Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

23/11/2022 - Sull’illegittimità costituzionale del riferimento al ‘nucleo familiare’ nell’ambito della nozione di abitazione principale ai fini IMU

argomento: IRAP e tributi locali - Giurisprudenza

Con la sentenza n. 209/2022, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della nozione di abitazione principale ai fini IMU per violazione degli artt. 3, 31 e 53 Cost. Dopo aver ripercorso l’evoluzione del quadro normativo e le principali criticità riscontrate nel tradizionale orientamento della Corte di Cassazione, la nota si sofferma sulle ragioni che hanno indotto la Consulta alla declaratoria di illegittimità nonché sugli effetti sui rapporti pendenti.

» visualizza: il documento (Corte Cost., sent. 13 ottobre 2022, n. 209) scarica file

PAROLE CHIAVE: IMU - abitazione principale - nucleo familiare - illegittimità costituzionale


di Nicolò Treglia

1. “Nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile”.

È con queste parole che la Corte costituzione (sent. n. 209 del 13 ottobre 2022) ha definito la travagliata vicenda relativa al riconoscimento dell’esenzione IMU per l’abitazione principale dei coniugi residenti in comuni diversi. La Consulta ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, secondo comma, quarto periodo del d.l. n. 201/2011, nella parte in cui dispone che “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”. Segnatamente, il riferimento al nucleo familiare ivi contenuto è stato ritenuto in contrasto con gli art. 3, 31 e 53 Cost., in quanto comporta una discriminazione tra differenti regimi di convivenza: da un lato quello di chi decide di formalizzare il rapporto nel matrimonio o nell’unione civile, dall’altro quello di chi invece intraprende una relazione affettiva al di fuori di qualunque modello legale.

La vicenda trae origine dall’ordinanza, 22 novembre 2021, n. 2985 (in Gazzetta Ufficiale n. 4 del 26 gennaio 2022) della Commissione tributaria provinciale di Napoli, che aveva sollevato una diversa questione di legittimità costituzionale, concernente il quinto periodo del secondo comma dell’art. 13 del d.l. n. 201/2011 nella parte in cui non prevedeva “l’esenzione dall’imposta per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente in un immobile ubicato in un altro Comune”. Difatti, nell’ipotesi dei componenti di un nucleo familiare con dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio dello stesso comune era direttamente la norma a disporre l’applicazione dell’agevolazione per un solo immobile. Ad avviso dei Giudici remittenti, dunque, il diritto all’esenzione sarebbe dovuto sorgere anche qualora un componente del nucleo familiare avesse fissato la residenza e la dimora in un diverso comune, emergendo altrimenti profili di illegittimità costituzionali in relazione agli artt. 3, 29, 31, 47 e 53 Cost.

Tale questione di legittimità costituzionale venne affrontata dall’ordinanza n. 94/2022, depositata il 12 aprile 2022, nella quale il Giudice delle leggi non risolse direttamente la questione sottoposta dal giudice a quo ma si occupò di quella più ampia e pregiudiziale relativa alla nozione di abitazione principale (Per un commento v. F. Campodonico, Mancata esenzione imu per l’abitazione principale dei coniugi in caso di altra residenza extracomunale: la Consulta sceglie la via dell’autorimessione, in Dir. e prat. trib., 4, 2022, p. 1455 ss.; L.R. Corrado, Verso l’illegittimità costituzionale dell’esenzione IMU per l’abitazione principale, in GT Riv. giur. trib., 6, 2022, p. 488 ss.). La Consulta sollevò, infatti, dinnanzi a sé la questione di legittimità costituzionale del quarto periodo del secondo comma dell’art. 13 del d.l. n. 201/2011 “nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito delle residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, della Costituzione”.

In seguito a tale ordinanza di autorimessione, la Corte costituzionale ha emesso la sentenza n. 209/2022, che ci si accinge in questa sede a commentare.

