Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

02/11/2021 - Acquisto intracomunitario nelle cessioni “a catena”: la Corte di Giustizia indica i criteri di imputazione del trasporto unico di beni in regime di sospensione dall’accisa

argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza

Nella sentenza Herst la Corte di Giustizia dell'Unione Europea da un lato conferma che l'acquisto intracomunitario ex art. 20 della Direttiva IVA presuppone una nozione sostanzialistica di “cessione” di un bene e prescinde dalla sua detenzione fisica, dall'altro indica i criteri di imputazione del trasporto unico di beni in regime di sospensione dall'accisa con riferimento ad una fattispecie concreta anteriore all'inserimento dell'art. 36 bis della Direttiva IVA. Di particolare interesse sono le argomentazioni con le quali il Giudice del Lussemburgo ribadisce l'efficacia vincolante del diritto europeo così come interpretato nelle proprie sentenze.

PAROLE CHIAVE: IVA - acquisto intracomunitario - operazioni a catena


di Leda Rita Corrado

  1. Il procedimento principale e la prima questione pregiudiziale. – Il procedimento principale vede contrapporsi all'Amministrazione finanziaria della Repubblica Ceca una società operante nel settore del trasporto su strada e proprietaria di distributori di carburante. La controversia concerne la detraibilità dell'IVA relativa ad acquisti di carburanti trasportati in sospensione di accisa da taluni stati membri fino alla Repubblica Ceca dalla società contribuente, la quale non soltanto ha provveduto al trasporto con propri mezzi e a proprie spese, ma ha anche rivestito il ruolo di acquirente finale al termine di una catena di cessioni tra operatori economici stabiliti nella Repubblica Ceca. L'Amministrazione finanziaria nega la detraibilità dell'IVA ritenendo che le cessioni di carburante siano acquisti intracomunitari, mentre la società contribuente sostiene che esse costituiscano acquisti interni realizzati soltanto dopo l'immissione in libera pratica nella Repubblica Ceca.

Nella sentenza in rassegna la Corte di Giustizia dell'Unione Europea afferma che l'art. 20 della Direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che il soggetto passivo che effettua un trasporto intracomunitario unico di beni in regime di sospensione dall'accisa, con l'intenzione di acquistare tali beni ai fini della sua attività economica una volta che essi siano stati immessi in libera pratica nello Stato membro di destinazione, acquisisce il potere di disporre di detti beni come proprietario, ai sensi della disposizione in parola, a condizione che egli abbia la possibilità di adottare decisioni atte ad incidere sulla situazione giuridica dei medesimi beni, tra cui, in particolare, la decisione di venderli. La circostanza che tale soggetto passivo abbia fin da subito l'intenzione di acquistare tali beni, ai fini della sua attività economica una volta che essi siano immessi in libera pratica nello Stato membro di destinazione, deve essere presa in considerazione dal giudice nazionale nell'ambito della sua valutazione globale di tutte le circostanze particolari del caso di specie sottopostogli al fine di determinare a quale degli acquisti successivi debba essere imputato detto trasporto intracomunitario.

 

  1. Cessioni “a catena” e acquisto intracomunitario di beni. – La fattispecie sub iudice è riconducibile alle c.d. cessioni “a catena”, vale a dire a cessioni consecutive di beni, oggetto di un unico trasporto intracomunitario dal primo cedente-fornitore al cessionario finale, nelle quali intervengono tre o più operatori economici, vale a dire il primo cedente-fornitore, uno o più operatori intermedi e il cessionario finale (c circolare Assonime del 19 dicembre 2019, n. 29, § 5 ). Detta fattispecie si caratterizza inoltre per l'effettuazione del trasporto in regime di sospensione dall'accisa: ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, sono sottoposti ad accisa i prodotti energetici, l'alcole etilico e le bevande alcoliche, l'energia elettrica e i tabacchi lavorati, mentre l'art. 7 bis, d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633 indica specifici criteri di territorialità a fini IVA per le cessioni di gas e di energia elettrica.

