettamente fattuale che, se tradotta in fattispecie concreta, potrebbe in effetti tradursi in una forma di discriminazione indiretta, inammissibile ai sensi dell’art. 56 TFUE.

Senonché, come si desume dal silenzio della Corte su questa argomentazione, l’obbligo di ritenuta fiscale, per come congegnato dal legislatore italiano nella norma di legge esaminata, ha una portata marcatamente generale poiché colpisce tutti gli intermediari, residenti e non residenti, senza introdurre distinzione alcuna.

Il trattamento che ne consegue è, quindi, improntato ad una massima equità atteso che non altera l’ordinaria dinamica di mercato e che, in ragione della sua generalità, pone sullo stesso piano sia gli intermediari allocati in Italia che i competitors siti in altri Paesi Membri, conformemente al principio di libera prestazione dei servizi (CGUE, 03 marzo 2020, Google, C-482/18 con commento di ALBANO, La compatibilità europea degli ordinamenti sanzionatori nazionali alla luce del principio di proporzionalità: profili sistematici, in Rivista Telematica di Diritto tributario, 2020).

L’obbligo di ritenuta alla fonte disposto dall’art. 4 del D.l. 24 aprile 2017, n. 50, è quindi privo di contenuto discriminatorio poiché si impone, in misura identica, a tutti gli operatori economici che scelgono di intervenire nel settore delle locazioni brevi con funzione di intermediazione, e sfugge così a qualsivoglia forma di censura dal punto di vista del diritto dell’Unione Europea.

6. Preme evidenziare, a fini di completezza, che i Giudici del Lussemburgo non compiono invece alcun cenno in relazione ad una ulteriore argomentazione spendibile su questo tema, che era stata ampiamente valorizzata ed illustrata nelle conclusioni dell’Avvocato Generale. Quest’ultimo, invero, aveva specificato come, nel diritto europeo, una eventuale restrizione alla libera circolazione dei servizi, anche ove fosse ravvisabile nella normativa in questione, potrebbe comunque risultare compatibile con i principi declinati dall’art. 56 TFUE se correlata ad una causa di giustificazione.

Come noto, applicando la c.d. rule of reason di matrice comunitaria, in un settore non oggetto di diretta armonizzazione qual è quello delle imposte dirette, la Corte di Giustizia ha infatti a più riprese statuito che è possibile introdurre una norma avente effetti restrittivi su di una delle libertà fondamentali, purché essa sia indistintamente applicata a qualsiasi soggetto, sia proporzionata e sia necessaria per il perseguimento di interessi aventi carattere generale (di recente, si veda ad esempio la nota sentenza CGUE, 30 gennaio 2020, Anton van Zantbeek, C-725/18; HINNECKENS, European Court Goes for Robust Tax Principles, for Treaty Freedoms. What About Reasonable Exceptions and Balances?, in EC Tax Review, 2004, 67 ss.).

Con specifico riferimento alla materia fiscale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha così reputato che l’efficacia dei controlli fiscali e l’effettività della riscossione tributaria, volti al contrasto dell’evasione, siano motivi di interesse generale, idonei a giustificare una eventuale restrizione di una delle libertà fondamentali (si veda, ex multis, CGUE, 25 luglio 2018, TTL, C-553/16).

In questa prospettiva, come correttamente sostenuto dall’Avvocato Generale, la disciplina italiana in tema di locazioni brevi risulterebbe, in ogni caso, legittima e non meritevole di censura ai sensi del diritto dell’Unione Europea atteso che le modalità con le quali si esplicano le transazioni sulle piattaforme digitali gestite da Airbnb e operatori affini sono i) numerose, ii) coinvolgono abitualmente soggetti non professionisti e  iii) hanno modesta entità, così apparendo difficilmente controllabili, con evidenti riflessi negativi in termini di evasione tributaria, se non attraverso il diretto coinvolgimento delle piattaforme medesime.

