Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

05/05/2023 - L'imposta comunale sugli immobili coniugali a seguito della sentenza n. 209 del 2022: il difficile slalom tra i concetti di "abitazione principale", "residenza anagrafica", "dimora abituale" e "residenza familiare"

argomento: IRAP e tributi locali - Giurisprudenza

Con la sentenza 13 ottobre 2022, n. 209, la Corte Costituzionale ha riscritto la nozione di “abitazione principale”, nella particolare ipotesi di due coniugi, non legalmente separati, che abitano in abitazioni diverse, identificandola come il luogo in cui ciascun coniuge possessore del bene ha la residenza anagrafica e la dimora abituale, a nulla rilevando il luogo di residenza e dimora degli altri membri della famiglia.  Pertanto, nell’ipotesi di coniugi dimoranti in due abitazioni diverse, l’esenzione riguarderà entrambi gli immobili – non importa se siti nello stesso od in diverso comune –, a condizione che sia dimostrato che ognuno di essi soddisfi il duplice requisito della residenza anagrafica e dimora abituale di ciascuno dei coniugi stessi. L’articolo ricostruisce il contesto in cui la Corte è intervenuta ed individua le future problematiche applicative.

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PAROLE CHIAVE: IMU - esenzione - abitazione principale - coniugi - abitazioni diverse


di Nicola Durante

1. La sentenza della Corte costituzionale 13 ottobre 2022, n. 209 ha profondamente inciso sulla disciplina dell’esenzione IMU prevista la “abitazione principale” non classificata nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, per tale intendendosi, secondo il dettato normativo, l’unità immobiliare ad uso abitativo che gode del requisito congiunto di costituire la “residenza anagrafica” e la “dimora abituale” del possessore e dei componenti del suo nucleo familiare. Nell’ipotesi di coniugi non legalmente separati che abitino in abitazioni diverse, ben prima dell’intervento della Corte, la giurisprudenza tributaria, in ossequio al principio di stretta interpretazione delle norme fiscali di favore, aveva enucleato due distinte fattispecie:

- quella dei coniugi che dimorano in due immobili dello stesso comune, laddove l’esenzione dall’IMU spetta per la “abitazione principale”, ossia quella in cui risiede anagraficamente il nucleo familiare;

- quella dei coniugi che dimorano in comuni diversi, laddove nessuna delle due abitazioni può considerarsi “residenza anagrafica” del possessore e del suo nucleo familiare, con conseguente tassazione di entrambe (Cass. n. 1199/2022, n. 4170/2020, n. 416/2020).

Isolata era rimasta la tesi che riconosceva la natura di “abitazione principale” all’immobile familiare dove uno dei coniugi non dimora per dimostrate esigenze, ad esempio di tipo professionali (Cass. n. 17408/2021). Senonché, con l’art. 5-decies del decreto-legge n. 146 del 2021, convertito dalla legge n. 175 del 2021, il legislatore aveva equiparato le predette ipotesi, attraverso una disposizione non interpretativa, in base alla quale, nel caso di residenze separate dei coniugi in comuni diversi, per “abitazione principale” deve intendersi quella da essi individuata come residenza anagrafica e dimora abituale del possessore e del nucleo familiare. In tal modo, l’esenzione veniva a dipendere da un atto volontaristico di individuazione ed utilizzo di uno dei due immobili come abitazione principale del possessore e del nucleo familiare.

2. Con la sentenza additiva n. 209 del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’intera normativa sopra descritta ed in particolare:

1)    dell’art. 13, comma 2, quarto periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lett. b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», nella parte in cui stabilisce: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»;

2)    dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della legge n. 147 del 2013;

3)    dell’art. 1, comma 741, lett. b), primo periodo, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), nella parte in cui stabilisce: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente»;

4)    dell’art. 1, comma 741, lett. b), secondo periodo, della legge n. 160 del 2019;

5)    dell’art. 1, comma 741, lett. b), secondo periodo, della legge n. 160 del 2019, come successivamente modificato dall’art. 5-decies, comma 1, del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2021, n. 215.