 

2. La Consulta avvia il suo percorso argomentativo ricostruendo l’evoluzione del quadro normativo relativo al beneficio in questione. Nel dettaglio, osserva come il riferimento al nucleo familiare era assente nell’originaria disciplina dell’IMU (art. 13, secondo comma, d.l. n. 201/2011) che subordinava l’esenzione alla sussistenza della residenza anagrafica e dimora abituale del solo possessore dell’immobile. Esso è stato infatti introdotto con l’art. 4, quinto comma, lett. a) del d.l. n. 16/2012 che ha qualificato l’abitazione principale come “l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore ed il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Tale formulazione normativa aveva condotto la giurisprudenza di legittimità a negare il diritto di fruire dell’esenzione IMU ai coniugi aventi la residenza anagrafica in immobili ubicati in comuni diversi, in quanto la scissione del nucleo familiare era ritenuta ostativa alla concessione del regime di favore. Secondo questo consolidato orientamento, infatti, in ossequio al tenore letterale della disposizione e alla natura di ‘stretta interpretazione’ delle norme agevolative, per poter fruire del beneficio in parola era necessario che tanto il possessore quanto il suo nucleo familiare dimorassero stabilmente e risiedessero anagraficamente nella stessa unità immobiliare (Cass. 21 giugno 2017, n. 15444; Cass. 24 maggio 2017, n. 13062; Cass. 29 maggio 2019, n. 14596; Cass. 7 giugno 2019, n. 15439; Cass. 19 febbraio 2020, n. 4166; Cass. 24 settembre 2020, n. 20130; Cass. 7 ottobre 2020, n. 21611; Cass. 9 ottobre 2020, n. 21873; Cass. 1˚ febbraio 2021, n. 2194; Cass. 3 giugno 2021, n. 15316; Cass. 8 giugno 2021, n. 15901; Cass. 17 gennaio 2022, n. 1199). Siffatta lettura restrittiva appariva distante dalla voluntas legis, dal momento che comportava il disconoscimento del beneficio in relazione ad entrambi gli immobili candidati a fruirne alla constatazione di una qualunque ipotesi di disgregazione del nucleo familiare (Cfr. G. Selicato, Recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di IMU, in Massimario delle Commissioni tributarie della Puglia. Massime anni 2020-2021, Bari, 2022, p. 25 ss.; S. Fiorentino, Il diritto ai regimi di vantaggio: l’agevolazione fiscale, in A. Carinci, T. Tassani (a cura di), I diritti del contribuente. Principi, tutele e modelli di difesa, Milano, 2022, p. 373 ss.; P. Barabino, Gli immobili assoggettati e le esenzioni, in E. della Valle, V. Ficari, G. Fransoni, G. Marini (a cura di), L’imposta municipale propria (IMU), Torino, 2022, p. 137 ss.; nonché, se si vuole, N. Treglia, L’esenzione IMU per l’abitazione principale dei coniugi residenti in comuni diversi: problematiche interpretative e spunti di riflessione, in Riv. trim. dir. trib., n. 3, 2021, p. 709 ss.).

A ben vedere, però, la Suprema Corte, con l’Ordinanza 17 giugno 2021, n. 17408 (per un commento sia consentito rinviare a N. Treglia, Ancora in tema di esenzione IMU per l’abitazione principale dei coniugi residenti in comuni diversi: una questione ancora aperta?, in Tax news, 1, 2022, p. 127 ss.), aveva (parzialmente) invertito rotta, statuendo che sia la lettera che la ratio della norma potevano indurre ad accordare un’unica agevolazione, anche nell’ipotesi di una scissione del nucleo familiare, accertando però “in quale di questi immobili si realizzi l’abitazione principale del nucleo familiare, riconoscendo l’esenzione solo allo stesso”. Veniva, infatti, postulata l’unicità dell’abitazione principale per ciascun nucleo familiare, “inteso come unità distinta e autonoma rispetto ai suoi singoli componenti”. In base a questo nuovo indirizzo – in linea con la mutata realtà sociale, ormai innovata rispetto al modello di ‘famiglia tradizionale’ in cui tutti i membri convivono presso la stessa abitazione – il contribuente poteva provare, da un lato, che il proprio nucleo familiare aveva effettivamente la dimora abituale presso quell’immobile e, dall’altro, dimostrare che il coniuge non aveva beneficiato della stessa agevolazione per un altro immobile.