In base all'art. 2, § 1, lett. b), iii), della Direttiva IVA, sono soggetti ad IVA “gli acquisti intracomunitari di beni effettuati a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro […] quando si tratta di prodotti soggetti ad accisa, per i quali le accise relative sono esigibili nel territorio dello Stato membro [...] da un soggetto passivo o da un ente non soggetto passivo i cui altri acquisti non sono soggetti all'IVA [...]”, mentre, in base all'art. 138, § 2, lett. b), della Direttiva IVA, “gli Stati membri esentano […] le cessioni di prodotti soggetti ad accisa spediti o trasportati fuori del loro rispettivo territorio ma nella Comunità a destinazione dell'acquirente, dal venditore, dall'acquirente o per loro conto [...]”. Nell'ordinamento italiano dette cessioni intracomunitarie non sono qualificate come operazioni esenti, ma come operazioni non imponibili in forza dell'art. 41, comma 1, lett. a), d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito con modificazioni dalla l. 29 ottobre 1993, n. 427; si rileva inoltre che l'art. 43, comma 1, d.l. n. 331 del 1993 include nella base imponibile dell'IVA l'ammontare dell'accisa, se assolta o esigibile in dipendenza dell'acquisto. La ratio della disciplina de qua risiede nella volontà di tassare le cessioni intracomunitarie solo una volta e nel paese di destinazione: nelle cessioni “a catena”, tale obiettivo viene perseguito trattando come operazione esente soltanto la cessione che ha condotto ad un acquisto intracomunitario e alla quale è imputabile il trasporto intracomunitario, mentre “tutte le operazioni intervenute prima o dopo sono, invece, cessioni di beni avvenute all'interno di un solo paese le quali, in base alle regole generali, sono soggette all'imposta nello Stato in cui sono state effettuate” (cfr. conclusioni presentate il 10 novembre 2005 dall'Avvocato Generale Kokott nella causa C-245/04, EMAG, §§ 29 e 30).

In base all'art. 20 della Direttiva IVA, si considera “acquisto intracomunitario di beni” “l'acquisizione del potere di disporre come proprietario di un bene mobile materiale spedito o trasportato dal venditore, dall'acquirente o per loro conto, a destinazione dell'acquirente in uno Stato membro diverso dallo Stato membro di partenza della spedizione o del trasporto del bene”. Nella sentenza in commento, in via preliminare la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ricorda che, secondo la giurisprudenza eurounitaria (Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza del 27 settembre 2007, causa C-409/04, Teleos plc. e a., §§ 27 e 42; Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza del 19 dicembre 2018, causa C-414/17, AREX CZ a.s., § 61), ai sensi dell'art. 20 della Direttiva IVA l'acquisto intracomunitario di beni si verifica quando ricorrono due condizioni: 1) il potere di disporre del bene come proprietario è stato trasferito all'acquirente e 2) il fornitore prova che tale bene è stato spedito o trasportato in un altro Stato membro e che, in seguito a tale spedizione o trasporto, esso ha lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di partenza (§ 34).

Nella controversia principale viene sollevata una questione pregiudiziale concernente la prima delle due condizioni, chiedendo se il potere di disporre del bene come proprietario sia trasferito all'acquirente quando esso, senza esserne proprietario in tale fase, trasporta beni in regime di sospensione dall'accisa da un primo Stato membro verso un secondo Stato membro, con l'intenzione di acquistare tali beni una volta immessi in libera pratica in quest'ultimo Stato membro.

 

