Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

29/12/2022 - La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul trattamento fiscale, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, applicabile ai patti di famiglia

argomento: Imposte sui trasferimenti e altri tributi - Giurisprudenza

Con la sentenza 17 giugno 2022, n. 19561, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai patti di famiglia di cui agli artt. 768 bis e seguenti del codice civile. La pronuncia, distanziandosi dalle conclusioni cui era inizialmente giunta la sentenza 19 dicembre 2018, n. 32823, e aderendo all’interpretazione fornita dalla successiva pronuncia 24 dicembre 2020, n. 29506, considera – ai fini fiscali – la liquidazione dei legittimari non assegnatari, anche se operata dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali, come liberalità effettuata da parte dell’imprenditore, con la conseguente applicazione dell’aliquota e della franchigia relative al legame di parentela (o di coniugio) con l’imprenditore non solo con riferimento al trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni al beneficiario assegnatario, ma anche alla connessa liquidazione dei legittimari non assegnatari. Per quanto tali conclusioni paiano condivisibili, permangono alcune perplessità in merito all’applicazione ai patti di famiglia dell’agevolazione di cui all’art. 3, comma 4 ter, del D.Lgs. n. 346/1990, la quale, secondo la Suprema corte, è limitata al trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni societarie) da imprenditore a beneficiario assegnatario, non potendosi estendere alla liquidazione dei legittimari non assegnatari.

» visualizza: il documento (Corte di Cass., sent. 17 giugno 2022, n. 19561) scarica file

PAROLE CHIAVE: patto di famiglia - imposta sulle successioni e donazioni - azienda - partecipazioni sociali - esenzione


di Matteo Clò

  1. Come noto, la L. 27 dicembre 2006, n. 296, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto del patto di famiglia, regolato dagli artt. 768 bis e seguenti del codice civile. Il patto di famiglia è definito come quel contratto con cui l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda o le relative partecipazioni societarie al coniuge o ad uno o più discendenti. Alla stipula del contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari nel caso di morte dell’imprenditore. Coloro ai quali è assegnata l’azienda (o le partecipazioni sociali) devono liquidare i legittimari non assegnatari, mediante la corresponsione di beni o denaro del valore corrispondente alle quote previste dagli artt. 536 e seguenti c.c., i quali, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti. Quanto ricevuto dai contraenti, sia assegnatari, sia non assegnatari, non è soggetto a collazione o ad azione di riduzione. Disposizioni particolari sono poi previste per l’eventuale mancata partecipazione del coniuge e dei legittimari (art. 768 sexiesc.), nonché per l’impugnazione e lo scioglimento del patto (artt. 768 quinquies e 768 septies c.c.).

La L. 27 dicembre 2006, n. 296, non solo ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto del patto di famiglia, ma ha anche aggiunto all’art. 3 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, il comma 4 ter, il quale esenta dall’imposta sulle successioni e donazioni i trasferimenti d’aziende, rami d’azienda e partecipazioni societarie effettuati, anche tramite patto di famiglia, in favore dei discendenti e del coniuge dell’imprenditore. L’esenzione, ai sensi degli artt. 1, comma 2, e 10, comma 3, del D.Lgs. n. 347/1990, è estesa anche alle imposte ipotecarie e catastali riferite agli eventuali beni immobili presenti nell’azienda. L’agevolazione può riguardare il trasferimento di partecipazioni sia in società di capitali, nel qual caso si applica limitatamente alle partecipazioni mediante le quali i discendenti o il coniuge acquisiscono il controllo della società ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1), c.c., detenendolo per un periodo non inferiore a cinque anni, sia in società di persone, in relazione alle quali si ritiene applicabile anche in presenza di partecipazioni minoritarie, purché gli assegnatari delle quote proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa per un periodo non inferiore a cinque anni.

Problematiche riguardano le ipotesi in cui il controllo ex art. 2359, comma 1, n. 1), c.c., venga esercitato unitariamente da più beneficiari o sia esercitato in forma indiretta (sulle quali si rimanda a GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, Milano, 2008, p. 503 ss., ed a GHINASSI, La nozione di “controllo” di cui all’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990, in Riv. dir. trib., suppl. online, 16 febbraio 2022).