Tuttavia, in seguito a tale pronuncia i Giudici di legittimità erano nuovamente tornati a privilegiare il precedente indirizzo che disconosceva l’esenzione IMU sull’abitazione principale nelle ipotesi di disgregazione del nucleo familiare (Cass. 25 novembre 2021, n. 36676; Cass. 29 novembre 2021, n. 37169; Cass. 6 dicembre 2021, n. 38672; Cass. 17 gennaio 2022, n. 1199).

In risposta al descritto orientamento della Suprema Corte era intervenuto il legislatore, che con l’art. 5-decies del d.l. n. 146/2021 aveva modificato come segue l’art. 1, comma 741, della l. n. 160/2019: “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare”. Ne discendeva che ciascun nucleo familiare poteva fruire dell’esenzione ai fini IMU per un solo immobile, indipendentemente dalla circostanza che l’altro immobile in cui era fissata la residenza e la dimora degli ulteriori componenti fosse ubicato nello stesso comune del primo o in un comune diverso. Tuttavia la novella destava qualche perplessità laddove prevedeva che il contribuente dovesse scegliere l’immobile da qualificare come abitazione principale del nucleo familiare, potendo quindi prescindere dal luogo dove effettivamente si costruiscono nella ritualità i legami affettivi e i rapporti familiari.

 

3. Con la sentenza in rassegna, la Consulta ritiene fondate le questioni che aveva sollevato davanti a sé con l’ordinanza n. 94/2022 e dichiara pertanto l’illegittimità costituzionale del riferimento al nucleo familiare contenuto nella definizione di abitazione principale ai fini IMU. Esso risulta infatti in contrasto con gli artt. 3, 53, e 31 della Carta costituzionale italiana.

Preliminarmente la Corte si preoccupa di definire i contorni della questione che va ad affrontare, concernente non già il tema dell’estensione dell’agevolazione a soggetti esclusi, oggetto di un vivace dibattito tra la giurisprudenza (cfr. Cass., sez. un., 3 giugno 2015, n. 11373; Cass., 9 aprile 2018, n. 8618; Cass., 27 aprile 2018, n. 10213; Cass., 12 giugno 2020, n. 11322), che in relazione alle tax expenditures ritiene praticabile la sola interpretazione letterale, e la dottrina (su tutti v. A. Fedele, La sentenza della Corte costituzionale come “rimedio” al rifiuto dell’estensione analogica, in Riv. dir. trib., n. 4, 2018, p. 171 ss.), che invece tende a preferire una valutazione ‘caso per caso’, in funzione della finalità dell’agevolazione stessa. La questione riguarda, piuttosto, la necessità di “rimuovere degli elementi di contrasto con i suddetti principi costituzionali quando tali status [l’essere coniugato, separato o divorziato] in sostanza vengono, attraverso il riferimento al nucleo familiare, invece assunti per negare il diritto al beneficio”.

Occorre, dunque, focalizzare l’attenzione proprio sugli artt. 3, 31 e 53 Cost.

Quanto all’art. 3 Cost., la Consulta rileva un’evidente discriminazione tra soggetti uniti in matrimonio o unione civile che concordino di vivere in luoghi diversi, da un lato, e persone singole e coppie di mero fatto, dall’altro. Nel primo caso la sussistenza del nucleo familiare comporta il venir meno del beneficio in relazione ad entrambi gli immobili, nel secondo l’esenzione viene riconosciuta qualora sia accertato il doppio contestuale requisito della residenza e della dimora abituale del solo possessore. Ed infatti, la Corte dà atto che “in un contesto come quello attuale caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale”. Sarebbe, pertanto, ben poco ragionevole disconoscere il beneficio in relazione ad entrambi gli immobili candidati a fruirne qualora dovessero emergere esigenze lavorative o di studio comportanti la disgregazione del rapporto di convivenza.