  1. (Segue) La nozione sostanzialistica di “cessione” di un bene. – Nella sentenza in commento la Corte di Giustizia dell'Unione Europea afferma che, da un lato, la nozione di cessione di un bene non si riferisce al trasferimento di proprietà nelle forme previste dal diritto nazionale vigente, bensì comprende qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuata da una parte che autorizza l’altra parte a disporre di fatto di tale bene come se ne fosse il proprietario (§§ 36 e 37 - cfr. Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza del 3 giugno 2010, causa C-237/09, De Fruytier, § 24; nonché Corte di Giustizia UE, sez. VI, sentenza dell'8 febbraio 1990, causa C‑320/88, Shipping and Forwarding Enterprise Safe, §§ 7 e 8; Corte di Giustizia UE, sentenza del 4 ottobre 1995, causa C‑291/92, Armbrecht, §§ 13 e 14; Corte di Giustizia UE, sez. V, sentenza del 6 febbraio 2003, causa C‑185/01, Auto Lease Holland, §§ 32 e 33; Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza del 29 marzo 2007, causa C-111/05, Aktiebolaget NN, § 32), e, dall'altro, il trasferimento del potere di disporre di un bene come proprietario non richiede che la parte alla quale il bene di cui si tratta viene trasferito lo detenga fisicamente né che detto bene sia fisicamente trasportato verso tale parte e/o fisicamente ricevuto dalla stessa (§§ 38-42 – cfr. Corte di Giustizia UE, sez. X, ordinanza del 15 luglio 2015, causa C‑123/14, Itales, § 36; Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza del 19 dicembre 2018, causa C-414/17, AREX CZ a.s., §§ 75 e 78).

L'esegesi sostanzialistica che formula la Corte di Giustizia dell'Unione Europea è conforme a quanto disposto dall'art. 14, § 1, della Direttiva IVA, secondo cui “costituisce “cessione di beni” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario”.

Bisogna rilevare che l'ordinamento italiano è distonico rispetto alla normativa europea, giacché esso si caratterizza per il rinvio alle norme civilistiche concernenti il trasferimento del diritto di proprietà e dei diritti reali di godimento: infatti l'art. 38, comma 2, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito con modificazioni dalla l. 29 ottobre 1993, n. 427, definisce gli “acquisti intracomunitari” come “le acquisizioni, derivanti da atti a titolo oneroso, della proprietà di beni o di altro diritto reale di godimento sugli stessi”, in conformità con l'art. 2, comma 1, d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui “costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere”.

 

  1. (Segue) L'imputazione del trasporto in regime di sospensione dall'accisa. – Nell'arresto in rassegna la Corte di Giustizia dell'Unione Europea conferma che, nel caso di catena di cessioni di un bene soggetto ad accisa che hanno dato luogo ad un solo trasporto intracomunitario, questo può essere imputato a una di tali cessioni sulla base di una valutazione globale di tutte le circostanze particolari della fattispecie (§ 43 - Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza del 19 dicembre 2018, causa C-414/17, AREX CZ a.s., §§ 70 e 71). Con riferimento al caso sub iudice, non può costituire un elemento decisivo la circostanza che il trasporto sia realizzato in regime di sospensione dall'accisa (§ 50 - Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza del 19 dicembre 2018, causa C-414/17, AREX CZ a.s., § 73), mentre possono essere prese in considerazione sia la circostanza che la società contribuente abbia avviato il trasporto intracomunitario al fine di realizzare la distribuzione di carburante ai consumatori finali dopo l'immissione in libera pratica nella Repubblica Ceca e così fruire del margine commerciale derivante da tale attività economica (§ 48), sia la circostanza che la società contribuente abbia iniziato il trasporto saldando una fattura di acconto al primo operatore economico della catena di operazioni di acquisto e rivendita ancor prima di aver effettuato il carico del carburante in locali situati negli Stati membri di partenza, abbia poi effettuato il trasporto con i propri veicoli e non abbia fatturato il prezzo del rispettivo trasporto (§ 49).