Come rilevato in dottrina (CAPOZZI, Successioni e donazioni, II, Milano, 2015, pp. 1450-1451), il patto di famiglia rappresenta per l’imprenditore uno strumento giuridico da utilizzare al fine di programmare per tempo non solo il passaggio generazionale, ma soprattutto la funzionalità futura dell’azienda oggetto di trasferimento, in quanto permette di evitare che le caratteristiche proprie di una donazione (come l’assoggettabilità alla collazione e, in caso di lesione della quota riservata ad uno o più legittimari, all’azione di riduzione) costituiscano un impedimento al trasferimento della ricchezza e, nel contempo, un pregiudizio per la continuità dell’impresa. Nonostante l’innegabile meritevolezza della finalità perseguita dall’istituto in esame, nonché l’utilità che esso può rivestire nel nostro ordinamento giuridico, il patto di famiglia rappresenta uno strumento poco utilizzato dagli imprenditori. Ciò a causa delle numerose incertezze relative alla natura ed alla causa che lo caratterizzano, nonché alla disciplina ad esso applicabile sia ai fini del diritto civile, sia ai fini del diritto tributario (per una più approfondita disamina delle quali sia consentito rimandare a CLÒ, Questioni fiscali in tema di patti di famiglia, in Riv. trim. dir. trib., 2022, 2, p. 333 ss.).

  1. Individuati brevemente i tratti salienti dell’istituto del patto di famiglia, occorre ora soffermarsi sulla disciplina ad esso applicabile ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. La giurisprudenza e la dottrina maggioritaria sono concordi nel ricondurre i patti di famiglia nel novero degli atti a titolo gratuito, con conseguente applicazione dell’imposta sulle donazioni. Ciò sia per quanto concerne il trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) in favore dei beneficiari assegnatari, sia relativamente alla liquidazione dei legittimari non assegnatari (in dottrina, per tutti, BASILAVECCHIA, Le implicazioni fiscali delle attribuzioni tra familiari. Le implicazioni del Patto di famiglia. Aspetti Sistematici, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, in Quaderni della Fondazione italiana per il notariato, Milano 2006; in giurisprudenza, Cass., 19 dicembre 2018, n. 32823, e Id., 24 dicembre 2020, n. 29506, con commento, rispettivamente, di BASILAVECCHIA, Il patto di famiglia: dove il diritto civile unisce, il Fisco (e la giurisprudenza) dividono, in Corr. trib., 2019, 3, p. 267 ss., e di MARINELLO, Patto di famiglia e imposta di successione: luci e ombre nella giurisprudenza, in Tax News, suppl. online a Riv. trim. dir. trib., 7 febbraio 2022).

Sebbene la Corte di Cassazione sia conforme nel ritenere soggetti ad imposta sulle donazioni sia il trasferimento dell’azienda in favore degli assegnatari, sia la liquidazione dei non assegnatari, non vi è consenso in relazione alla misura in cui tale imposta debba essere applicata.

Con la prima delle due sentenze richiamate (19 dicembre 2018, n. 32823), la Suprema corte ha ritenuto applicabile alle attribuzioni compensative in favore dei non assegnatari l’aliquota corrispondente al grado di parentela che lega l’assegnatario a ciascun legittimario non assegnatario. Nella seconda pronuncia (24 dicembre 2020, n. 29506), invece, la Corte di Cassazione è pervenuta ad una diversa soluzione, secondo la quale alla liquidazione dei legittimari non assegnatari si applicherebbero le aliquote relative al rapporto intercorrente tra disponente e non assegnatari.

Entrambe le pronunce sono invece concordi nel ritenere l’agevolazione di cui all’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 356/1990, applicabile ai soli trasferimenti d’azienda tra dante causa e beneficiari assegnatari e non alle attribuzioni di beni (o denaro) operate da questi ultimi in favore dei legittimari non assegnatari. Tali conclusioni sono state criticate dalla dottrina, la quale considera – ai fini fiscali – il patto di famiglia alla stregua di una pluralità di attribuzioni gratuite, tutte provenienti dal disponente, di importo complessivo pari al valore dell’azienda o delle partecipazioni assegnate (per tutti, FEDELE, Profilo fiscale del patto di famiglia, in Riv. dir. trib., 2014, 5, pp. 553-554); con la conseguenza che, da un lato, ai fini della liquidazione dei non assegnatari rileverebbero le medesime aliquote (e franchigie) applicabili al trasferimento tra imprenditore ed assegnatario, e, dall’altro, l’agevolazione fiscale prevista dall’art. 3, comma 4 ter, verrebbe a coprire sia l’arricchimento dell’assegnatario, sia le liquidazioni degli altri partecipanti.