Inoltre, la Corte analizza le possibili motivazioni che potrebbero giustificare trattamenti diversificati tra soggetti con differenti regimi di convivenza, soffermandosi, in particolare, sull’eventuale sussistenza di un obbligo di coabitazione per soggetti sposati o uniti civilmente nonché su un’interpretazione della norma in termini antielusivi. Con riguardo alla prima linea d’azione viene evidenziato che non possono essere invocati né l’obbligo di coabitazione stabilito per i coniugi dall’art. 143 c.c., né le norme sulla residenza familiare degli stessi (art. 144 c.c.), in quanto l’art. 45 c.c. contempla l’ipotesi di residenze disgiunte per i coniugi e la giurisprudenza afferma come una determinazione consensuale o una giusta causa non impediscono loro, indiscussa l’affectio coniugalis, di stabilire residenze disgiunte (su tutte v. Cass. 28 gennaio 2021, n. 1785). Con riguardo alla seconda linea d’azione, la Corte, pur riconoscendo la possibilità che la norma in questione si presti a strategie di pianificazione fiscale mediante la dichiarazione di ‘residenze fittizie’, rileva che ai fini del riconoscimento dell’esenzione sono sufficienti le puntuali cautele già assunte sul piano legislativo, ove è stata espressamente prevista la contestuale presenza di due requisiti: la residenza anagrafica e la dimora abituale. La prima, quale requisito di ordine formale, è attestabile dal certificato di residenza rilasciato dal comune mentre la seconda individua il requisito di ordine sostanziale, la cui sussistenza è riscontrabile, così come rilevato dalla Consulta, mediante efficaci strumenti già nella disponibilità dei comuni per controllare la veridicità delle dichiarazioni. Il chiaro riferimento è all’art. 2, decimo comma lett. c) del d.lgs. n. 23/2011, secondo cui i comuni hanno accesso ai dati contenuti nell’Anagrafe tributaria relativi alla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas, con riguardo agli immobili ubicati nel proprio territorio, nell’ottica di una maggiore integrazione e interoperabilità tra le banche dati nazionali e locali (sul punto v. M. Aulenta, La partecipazione dei comuni all’accertamento dei tributi erariali, in A.F. Uricchio, P. Galeone, M. Aulenta, A. Ferri (a cura di), I tributi comunali dentro e oltre la crisi, t. II, Bari, 2021, p. 210.

In definitiva, la Corte costituzionale, nel propendere per un approccio sostanzialistico, ritiene il riferimento al nucleo familiare contenuto nella definizione di abitazione principale in contrasto con l’art. 3 Cost., dal momento che determina il venir meno del beneficio per chi formalizza il rapporto nel matrimonio o nell’unione civile, a differenza di ciò che avviene per chi intraprende una relazione affettiva al di fuori di qualunque modello legale, ove entrambi i partner potrebbero fruire del regime in parola. Vengono così illegittimamente trattate situazioni omogenee in modo ingiustificatamente diverso, in palese violazione del principio di uguaglianza (v. C. cost. n. 136/2004; C. cost. n. 340/2004; C. cost. n. 108/2006; C. cost. n. 155/2014; C. cost. n. 85/2020; C. cost. n. 165/2020).