La fattispecie esaminata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea è anteriore (cfr. circolare Assonime del 19 dicembre 2019, n. 29, § 5.4, ove si rileva che “la norma in parola regola esclusivamente il caso in cui il trasporto o la spedizione dei beni è posto in essere dall’operatore intermedio (ovvero da terzi per suo conto). Essa non incide, quindi, sulla possibilità di continuare ad applicare la già vigente semplificazione prevista, per le operazioni triangolari comunitarie, dagli articoli 42, 141 e 197 della Direttiva IVA in base ai quali il promotore della triangolare può designare come debitore d’imposta il destinatario finale dei beni. Di conseguenza, l’art. 36-bis non sarà applicabile nel caso in cui il trasporto o la spedizione sia effettuata dal primo cedente o dal destinatario finale”) rispetto all'inserimento dell'art. 36 bis della Direttiva IVA realizzato – nell'ambito della riforma della disciplina europea delle operazioni intracomunitarie in vigore dal 1° gennaio 2020 (detta riforma è stata realizzata con la Direttiva n. 2018/1910 e con il Regolamento di esecuzione n. 2018/1912. Con la l. 22 aprile 2021, n. 53 è stata attribuita al Governo la delega per il recepimento della Direttiva n. 2018/1910. Il 29 luglio 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato in sede preliminare lo schema di decreto di attuazione della Direttiva n. 2018/1910) – con l'obiettivo di fissare le condizioni al cui ricorrere è individuata la sola delle cessioni successive all'interno di una catena di operazioni, alla quale viene imputato l'unico trasporto intracomunitario di beni e che quindi beneficia del regime previsto per l'acquisto intracomunitario: secondo il Considerando n. 6 della Direttiva n. 2018/1910, “la circolazione intracomunitaria dei beni dovrebbe essere imputata a una sola delle cessioni e solo detta cessione dovrebbe beneficiare dell'esenzione dall'IVA prevista per le cessioni intracomunitarie”, mentre “le altre cessioni nella catena dovrebbero essere soggette a imposizione e potrebbero necessitare dell'identificazione IVA del cedente nello Stato membro di cessione

L'art. 36 bis della Direttiva IVA prevede che, “qualora lo stesso bene sia successivamente ceduto e sia spedito o trasportato da uno Stato membro a un altro direttamente dal primo cedente all'ultimo acquirente nella catena, la spedizione o il trasporto sono imputati unicamente alla cessione effettuata nei confronti dell'operatore intermedio” (paragrafo 1), mentre “la spedizione o il trasporto sono imputati unicamente alla cessione di beni effettuata dall'operatore intermedio se quest'ultimo ha comunicato al cedente il numero di identificazione IVA attribuitogli dallo Stato membro a partire dal quale i beni sono spediti o trasportati” (paragrafo 2). Infine per “operatore intermedio” “s'intende un cedente all'interno della catena diverso dal primo cedente della catena, che spedisce o trasporta i beni esso stesso o tramite un terzo che agisce per suo conto” (paragrafo 3). La disciplina de qua non si applica alle situazioni di cui all'art. 14 bis della Direttiva IVA (paragrafo 4).

Nelle “Explanatory Notes on the EU VAT changes in respect of call-off stock arrangements, chain transactions and the exemption for intra-Community supplies of goods (“2020 Quick Fixes”)”, pubblicate nel dicembre del 2019 e non vincolanti giuridicamente, dopo aver ribadito che l'operatore intermedio è “a supplier within the chain other than the first supplier who dispatches or transports the goods either himself or through a third party acting on his behalf” (§ 3.6.3), la Commissione Europea precisa che “The intermediary operator needs to keep evidence that the goods have been transported or dispatched by himself (on his own behalf) or by a third party on his behalf. Such evidence is necessary to determine that he is the intermediary operator and therefore, to which transaction in the chain the transport is ascribed. […] Therefore, there are two different proofs that are necessary: the proof of the organisation of the transport (meaning the proof that the transport has been made “by or on behalf” of a certain taxable person) and the proof of the transport itself (meaning the proof that the goods have indeed been transported from one Member State to another)” (§ 3.6.9). Con riferimento alla definizione di “operatore intermedio” supra riprodotta la Commissione Europea, dopo aver ribadito che “the intermediary operator will be the supplier within the chain who organises (either directly himself or through a third party acting on his behalf) the transport of the goods; the person who either makes the transport himself on his own behalf, or contracts the transport with a third party who will act on his behalf”, ha espressamente richiamato le conclusioni presentate dall'Avvocato Generale Kokott nella causa Herst: secondo tale impostazione, “nell'imputare il singolo spostamento transfrontaliero della merce a una determinata cessione all'interno di un'operazione a catena è determinante stabilire su quale soggetto, nell'ambito del trasporto transfrontaliero del bene, gravi il rischio di perdita per distruzione accidentale della merce. Questa cessione rappresenta la cessione intracomunitaria esente localizzata all'inizio del trasporto” (excerpta dal § 79 delle conclusioni presentate il 3 ottobre 2019 dall'Avvocato Generale Kokott nella causa Herst; cfr. inoltre §§ 40-54, ove sono esplicitate le argomentazioni a supporto di tale criterio di imputazione del trasporto transfrontaliero all'interno di una catena di approvvigionamento). Bisogna inoltre rilevare che, nella sentenza in commento, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea non ha ripreso le richiamate conclusioni. Corre infine l'obbligo ricordare che, secondo l'Avvocato Generale Kokott, “nel caso di specie, l'assunzione dei costi di trasporto da parte della Herst può essere valutata unicamente come indizio del fatto che essa ha agito per proprio conto quale fornitore. Tuttavia, poiché , di norma, l'acquirente sopporta sempre, sotto il profilo economico, i costi del trasporto (ricompresi nel prezzo o in aggiunta), tale indizio non è però convincente. Se il venditore […] riesce ad addebitare i costi del trasporto sul prezzo, ma la Herst sopporta il rischio della perdita accidentale durante il trasporto, allora il trasporto transfrontaliero deve essere ciononostante imputato alla Herst” (§ 47).