Trattasi di una soluzione che appare proporzionata al perseguimento dell’obiettivo di interesse generale, anche tenendo conto del minimo impatto che tale onere ha sui gestori delle piattaforme, in una prospettiva di materiale attuazione, rispetto alle modalità con le quali esse operano nella fase di intermediazione tra locatore e conduttore (si ricorda, invero, che la restrizione delle libertà fondamentali richiede che la misura nazionale sia proporzionale agli obiettivi da perseguire; vedasi PETRILLO, L'osservanza del principio di proporzionalità UE nell'individuazione di criteri presuntivi 'ragionevoli', in Riv. trim. dir. trib., 2013, 373 ss.).

Nel caso di specie, tuttavia, la Corte di Giustizia omette di affrontare questo importante aspetto, tanto da non sviluppare il punto nemmeno in un obiter dictum, preferendo dichiarare, immediatamente, la piena compatibilità dell’obbligo di ritenuta con l’art. 56 TFUE in ragione della sua portata generale ed onnicomprensiva.

7. Infine, la Corte si sofferma sull’ultimo incombente imposto dalla disciplina italiana, che coinvolge gli intermediari non residenti o privi di stabile organizzazione che operano nel settore delle locazioni brevi, il quale consiste nell’obbligo di provvedere alla nomina di un rappresentante fiscale, così da rendere più agevole l’assolvimento degli oneri che si sono dinanzi descritti.

Sul punto, seguendo una traiettoria di massima coerenza logica, i Giudici europei rilevano che tale onere difetta di applicazione generale ed indistinta – come avveniva invece per gli altri due incombenti - giacché traccia una precisa distinzione tra operatori residenti o dotati di stabile organizzazione italiana, ai quali l’onere in esame non compete, ed i restanti soggetti esteri, che invece sono chiamati a rispettarlo.

Invero, in alcune precedenti pronunce, l’obbligo di nominare un rappresentante fiscale in capo ai prestatori di servizi transfrontalieri era già stato reputato non conforme al principio di libera prestazione dei servizi poiché idoneo ad introdurre un ostacolo, di carattere economico ed organizzativo, all’accesso al mercato (così CGUE, 11 dicembre 2014, Commissione/Spagna, C-576/13; CGUE, 05 luglio 2007, Commissione/Belgio, C-522/04).

Nello specifico, secondo la Corte, l’obbligo in questione introduce un palese ostacolo al libero accesso al mercato dei servizi da parte di operatori economici esteri atteso che essi devono dapprima individuare un rappresentate fiscale e coordinare le proprie attività con esso, sostenendone i relativi costi, mentre gli analoghi operatori domestici non devono in alcun modo provvedervi.

Ciò potrebbe dissuadere tali soggetti esteri, evidentemente, dall’operare nel mercato italiano delle locazioni brevi, ponendosi così in una posizione di conflitto con il dettato dell’art. 56 TFUE.

Appurato questo aspetto, i Giudici europei decidono pertanto di spostare il piano di esame ad un livello superiore e quindi di valutare se, in relazione al citato onere, possano eventualmente ricorrere delle giustificazioni oggettive e razionali rispetto ai fini di interesse generale perseguiti, nonché se esso possa apparire proporzionato rispetto a tali fini, in adesione alla logica della c.d. rule of reason di cui sopra (analogamente, si veda CGUE, 27 gennaio 2022, Commissione/Spagna, C-788/19 con commento di MARINELLO, Obblighi di monitoraggio fiscale, proporzionalità delle sanzioni e libertà fondamentali, in Riv. dir. trib., 2022, 142 ss.).

In prospettiva, la Corte rileva dapprima che la nomina di un rappresentante fiscale può dirsi certamente correlata al perseguimento di fini meritevoli di tutela nell’ordinamento europeo atteso che la funzione precipua attribuita a tale soggetto è di assicurare che gli intermediari digitali, come Airbnb, attuino il prelievo alla fonte e lo versino con tempestività all’Erario. Ciò si pone in perfetta adesione con l’esigenza imperativa di tutelare l’efficienza dei controlli tributari ed il contrasto all’evasione, da sempre reputati interessi nazionali primari, che, come detto, possono giustificare una limitazione alla libera circolazione dei servizi (si richiamando, ulteriormente, anche le pronunce CGUE, 11 giugno 2009, X e Passenheim-van Schoot, cause riunite C155/08 e C157/08, punti 45 e 46; CGUE, 15 settembre 2011, Halley, causa C132/10).