 

4. La norma censurata si pone, poi, in contrasto con l’art. 31 Cost., il quale prescrive l’istituzione di misure, anche fiscali, atte ad agevolare la formazione della famiglia. In proposito la Corte osserva come, per un verso, esso giustifichi i trattamenti in favore della famiglia e, per un altro, come si opponga a quelli che si risolvono in una penalizzazione della stessa (cfr. F. Farri, Spunti sulla rilevanza della famiglia nel sistema della finanza pubblica, in Giur. Cost., 5, 2017, p. 2048, secondo cui “oltre a richiedere come base che la dimensione familiare non sia causa di un trattamento deteriore negli istituti di finanza pubblica, la Carta in aggiunta a ciò consente, e anzi richiede, che la famiglia sia oggetto di agevolazioni e trattamenti preferenziali (art. 31 Cost.)”).

Con riguardo al caso di specie, l’effetto causato dal riferimento al nucleo familiare nell’ambito della definizione di abitazione principale tende finanche a precludere ogni esenzione ai coniugi che risiedono in comuni diversi, penalizzando così coloro che decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile. In altri termini, viene previsto un trattamento deteriore per le coppie sposate, che sono obbligate a risiedere in luoghi diversi, rispetto a quelle non sposate, disincentivando queste ultime alla formalizzazione del proprio vincolo affettivo. Di qui la violazione dell’art. 31 Cost., anche in ragione del fatto che la norma censurata ha condotto la giurisprudenza a riconoscere l’esenzione in relazione ad entrambi gli immobili solo nell’ipotesi di frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi e conseguente disgregazione del nucleo familiare.

Terzo ed ultimo parametro costituzionale di riferimento è costituito dall’art. 53 Cost. Sulla questione la Corte rileva innanzitutto come l’evoluzione normativa del concetto di abitazione principale ai fini IMU abbia messo in luce un passaggio dalla considerazione di una situazione oggettiva – la residenza e la dimora abituale del possessore dell’immobile indipendentemente dal suo status personale – al rilievo dato ad un elemento soggettivo – la relazione del possessore con il proprio nucleo familiare. La valorizzazione di tale ultimo aspetto mal si attaglia ad un’imposta di tipo reale quale l’IMU, avente come presupposto il possesso, la proprietà o la titolarità di un altro diritto reale in relazione a beni immobili (Nelle imposte reali, invece, la struttura del presupposto rende complessa la valorizzazione della famiglia come soggetto unitario, ma laddove il tributo si caratterizzi per una definizione dell’elemento soggettivo in relazione a qualità di carattere personale e non meramente economico, è necessario ricomprendere tra tali qualità personali anche e anzitutto quella di carattere familiare e far sì che da tale ricomprensione derivi, per i casi in cui sussista un rapporto di carattere familiare, l’istituzione di un trattamento fiscale differenziato e meno oneroso di quello ordinario”: F. Farri, Spunti sulla rilevanza della famiglia nel sistema della finanza pubblica, in op. cit., p. 2050).