La Commissione Europea osserva che, secondo le circostanze del caso concreto, il riferimento al rischio di perdita per distruzione accidentale della merce come criterio di imputazione  potrebbe generale alcune difficoltà pratiche: “it might be, for instance, that the risk for accidental loss of the goods is split between the seller and the buyer on certain points of the transport according to the Incoterm used”. In questi casi, “in order to determine who is the intermediary operator, the most suitable criterion would be that of the taxable person within the chain that transports the goods himself or makes the necessary arrangements with a third party for the transport of the goods, concluding a contract with that third party. This unless in such cases the taxable person in question can prove to the satisfaction of the tax authorities that in fact the transport was made, or the contract concluded, on behalf of another taxable person in the chain who was in fact bearing the risk of accidental loss of the goods during the transport operation. In that regard, we would like to stress that the fact that one of the parties in the chain pays for the transport is not enough on its own to conclude that this person is the intermediary operator. That party could pay the price of the transport, for instance, as a partial payment of the supply made to him”.

 

  1. Il principio in dubio mitius e l'efficacia nel tempo delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. – La sentenza in rassegna affronta un altro profilo giuridico di grande rilevanza concettuale. Ritenendo che sussista un dubbio esegetico in merito alla incidenza del regime di sospensione dall'accisa sulle condizioni che disciplinano il trasferimento del potere di disporre del bene come proprietario ex 20 della Direttiva IVA, il Giudice del rinvio, dopo aver ricordato che la Corte Costituzionale della Repubblica Ceca ha sancito il principio in dubio mitius, in forza del quale deve andare a vantaggio del contribuente il dubbio sussistente in merito all'interpretazione di una norma di diritto tributario nazionale nell'ambito di una controversia con l'Amministrazione finanziaria, chiede se, nell'ipotesi in cui l'interpretazione fornita dalla Corte Di Giustizia dell'Unione Europea nell'emananda sentenza dovesse essere sfavorevole alla società contribuente, essa debba conformarvisi, nonostante il summenzionato principio costituzionale di diritto nazionale, e se gli effetti di tale sentenza della Corte non debbano essere limitati alle situazioni giuridiche successive alla sua pronuncia (cfr. §§ 26-29).

Il principio in dubio mitius rientra tra i criteri pretori di interpretazione dei trattati internazionali e impone di limitare nella misura minore possibile la sovranità degli Stati contraenti (cfr. H Lauterpacht, Interpretation and the principle of effectiveness in the interpretation of treaties, in British Yearbook of International Law, 1949, 62). Ad esempio, se applicato all'esegesi delle convenzioni contro le doppie imposizioni, detto principio impone l'interpretazione meno onerosa per la parte che assume un obbligo, o che produce minori limitazioni alla sfera territoriale e personale di una parte, o che, in genere, importa restrizioni minori per le parti (così G. Melis, L'interpretazione del diritto tributario internazionale e il problema delle c.d. “qualificazioni”, relazione pubblicata sul sito www.giustizia-tributaria.it).