8. Il profilo maggiormente problematico, secondo la Corte, attiene invece al tema della proporzionalità, rispetto al quale appare difficile riconoscere tale onere come imprescindibile e necessitato.

In specie, in ragione di un collegamento teleologico che viene ad instaurarsi con gli altri due obblighi fissati dalla normativa italiana, ossia l’onere di trasmettere al Fisco le informazioni riguardanti le transazioni e gli utenti intervenuti in piattaforma e l’onere di effettuare la ritenuta alla fonte, viene meno il carattere di proporzionalità di questa terza imposizione atteso che lo Stato italiano dispone già di sufficienti strumenti per monitorare la regolarità degli adempimenti fiscali dei soggetti coinvolti e, eventualmente, per esercitare la propria potestà di accertamento.

Ciò si traduce in una sproporzione dell’obbligo di dotazione di rappresentante fiscale imposto alle sole imprese non residenti e prive di stabile organizzazione, le quali non solo dovrebbero soggiacere a tale incombente e ai costi che esso comporta, ma dovrebbero farlo anche se l’Amministrazione finanziaria non ne consegue alcun reale vantaggio o utilità (è infatti pacifico che la proporzionalità ricorra solo ove vi sia un sacrificio razionale e fondato degli interessi confliggenti; in questo senso EMILIOU, The principle of proportionality in European Law. A comparative study, Londra, 1996, 23 ss.; MONDINI, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’IVA europea, Pisa, 2012, 40 ss.).

Ne consegue che l’art. 56 TFUE e il principio di libera circolazione dei servizi ne risulta compresso giacché si attua una discriminazione fondata sulla residenza del gestore della piattaforma che non trova alcuna razionale ed oggettiva giustificazione secondo i canoni di proporzionalità fissati dalla Corte.

Peraltro, ed è questo un passaggio nodale nelle argomentazioni della sentenza, anche a voler ritenere che la presenza di un rappresentante fiscale dell’operatore non residente e privo di stabile organizzazione dipenda dalla maggiore difficoltà dell’Amministrazione finanziaria italiana a controllare soggetti allocati in un altro Paese Membro, ciò non è in ogni caso sufficiente a rendere la misura proporzionale atteso che eventuali difficoltà amministrative non possono mai assurgere a valida causa giustificativa per limitare una libertà fondamentale garantita dai Trattati (invero, quest’ultimo è un aspetto già esaminato dalla Corte con la nota sentenza CGUE 11 dicembre 2014, Commissione/Spagna, C-678/11).

Il terzo obbligo imposto dalla disciplina italiana in tema di locazioni brevi appare quindi confliggente con il contenuto dell’art. 56 TFUE poiché introduce una forma di discriminazione sulla base della mera allocazione territoriale in Paesi Membri diversi dall’Italia, che non appare sorretta da alcuna solida giustificazione di ordine procedurale e sostanziale.

9. La sentenza in commento, alla stregua dell’analogo caso belga, appartiene ad un recente - ma nutrito - gruppo di pronunce dedite ad affrontare le prime problematiche poste dal “mercato unico digitale” che, con certezza, diverrà oggetto di costante dibattitto presso le Istituzioni Europee nei decenni a venire (l’attualità di questo tema, nel prossimo futuro, è infatti ben messa in risalto da MONTALDO, Internet governance and the European Union: between net neutrality and the implemantation of the digital single market, in economia, 2015, 601 ss.).

I Giudici del Lussemburgo, nel caso in esame, hanno deciso di affrontare una tematica di massima attualità facendo leva sull’autorevolezza di numerosi precedenti, attraverso argomentazioni che appaiono condivisibili, al netto di un’unica eccezione di cui si dirà, poiché perfettamente aderenti ai principi e alle regole che governano l’acquis comunitario.