  1. Con la sentenza 17 giugno 2022, n. 19561, la Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta sulla disciplina applicabile, ai fini dell’imposta sulle donazioni, ai patti di famiglia.

La pronuncia ha ad oggetto un avviso di liquidazione emesso in relazione ad un patto di famiglia con il quale un genitore aveva assegnato al figlio la quota di compartecipazione in società, nella misura del 39,8% del capitale sociale, prevedendo, in favore delle altre due figlie, la liquidazione dei diritti loro spettanti in veste di future legittimarie mediante l’attribuzione delle quote di compartecipazione in società pari, rispettivamente, al 3,21% ed al 10,66% del capitale sociale. La Suprema corte è stata chiamata a decidere sulla possibilità che le attribuzioni compensative operate in favore delle sorelle potessero essere considerate, ai fini fiscali, ed in particolare ai fini dell’imposta sulle donazioni, al pari di liberalità effettuate indirettamente dal genitore, e non dal figlio assegnatario, con la conseguente applicazione dell’aliquota e della franchigia relative alle attribuzioni tra genitori e figli, e non a quelle tra fratelli.

La Corte di Cassazione, pur rilevando come nel patto di famiglia coesistano due anime, una liberale, l’altra solutoria, non reputa che la necessità di provvedere alla liquidazione dei legittimari non assegnatari sia idonea a snaturare il carattere liberale del trasferimento operato dall’imprenditore, ritenendo sussistente la causa di liberalità anche in relazione alla liquidazione dei legittimari non assegnatari, con la conseguente applicazione dell’imposta sulle donazioni sia al trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) in favore del beneficiario assegnatario, sia alla liquidazione dei legittimari non assegnatari. Secondo la Suprema corte, la rilevanza attribuita – a seguito dell’estensione dell’imposta sulle donazioni agli atti a titolo gratuito operata dal D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 – alla correlazione tra presupposto impositivo e accrescimento patrimoniale del beneficiario, anziché all’animus donandi, renderebbe ancora più evidente la necessità di considerare il risultato dell’attribuzione patrimoniale esclusivamente in termini di incremento, quindi al netto di ogni componente patrimoniale negativo correlativamente imputato al patrimonio del beneficiario. Ciò troverebbe conferma nel disposto di cui all’art. 58 del D.Lgs. n. 346/1990, il quale, secondo i giudici di legittimità, verrebbe in considerazione anche in relazione ai patti di famiglia, a cui dovrebbe applicarsi la disciplina fiscale prevista per le donazioni modali. Distanziandosi dalle conclusioni cui era giunta la sentenza 19 dicembre 2018, n. 32823, e aderendo all’interpretazione fornita dalla successiva pronuncia 24 dicembre 2020, n. 29506, la Corte di Cassazione considera, ai fini fiscali, la liquidazione dei legittimari non assegnatari, anche se operata dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali, come liberalità effettuata dall’imprenditore, con la conseguente applicazione dell’aliquota e della franchigia relative al legame di parentela (o di coniugio) con l’imprenditore non solo con riferimento al trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie al beneficiario assegnatario, ma anche alla connessa liquidazione dei legittimari non assegnatari.

Nonostante la Corte abbia ritenuto che la liquidazione operata dal beneficiario del trasferimento dell’azienda, o delle partecipazioni societarie, in favore del legittimario non assegnatario debba intendersi, ai soli fini impositivi, come “donazione del disponente in favore del legittimario non assegnatario”, il medesimo ragionamento non viene fatto relativamente all’esenzione prevista dall’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990. Da tale esenzione vengono infatti escluse le liquidazioni in favore dei legittimari non assegnatari, come peraltro era stato fatto anche dalle pronunce 19 dicembre 2018, n. 32823, e 24 dicembre 2020, n. 29506. Ciò in quanto, secondo i giudici di legittimità, l’art. 3, comma 4 ter, “come qualsiasi previsione agevolativa, non può che essere di stretta interpretazione, in quanto derogatoria rispetto al regime impositivo ordinario”.