Nella sentenza in rassegna la Corte di Giustizia dell'Unione Europea osserva che in un precedente arresto (Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza 19 dicembre 2018, causa C-414/17, AREX CZ a.s., § 76) la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha già espressamente negato ogni incidenza del regime di sospensione dall'accisa sulle condizioni che disciplinano il trasferimento del potere di disporre del bene come proprietario ex art. 20 della Direttiva IVA, senza limitare nel tempo gli effetti di tale interpretazione della Direttiva IVA (§§ 58 e 59). Ne consegue che il diritto dell'Unione Europea osta a che un giudice nazionale, di fronte ad una disposizione di diritto tributario nazionale, trasponente una disposizione della Direttiva IVA, che si presta a più interpretazioni, accolga l'interpretazione più favorevole al soggetto passivo, basandosi sul principio costituzionale nazionale in dubio mitius, anche dopo che la Corte di Giustizia dell'Unione Europea abbia dichiarato che siffatta interpretazione è incompatibile con il diritto eurounitario (il principio di diritto è stato confermato in Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza 6 ottobre 2020, cause riunite C-511/18, C-512/18 e C-520/18, La Quadrature du Net e a., § 220).

Secondo la costante giurisprudenza europea (Corte di Giustizia UE, sentenza del 27 marzo 1980, causa 61/79, Denkavit italiana s.r.l., § 16; Corte di Giustizia UE, sez. VI, sentenza del 19 ottobre 1995, causa C-137/94, Richardson, § 31; Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza del 6 marzo 2007, causa C-292/04, Meilicke e a., § 34; Corte di Giustizia UE, sez. II, sentenza del 22 settembre 2016, causa C-110/15, Microsoft Mobile Sales International e a., § 59; Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza del 13 dicembre 2018, causa C-385/17, Hein, § 56), “l'interpretazione di una norma di diritto dell'Unione, da essa fornita nell'esercizio della competenza attribuitale dall'articolo 267 TFUE, chiarisce e precisa il significato e la portata della norma stessa, nel senso in cui deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata sin dalla data della sua entrata in vigore. Ne consegue che la norma così interpretata può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza che statuisce sulla domanda d'interpretazione, sempreché, per il resto, sussistano i presupposti per sottoporre al giudice competente una lite relativa all'applicazione di detta norma” (§ 54).

Il Collegio ritiene che l'applicazione del principio costituzionale nazionale in dubio mitiusequivarrebbe […] a limitare gli effetti nel tempo dell'interpretazione, accolta dalla Corte, delle disposizioni del diritto dell'Unione la cui trasposizione è avvenuta mediante le suddette disposizioni di diritto nazionale, poiché, in tal modo, detta interpretazione non troverebbe applicazione nel procedimento principale” (§ 55 - in motivazione sono richiamate – per analogia con il principio della tutela del legittimo affidamento – Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza del 19 aprile 2016, causa C-441/14, Dansk Industri (DI), § 39, e Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza del 13 dicembre 2018, causa C-385/17, Hein, § 61) e ricorda che “solo in via eccezionale, in applicazione di un principio generale della certezza del diritto intrinseco all'ordinamento giuridico dell'Unione, la Corte può essere indotta a limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata per rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. Affinché una tale limitazione possa essere disposta, è necessario che siano soddisfatti due criteri essenziali, ossia la buona fede degli ambienti interessati e il rischio di gravi inconvenienti” (§ 56 - Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza del 10 gennaio 2006, causa C-402/03, Skov e Bilka, § 51; Corte di Giustizia UE, sez. I, sentenza del 3 giugno 2010, causa C-2/09, Kalinchev, § 50; Corte di Giustizia UE, sez. III,  sentenza del 27 febbraio 2014, causa C-82/12, Transportes Jordi Besora SL, § 41; Corte di Giustizia UE, sez. II, sentenza del 22 settembre 2016, causa C-110/15, Microsoft Mobile Sales International e a., § 60; Corte di Giustizia UE, sez. IV, sentenza del 13 dicembre 2018, causa C-385/17, Hein, §57). Il principio secondo cui una limitazione nel tempo degli effetti di siffatta interpretazione può essere ammessa solo nella sentenza stessa che statuisce sull'interpretazione richiesta garantisce la parità di trattamento degli Stati membri e degli altri soggetti dell’ordinamento nei confronti di tale diritto e rispetta, allo stesso modo, gli obblighi derivanti dal principio della certezza del diritto (§ 57 - Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza del 6 marzo 2007, causa C-292/04, Meilicke e a., § 37; Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza del 23 ottobre 2012, cause C-581/10 e C-629/10, Nelson e a., § 91).