Le censure mosse dalla Consulta in relazione all’art. 53 si limitano a tale aspetto: appare, pertanto, evidente che anche in tale pronuncia esso fatichi a ritagliarsi una sua autonomia funzionale rispetto all’art. 3 Cost. (sulla questione v., su tutti, I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, p. 20 secondo cui “il principio dettato dal primo comma dell’art. 53 Cost. non rappresenta una semplice riformulazione, in chiave tributaria, del principio di cui all’art. 3, ma lo integra e lo supera, traducendosi in una nozione provvista di specifica e autonoma funzionalità”; nonché, da ultimo, M. Aulenta, Capacità contributiva ed equilibri finanziari dei soggetti attivi, Bari, p. 103 il quale avverte che “non si deve appiattire la lettura dell’art. 53, a mera specificazione dell’art. 3 Cost., perché così si attribuirebbe al singolo contribuente soltanto una garanzia di tipo “relativo”, nel senso suspecificato, impedendo esclusivamente discriminazioni non giustificate nell’ambito della comunità politico-sociale, perché basterebbe l’eguaglianza per mettere tasse anche abnormi, purché tra eguali”). Nella giurisprudenza costituzionale è infatti frequente “l’asservimento dell’art. 53 Cost. rispetto all’art. 3 Cost.” (così E. Marello, Considerazioni sugli argomenti logici e retorici adoperati dalla Corte costituzionale in materia tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2, 2019, p. 115 ss. Cfr. C. cost. n. 270/2007; C. cost. n. 102/2008; C. cost. n. 227/2009; C. cost. n. 281/2011; C. cost. n. 223/2012; C. cost. n. 116/2013; C. cost. n. 6/2014; C. cost. n. 142/2014; C. cost. n. 228/2014; C. cost. n. 10/2015; C. cost. n. 83/2015), con il primo che non assume un ruolo centrale e determinante nel vaglio di costituzionalità, al contrario del secondo che invece ha un ruolo di assoluta rilevanza (G. Bergonzini, Diritti fondamentali del contribuente. Discrezionalità del legislatore tributario e sindacato di costituzionalità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 3, 2018, p. 336: “quanto, infine, all’art. 53 Cost., che teoricamente dovrebbe rappresentare il principale criterio in base al quale verificare il corretto esercizio della discrezionalità legislativa in questo ambito, ormai da decenni risulta consolidato l’orientamento giurisprudenziale che tende a negare dignità autonoma al principio di capacità contributiva, e ad utilizzare come principale parametro solo l’art. 3 Cost…”.).

Tale impostazione pare essere confermata nella sentenza in rassegna, secondo cui “le ragioni che spingono ad accogliere la censura formulata in relazione all’art. 53 Cost. rafforzano l’illegittimità costituzionale in riferimento anche all’art. 3 Cost.; infatti «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione» (sentenza n. 10 del 2015)”. La stessa Corte costituzionale era stata, invece, maggiormente ‘esplicita’ nella sua ordinanza di autorimessione n. 94/2022, ove aveva puntualmente dubitato della sussistenza di una maggiore capacità contributiva del nucleo familiare rispetto ai singoli soggetti, richiamando la nota sentenza n. 179/1976, secondo la quale non è dimostrato né dimostrabile che per effetto del matrimonio “si abbia un aumento della capacità contributiva dei due soggetti insieme considerati”.

 

5. La sentenza non si limita a dichiarare l’illegittimità costituzionale della vigente nozione di abitazione principale ma procede a ‘riscriverla’, espungendo il riferimento al nucleo familiare. Dunque, “[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”. Si tratta, in sostanza, della stessa definizione rinvenibile nell’originaria disciplina dell’IMU, che identificava l’abitazione principale con l’immobile al cui interno convergono la residenza anagrafica e la dimora abituale del possessore. L’applicazione dell’agevolazione in commento esige così un esame sull’effettività dei requisiti (residenza anagrafica e dimora abituale) in capo al possessore, a prescindere dal suo status soggettivo di coniugato. Pertanto è richiesto un approccio di tipo sostanzialistico che attribuisce una nuova centralità all’accertamento dei comuni, al fine di evitare – evidenzia la Corte – “una situazione in cui le cosiddette “seconde case” delle coppie unite in matrimonio o in unione civile ne possano usufruire”.

La declaratoria di incostituzionalità è estesa dalla Consulta, in via consequenziale, alle altre norme della disciplina dell’IMU che fanno riferimento al nucleo familiare, ed in particolare: i) all’art. 13, secondo comma, quinto periodo, d.l. n. 201/2011 nella parte in cui limita l’esenzione ad uno solo degli immobili situati nel medesimo comune; ii) all’art. 1, comma 741, della l. n. 160/2019, come modificato dall’art. 5-decies del d.l. n. 146/2021, laddove prevede che le agevolazioni per l’abitazione principale si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare, nel caso in cui questi ultimi abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi.