In particolare, la disciplina fiscale italiana per i redditi derivanti dalle locazioni brevi non può che apparire conforme al principio di libera circolazione dei servizi di cui all’art. 56 TFUE, in relazione tanto all’obbligo di trasmettere dati sensibili all’Amministrazione finanziaria, che al conseguente onere di operare una ritenuta alla fonte, giacché si connota per una formulazione generale ed onnicomprensiva, che non opera distinzione alcuna tra operatori economici e che risulta, in ogni caso, proporzionata e funzionale a perseguire un obiettivo di efficienza nella riscossione dei tributi nel contrasto all’evasione.

Talune riserve possono invece muoversi alla diversa valutazione compiuta dalla Corta circa il terzo obbligo imposto dal più volte citato art. 4 del D.l. 24 aprile 2017, n. 50, che impone la nomina di un rappresentante fiscale per le imprese allocate in un diverso Paese Membro e prive di stabile organizzazione.

Invero, con riferimento a questo aspetto, non può sottacersi che le argomentazioni spese nella sentenza appaiono non convincenti poiché inidonee a dimostrare l’assenza di proporzionalità della norma italiana, restrittiva di una libertà fondamentale.

Si ritiene infatti che, per le piattaforme che operano nel settore delle locazioni brevi, connotate da un elevato volume di affari e da strutture operative snelle e dematerializzate, la nomina di un rappresentante fiscale risulta essere un incombente del tutto marginale, se non addirittura irrisorio, e di certo non in grado di scoraggiare l’ingresso in un mercato, allo stato attuale, altamente remunerativo.

Peraltro, atteso l’elevato grado di evasione fiscale che connota questo settore e che è acuito proprio dall’intervento di operatori economici allocati all’estero, sovente privi di base fisica, e in quanto tali più difficilmente raggiungibili dall’Amministrazione finanziaria, la presenza di un rappresentante fiscale appare una garanzia di rilievo, idonea a semplificare la procedura di riscossione a beneficio dell’intera collettività.

Segnatamente, la natura dematerializzata delle transazioni che avvengono sulle piattaforme di locazione immobiliare, come Airbnb, e la fisiologica difficoltà a monitorare la materia imponibile che viene ivi generata rendono giustificabile l’adozione di maggiori cautele da parte del legislatore nazionale.

Preme evidenziare che i precedenti richiamati dalla Corte a sostegno della propria decisione (si vedano, nuovamente, CGUE, 11 dicembre 2014, Commissione/Spagna, C-576/13; CGUE 11 dicembre 2014, Commissione/Spagna, C-678/11) appaiono non applicabili, in via automatica, al caso di specie giacché la natura “digitale” delle problematiche che esso reca, del tutto assente nelle fattispecie oggetto di questi precedenti, avrebbe imposto l’adozione di un nuovo e più ponderato metro di valutazione.

10. In definitiva, la sentenza annotata, seppur condivisibile nei contenuti e per il rigore delle argomentazioni adottate, sembra palesare, perlomeno nelle conclusioni, una difficoltà ad affrontare talune problematiche poste dal “mercato unico digitale” secondo parametri nuovi e più moderni.

L’auspicio che ne segue è che i Giudici Europei diano vita, nel prossimo futuro, ad una intensa produzione giurisprudenziale che affronti il fenomeno delle digital economy e delle innumerevoli problematiche annesse mediante un sapiente approccio evolutivo, di certo non nuovo alla Corte, che conduca ad affinare l’applicazione dei principi e degli strumenti normativi a disposizione, rifuggendo da un approccio sclerotizzato su precedenti risalenti nel tempo o, comunque, non confacenti ai nuovi  modelli di mercato, ontologicamente distanti dagli stilemi dell’economia tradizionale (lo evidenzia, anche, INGLESE, L'economia collaborativa tra la giurisprudenza della Corte di giustizia e le prime proposte di armonizzazione: verso il Digital Market Act e il Digital Services Act, in Il diritto dell’Unione Europea, 2020, 843 ss.). La direzione che la giurisprudenza europea dovrebbe imboccare è di addivenire ad una interpretazione del diritto digitalmente orientata e, per l’effetto, aderente alle nuove realtà economiche.