 

  1. (Segue) L'attribuzione pretoria di efficacia ex nunc e l'interesse fiscale nazionale. – Secondo la costante giurisprudenza eurounitaria, l'esegesi resa dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea in sede di rinvio pregiudiziale è vincolante non solo a livello endoprocessuale, vale a dire per il giudice che ha sollevato la questione (Corte di Giustizia UE, sentenza 3 febbraio 1977, causa C-52/76, Benedetti; Corte di Giustizia UE, sentenza 5 marzo 1986, causa C-69/85, Wünsche Handelgesellschaft Gmbh & Co.), ma anche ultra partes come precedente rispetto ad altre fattispecie concrete regolate dalla medesima norma europea oggetto di interpretazione ( Corte Cost., 23 aprile 1985, n. 113 e Corte Cost., 18 aprile 1991, n. 168, nelle quali è stata affermata l'immediata applicabilità delle statuizioni delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia dell'Unione Europea pronunciate in via pregiudiziale), evocando il principio dello stare decisis di matrice anglosassone: ad esempio, secondo Cass., sez. unite civ., 5 giugno 1997, n. 9653, “l'interpretazione dei diritto comunitario, con efficacia vincolante per tutte le autorità (giurisdizionali o amministrative) degli Stati membri, anche ultra partes compete alla Corte di Lussemburgo”. Poiché ai sensi dell'art. 19 TFUE la Corte di Giustizia dell'Unione Europea assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati, “se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di Giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative. […] È alla stregua dei principi appena ricordati che si attribuisce alle sentenze della Corte di Giustizia il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità. Tale efficacia va riconosciuta a tutte le sentenze della Corte di Giustizia, sia pregiudiziali [...], sia che siano emesse in sede contenziosa [...]”.

Le pronunce della Corte di Giustizia dell'Unione Europea producono effetti ex tunc: infatti l'interpretazione di una norma di diritto europeo data dalla Corte del Lussemburgo “chiarisce e precisa [...] il senso e la portata della norma stessa, quale deve o avrebbe dovuto essere compresa e applicata dal momento della sua entrata in vigore” (Corte di Giustizia UE, sentenza 2 febbraio 1988, causa C-309/85, Barra): ne consegue che “la norma così interpretata può e deve essere applicata dal giudice” anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza che ha pronunciato sulla domanda pregiudiziale (Corte di Giustizia UE, sentenza 2 febbraio 1988, causa C-309/85, Barra).

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha talora alterato l'efficacia nel tempo delle pronunce pregiudiziali applicando anche ad esse la norma enunciata per le pronunce di annullamento dall'art. 264, § 2, TFUE (ex art. 231 TCE), in forza della quale “la Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi”. La limitazione dell'efficacia temporale è ammessa soltanto in via eccezionale (Corte di Giustizia UE, sentenza 27 marzo 1980, causa 61/79, Denkavit italiana, § 17): nella stessa sentenza che statuisce sulla questione pregiudiziale, “la Corte, in nome del principio generale della certezza del diritto inerente all'ordinamento giuridico comunitario e in considerazione dei gravi inconvenienti che la sentenza potrebbe causare per il passato nei rapporti giuridici costituiti in buona fede, può decidere di limitare la possibilità degli interessati di valersi della disposizione da essa interpretata onde rimettere in questione detti rapporti giuridici” (cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza 2 febbraio 1988, causa C-309/85, Barra; cfr. anche Corte di Giustizia UE, sentenza 27 marzo 1980, cause riunite C-66/79, C-/79127 e C-128/79, Salumi). “È infatti necessario che ci sia un momento unico di determinazione degli effetti nel tempo dell’interpretazione richiesta alla Corte e da quest’ultima fornita in merito ad una disposizione di diritto comunitario. A tale proposito, il principio secondo cui una limitazione può essere ammessa solo nella sentenza stessa che statuisce sull’interpretazione richiesta garantisce la parità di trattamento degli Stati membri e degli altri soggetti dell’ordinamento nei confronti di tale diritto e rispetta, allo stesso modo, gli obblighi derivanti dal principio della certezza del diritto” (Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 6 marzo 2007, causa C-292/04, Wienand Meilicke, § 37).