Ebbene, quanto al sub i) il corollario che se ne può trarre è che sarà ammessa una doppia esenzione per gli immobili nei quali i coniugi o i componenti di una unione civile risiedono e dimorano, anche qualora gli stessi siano ubicati nel medesimo comune. Infatti, la Corte rileva che quella menzionata rappresenta “una ipotesi del tutto eccezionale (e che come tale dovrà essere oggetto di accurati e specifici controlli da parte delle amministrazioni comunali), ma, da un lato, date sia le grandi dimensioni di alcuni comuni italiani, sia la complessità delle situazioni della vita, essa non può essere esclusa a priori; dall’altro, mantenere in vita la norma determinerebbe un accesso al beneficio del tutto casuale, in ipotesi favorendo i nuclei familiari che magari per poche decine di metri hanno stabilito una residenza al di fuori del confine comunale e discriminando quelli che invece l’hanno stabilita all’interno dello stesso”.

Quanto al sub ii), si è già detto come la novella destasse perplessità laddove prevedeva di attribuire al contribuente la scelta dell’immobile da qualificare come abitazione principale del nucleo familiare. Sussisteva, infatti, il rischio di svalutare la ratio agevolatrice della norma, in quanto la scelta sarebbe stata verosimilmente condizionata da una mera valutazione di carattere economico, che avrebbe indotto il nucleo familiare a fissare la propria abitazione principale presso quell’immobile che generava un’imposta superiore. Sul punto la Corte osserva come, “consentendo alla scelta dei contribuenti l’individuazione dell’unico immobile da esentare, la novella disancora, ancora una volta, la spettanza del beneficio dall’effettività del luogo di dimora abituale, negando così una doppia esenzione per ciascuno degli immobili nei quali i coniugi o i componenti di una unione civile abbiano avuto l’esigenza, in forza delle necessità della vita, di stabilirla, assieme, ovviamente, alla residenza anagrafica”.

 

6. In ordine agli effetti della sentenza, l’art. 136 Cost. dispone che quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Le sentenze di accoglimento della Consulta hanno, dunque, effetto ex tunc, il che implica la disapplicazione della norma dichiarata illegittima sin dal momento della sua entrata in vigore. Tuttavia la retroattività in parola trova un limite nei c.d. rapporti esauriti (V. F. Amatucci, L’efficacia nel tempo della norma tributaria, Milano, 2005, p. 204 ss., ove l’A. parla di retroattività parziale delle sentenze di incostituzionalità sulla base della distinzione tra rapporti esauriti e rapporti pendenti): si allude a tutte quelle situazioni in cui l’applicazione della norma dichiarata incostituzionale non può essere rimessa in discussione, come ad esempio la definitività di un atto impositivo per mancata impugnazione nei termini di legge, il passaggio in giudicato di una sentenza sfavorevole al contribuente nonché l’inutile spirare del termine per chiedere il rimborso (Cfr. G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2019, p. 84). Di converso, la pronuncia incide sui rapporti sorti in precedenza ma non ancora esauriti (c.d. rapporti pendenti), come quelli in cui il contribuente non abbia provveduto al pagamento del tributo, abbia versato il tributo e propone ora istanza di rimborso oppure abbia impugnato l’atto impositivo e il giudizio sia tuttora in corso.

Venendo al caso di specie, i coniugi con residenze e dimore separate in uno stesso comune o in comuni diversi, qualora abbiano versato il tributo in relazione ad uno o entrambi gli immobili, potranno proporre istanza di rimborso, entro cinque anni dalla data del versamento (si configura in tale circostanza un indebito originario; cfr. M. Basilavecchia, Il diritto al rimborso, in A. Carinci, T. Tassani (a cura di), I diritti del contribuente. Principi, tutele e modelli di difesa, op. cit., p. 273). Alla luce però dell’iter argomentativo della sentenza della Consulta sarà necessario che ciascun coniuge provi di aver fissato presso i rispettivi immobili sia la residenza anagrafica che la dimora abituale (ciò del resto è coerente con il nuovo comma 5 bis dell’art. 7 del d.lgs n. 546/1992, introdotto dalla l. n. 130/2022, che all’ultimo periodo così recita: “spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”. Sul tema v. E. della Valle, La “nuova” disciplina dell’onere della prova nel rito tributario, in Il Fisco, 40, 2022, p. 3807 ss.). Quanto al primo requisito sarà sufficiente il certificato di residenza rilasciato dal comune, quanto al secondo, invece, occorrerà presentare fatture per utenze domestiche (consumi idrici, elettrici e del gas), che rilevano in quanto circostanze oggettive nell’attestazione della dimora poiché creano un ragionevole nesso di collegamento tra il possessore e l’immobile (già la Suprema Corte in diverse pronunce si era espressa in tal senso: Cass. n. 4584/2019; Cass. n. 8627/2019; Cass.n. 20686/2021; Cass. n. 29505/2021).