Ciò in quanto dette norme si pongono in contrasto con gli artt. 3, 31 e 53 Cost., se non altro perché il riferimento al nucleo familiare penalizza, in maniera discriminatoria ed ingiustificata, coloro che si uniscono in matrimonio od in unione civile, che possono godere di una sola esenzione, rispetto alle persone singole ed alle coppie di fatto, che godono invece di un’esenzione doppia. Così facendo, la Corte Costituzionale ha sostanzialmente riscritto la nozione di “abitazione principale”, ora da intendersi come il luogo in cui il possessore del bene ha la residenza anagrafica e la dimora abituale, a nulla rilevando il luogo di residenza e dimora degli altri membri della famiglia. Pertanto, all’esito della pronuncia, nell’ipotesi di coniugi dimoranti in abitazioni diverse, l’esenzione può ben riguardare entrambi gli immobili – non importa se siti nello stesso od in diverso comune –, a condizione che sia dimostrato che ognuno di essi soddisfi il duplice requisito della residenza anagrafica e dimora abituale di ciascuno dei coniugi.

3. Se questo è lo scenario futuro, salvo possibili prossime modifiche legislative, essendo evidente che il nuovo assetto determinerà non pochi problemi finanziari per le già esigue casse comunali, nondimeno, la decisione della Corte ci impone di riflettere anche sulle problematiche riguardanti le fattispecie già in essere.

Un primo problema si pone in tema di ICI, dove l’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992, come modificato dall’art. 1, comma 173, lett. b), della legge n. 296 del 2006, prevede, con decorrenza dal 1° gennaio 2007, una detrazione (non un’esenzione) in favore della “abitazione principale”, per tale intendendosi “quella nella quale il contribuente … e i suoi familiari dimorano abitualmente”, senza alcun richiamo al requisito della “residenza anagrafica”, come accade per l’IMU. Ne discende che, secondo la giurisprudenza, il presupposto per l’agevolazione ICI è costituito dalla mera “residenza familiare”, concetto ricavabile dall’art. 144, comma 1, cod. civ., che può riguardare anche un immobile diverso da quello di “residenza anagrafica” (Cass. n. 5314/2019; n. 10167/2018; n. 15444/2017). Lo stesso, del resto, si verifica per i benefici fiscali previsti sull’acquisto della prima casa, laddove il requisito della residenza è riferito alla famiglia, cosicché, se l’immobile acquistato è adibito a destinazione familiare, a nulla rileva la diversa residenza di uno dei due coniugi che abbiano acquistato in regime di comunione, essendo essi tenuti non ad una comune sede anagrafica, ma alla coabitazione (Cass.  n. 16001/2021; n. 13335/2016; n. 25889/2015).

La “residenza familiare” coincide quindi con la casa coniugale, laddove si presume insistere la residenza di tutti i componenti della famiglia, fatta salva la prova contraria che lo spostamento della dimora abituale di un coniuge dipenda da una frattura, anche di fatto, del rapporto di convivenza, cosa che, comportando la disgregazione del nucleo familiare e l’inconfigurabilità di una casa coniugale, concentrerebbe il diritto al beneficio in favore dell’abitazione in cui convive il residuo nucleo familiare (Cass. n. 15439/2019).

Questa situazione è venuta meno con l’IMU e con l’introduzione delle norme poi dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, le quali, come esposto, hanno trasformato la detrazione in esenzione e ne hanno fissato il presupposto nell’adibizione dell’immobile a “residenza anagrafica” ed insieme a “dimora abituale” del possessore e del suo nucleo familiare.

In siffatto contesto, con ordinanza n. 5870 del 27 febbraio 2023, la Corte di cassazione, Sezione V civile, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale rimessione alle Sezioni unite per stabilire se, a seguito della sentenza n. 209 del 2022, sia giuridicamente corretta e costituzionalmente orientata l’interpretazione dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992, come modificato dall’art. 1, comma 173, lett. b), della legge n. 296 del 2006, nel senso che l’agevolazione in materia di ICI per l’abitazione principale vada riconosciuta anche nel caso di “abitazione principale” nella quale il possessore dimori abitualmente senza i familiari per giustificati motivi. In tale evenienza, dovrà invero accertarsi se l’immobile costituisca “abitazione principale”, ai fini della detrazione.

4. Un altro problema che la sentenza della Corte costituzionale pone riguarda l’eventuale diritto del contribuente al rimborso del tributo indebitamente versato per gli anni precedenti. A tal proposito, va ricordato che l’efficacia delle sentenze di illegittimità costituzionale incontra il limite dei cosiddetti “diritti quesiti”, ossia delle posizioni giuridiche definite con sentenza passata in giudicato, oppure estinte per prescrizione e decadenza (Cass. n. 7057/1997).