  1. In riferimento alle conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione nella sentenza 17 giugno 2022, n. 19561 possono esprimersi due considerazioni. Da un lato, va certamente accolta con favore l’equiparazione, ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle donazioni, della liquidazione operata dall’assegnatario in favore dei legittimari non assegnatari all’attribuzione del disponente in favore dell’assegnatario. Dall’altro, relativamente all’esclusione dall’esenzione di cui all’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990, delle dazioni a titolo compensativo effettuate in favore dei legittimari non assegnatari, le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza di legittimità non paiono condivisibili. Ciò sia in quanto le stesse sono espressione del criticabile orientamento giurisprudenziale convinto della necessità di interpretare restrittivamente le norme agevolative (per una critica di tale orientamento si vedano FEDELE, La Cassazione aggiusta il tiro sul regime fiscale del patto di famiglia, in Riv. dir. trib., suppl. online, 31 dicembre 2020, e FICARI, La fiscalità della trasmissione familiare della ricchezza e dei patti di famiglia, in Riv. dir. trib., 2021, 2, p. 318), sia perché la soluzione cui è giunta la giurisprudenza di legittimità non tiene conto dell’unitarietà causale del patto di famiglia.

Si è inoltre rilevato (FEDELE, Profilo fiscale del patto di famiglia, cit., p. 526 ss.; ID., La Cassazione aggiusta il tiro sul regime fiscale del patto di famiglia, cit.), come proprio un’interpretazione testuale, e non estensiva, né tantomeno analogica, dell’art. 3, comma 4 ter, imponga di escludere dall’applicazione dell’imposta sulle donazioni non solo le attribuzioni agli assegnatari, ma anche le liquidazioni operate in favore dei legittimari non assegnatari, in quanto solo così risulterebbe sottratto all’imposizione l’intero valore delle aziende e delle partecipazioni cui fa riferimento la disposizione in esame.

In relazione a tale ultimo profilo, infatti, pare indiscutibile che l’agevolazione di cui all’art. 3, comma 4 ter, copra tutto il valore dell’azienda (o delle partecipazioni) attribuite all’assegnatario dal disponente. Tuttavia, se si seguisse l’interpretazione della Corte di Cassazione, nel caso in cui l’assegnatario debba liquidare i legittimari non assegnatari, l’esenzione non coprirebbe l’intero valore dell’azienda o delle partecipazioni cedute, bensì il valore delle stesse al netto di quanto corrisposto a titolo compensativo ai legittimari non assegnatari. Si pensi al padre Tizio che trasferisca l’azienda al figlio Caio, il quale, ai sensi dell’art. 768 quater c.c., dovrà corrispondere al fratello Mevio una somma di denaro pari alla quota di legittima che egli potrebbe ipoteticamente vantare relativamente all’azienda del padre nel caso in cui egli morisse. Poniamo, per facilitare le cose, che l’azienda valga 90 e che non ci siano altri legittimari oltre a Caio e Mevio. La legittima è pari a 2/3 del valore dell’azienda, 1/3 di Caio ed 1/3 di Mevio. La quota di Mevio sarebbe pertanto pari a 30, e pertanto tale sarebbe l’ammontare dell’attribuzione compensativa che Caio, assegnatario, dovrebbe corrispondere a Mevio, non assegnatario; con la conseguenza che mediante la stipula del patto di famiglia Caio riceverebbe 60 (90 – 30) e Mevio 30. Il totale sarebbe sempre pari al valore complessivo dell’azienda, ovvero 90. Ciò nonostante l’esenzione di cui all’art. 3, comma 4 ter, coprirebbe solamente 60, e non 90, ossia l’intero valore dell’azienda. Nel diverso caso, invece, in cui Caio sia figlio unico, egli riceverebbe l’azienda dal padre (sempre del valore di 90) senza dover provvedere ad alcuna liquidazione, beneficiando dell’esenzione di cui all’art. 3, comma 4 ter, per l’intero valore della stessa, ovvero 90. Evidente è la differenza di trattamento tra il primo caso, in cui l’agevolazione di cui all’art. 3, comma 4 ter, copre solamente una parte (60) dell’intero valore dell’azienda, ed il secondo, in cui invece l’esclusione riguarda l’intero valore della stessa (90); differenza che tuttavia non sembra trovare giustificazione alcuna, in quanto, se è vero che il presupposto dell’imposta sulle donazioni coincide con l’arricchimento dei beneficiari di donazioni, liberalità o attribuzioni a titolo gratuito, medesimo è l’arricchimento nel primo caso a quello verificatosi nel secondo, con la sola differenza che nel primo caso dell’arricchimento (che coincide con il valore dell’azienda o delle partecipazioni) beneficiano sia l’assegnatario sia il non assegnatario, mentre nel secondo il solo assegnatario.

Alla luce di quanto affermato, pare pertanto auspicabile che la Cassazione riveda la propria posizione in riferimento all’applicazione dell’agevolazione di cui all’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990, ai patti di famiglia.