Nella diversa ipotesi in cui il contribuente abbia già impugnato un avviso di accertamento relativo al mancato pagamento dell’IMU su una delle due abitazioni dei coniugi, qualora il comune si sia limitato a rilevare la diversità del comune di residenza anagrafica del primo coniuge con quello di dimora abituale dell’altro, appare verosimile ritenere che le Corti di Giustizia Tributaria annulleranno l’atto impositivo, prendendo atto dell’intervenuta pronuncia della Corte costituzionale (in tal senso già la CGT di I grado di Lucca n. 265/2022 del 19 ottobre 2022). Difatti, in base alla nuova disciplina dell’onere della prova contenuta nell’art. 7, comma 5 bis, del d.lgs. n. 546/1992, secondo cui “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”, incombe sull’ente locale la prova che, dal canto suo, quell’immobile non costituisce la dimora abituale del possessore (e non più dell’intero nucleo familiare), mediante quell’approccio sostanzialistico valorizzato dalla Consulta (per un commento alla novella v. D. Deotto, L. Lovecchio, L’Amministrazione prova in giudizio i rilievi contenuti nell’atto impugnato, in Il Fisco, 39, 2022, p. 3713 ss., e spec. p. 3716, ove gli A. osservano puntualmente che “in base alla nuova regola, dunque, è il Fisco che deve provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, a prescindere, tra l’altro, che si controverta di fattispecie agevolative o meno. Sul punto, come sopra ricordato, il tradizionale orientamento della Cassazione, in materia di agevolazioni o, in generale, di vicende che comportano una riduzione del carico fiscale, era nel senso che l’onere della prova incombesse sempre sul contribuente. Al contrario, l’evidente generalità della previsione indagata non consente di distinguere tra violazioni che derivano, ad esempio, da contestazioni di infedeltà del reddito dichiarato e violazioni che invece scaturiscono da un bonus fiscale recuperato: in entrambe le ipotesi, il solo soggetto onerato, in prima battuta, è il Fisco. L’unica espressa eccezione, abbastanza scontata, riguarda le liti da rimborso, in relazione alle quali la prova spetta sempre al contribuente”).

Fermo restando che comunque i comuni ben potrebbero esercitare il loro potere di autotutela ed annullare i propri atti impositivi, ai sensi dell’art. 2 quater d.l. n. 564/1994 e del d.m. n. 37/1997, laddove siano fondati unicamente sulla disgregazione del nucleo familiare, il cui riferimento è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale.

In definitiva, si osserva come la sentenza ci consegni una puntuale ed equilibrata definizione di abitazione principale ai fini IMU, che evita di penalizzare le coppie che decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile, consentendo loro di mantenere la doppia esenzione ove fissino la residenza anagrafica e la dimora abituale in immobili diversi. Tale ragionevole approdo riporta coerenza e razionalità nel sistema ed appare in linea con la mutata realtà sociale, nella quale sono frequenti le situazioni in cui emergono esigenze lavorative o di studio che spingono i singoli componenti del nucleo familiare a soluzioni comportanti la disgregazione del rapporto di convivenza.