Per quanto concerne la prescrizione, l’art. 1, comma 164, della legge n. 296/2006, stabilisce che il rimborso dell’IMU non dovuta vada richiesto entro cinque anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è stato accertato il diritto alla restituzione. A sua volta, l’ente locale provvede ad effettuare il rimborso entro centottanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza. Tale ultima disposizione, prevedendo un termine di esitazione maggiore (addirittura doppio), è disallineata rispetto agli artt. 19 e 21 del D.lgs. n. 546/92, secondo cui, decorsi novanta giorni dalla presentazione, sull’istanza di rimborso si forma il silenzio rifiuto ed il contribuente può presentare ricorso giurisdizionale nell’ulteriore termine di cinque anni, previa presentazione di un’istanza di mediazione/reclamo.

Quanto sopra, per altro, vale solo nell’ipotesi in cui il pagamento dell’IMU sia stato spontaneo.

Al contrario, se il versamento è conseguito ad un avviso di accertamento o di liquidazione, ovvero ad una cartella od un’ingiunzione non impugnati, il consolidamento del sottostante rapporto d’imposta per gli anni interessati impedisce il maturare del diritto al rimborso che, diversamente opinando, andrebbe in contrasto col titolo, ormai definitivo, che giustifica l’attività esattiva (Cass. n. 5519/2009, n. 672/2007, n. 12009/2006, n. 8456/2004).

Ma non è tutto, perché, anche nelle ipotesi di versamento spontaneo (per il quale non sia scaduto il termine quinquennale), alla sentenza della Corte costituzionale non può conferirsi una sorta di portata auto-applicativa ai fini del rimborso, dovendosi quanto meno verificare che il coniuge possessore abbia formalmente, e con atti antecedenti al periodo d’imposta interessato, dichiarato al comune che quell’immobile costituiva la propria residenza anagrafica e dimora abituale. Ai fini fiscali, infatti non appare possibile una dichiarazione avente efficacia “ora per allora”, stante il principio di perentorietà del termine di presentazione delle dichiarazioni inerenti benefici fiscali (Cass. n. 26599/2022, in tema di dichiarazione per i benefici sull’acquisto della prima casa).

Inoltre, devono far riflettere alcuni importanti incisi contenuti nella motivazione della sentenza n. 209 del 2022.

Assume invero la Corte che “la dimora abituale in un determinato immobile” rappresenta “un dato facilmente accertabile … attraverso i dovuti controlli”, che devono essere “accurati e specifici”. Ciò in quanto, alla declaratoria d’incostituzionalità, non deve conseguire, “in alcun modo, una situazione in cui le cosiddette seconde case delle coppie unite in matrimonio o in unione civile ne possano usufruire. Ove queste abbiano la stessa dimora abituale (e quindi principale) l’esenzione spetta una sola volta. Da questo punto di vista il venir meno di automatismi, ritenuti incompatibili con i suddetti parametri, responsabilizza i comuni e le altre autorità preposte ad effettuare adeguati controlli al riguardo; controlli che, come si è visto, la legislazione vigente consente in termini senz’altro efficaci”.

Secondo l’art. 43 cod. civ., “il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”.

Il trasferimento della residenza si effettua con una denuncia, in doppia dichiarazione, fatta al comune che si abbandona ed a quello di nuova dimora. Quindi, per verificare la sussistenza del requisito della abitualità della dimora, nei quarantacinque giorni successivi alla dichiarazione, il comune ricevente procede ai dovuti accertamenti, attraverso il corpo di polizia municipale od altro personale comunale a ciò autorizzato.

Orbene, nello scenario aperto dalla decisione d’incostituzionalità è plausibile che gli “accurati e specifici” controlli, che i comuni e le altre autorità preposte sono tenuti ad effettuare per scongiurare il fenomeno della dimora fittizia nelle “seconde case”, non siano più limitati a verificare la sola presenza “abituale” dell’interessato nell’abitazione, ma si possano spingere ad una valutazione di ragionevolezza e plausibilità dei motivi che l’hanno determinata.

I controlli, in questo caso, avranno ad oggetto l’accertamento dell’eventuale abuso del diritto e dell’elusione fiscale, ai sensi dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, trattandosi di identificare e sanzionare tutte quelle operazioni “prive di sostanza economica” che, “pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti” e che, proprio in ragione di ciò, “non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi, determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.