L'attribuzione pretoria di efficacia ex nunc subisce due eccezioni.

In primo luogo, sono fatti salvi i diritti di coloro i quali abbiano già promosso un'azione giudiziaria o proposto un reclamo equipollente (così Corte di Giustizia UE, sentenza 8 aprile 1976, causa C-43/75, Defrenne, §§ 71-75, ove si osserva inoltre quanto segue: “Benché le conseguenze pratiche di ogni pronunzia giurisdizionale vadano accuratamente soppesate, non si può tuttavia spingersi fino a distorcere l'obiettività del diritto od a comprometterne la futura applicazione, per tener conto delle ripercussioni che un provvedimento giurisdizionale può avere per il passato. Cionondimeno, di fronte al comportamento di vari Stati membri ed agli atteggiamenti assunti dalla Commissione e portati ripetutamente a conoscenza degli ambienti interessanti, è opportuno tener conto, in via eccezionale, del fatto che gli interessati sono stati indotti per un lungo periodo a tener ferme pratiche in contrasto con l'art. 119, benché non ancora vietate dal rispettivo diritto nazionale. Il fatto che la Commissione non abbia promosso, nei confronti di determinati Stati membri, dei ricorsi per infrazione [...], nonostante gli avvertimenti da essa dati, è stato atto a corroborare un'opinione erronea circa l'efficacia dell'art. 119”).

In secondo luogo, spetta alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea determinare se una deroga a tale limitazione “possa essere prevista a favore della parte della causa principale che abbia impugnato dinanzi al giudice nazionale l'atto […] o se, al contrario, anche nei confronti della detta parte la declaratoria […] con effetti unicamente ex nunc costituisca un rimedio adeguato” (Corte di Giustizia UE, sentenza 15 ottobre 1980, causa C-228/92, Roquette Frères).

Tra i “gravi inconvenienti” che la sentenza interpretativa può causare rientra anche la compromissione dell'interesse fiscale nazionale. Le rilevanti ricadute finanziarie sono state ripetutamente valorizzate dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea per limitare la portata retroattiva delle proprie pronunce (cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza 27 febbraio 1985, causa C-112/83, Société des produits de maïs; Corte di Giustizia UE, sentenza 10 marzo 1992, cause C-38/90 e C-151/90, Lomas; Corte di Giustizia UE, sentenza 9 novembre 2010, cause C-92/09 e C-93/09, Schecke). Pur avendo affermato che “le conseguenze finanziarie che potrebbero derivare ad un governo dall'illegittimità di una tassa o di un'imposta non hanno mai giustificato, di per sé, la limitazione degli effetti di una sentenza della Corte” e che “limitare gli effetti di una sentenza fondandosi soltanto su considerazioni di questa natura porterebbe ad una sostanziale riduzione della tutela giurisdizionale dei diritti che i contribuenti traggono dalla normativa fiscale comunitaria” (excerpta da Corte di Giustizia UE, sentenza 13 febbraio 1996, cause C-197/94 e C-252/94, Bautiaa, § 55), la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha ripetutamente limitato gli effetti nel tempo delle sentenze interpretative in materia tributaria (cfr., ad esempio, Corte di Giustizia UE, sentenza 14 settembre 1995, cause riunite C-485/93 e C-486/93, Simitzi; Corte di Giustizia UE, sentenza 7 novembre 1996, causa C-126/94, Cadi Surgelés), argomentando anche sulla base di altri elementi, come, ad esempio, l'incertezza circa la legittimità del tributo generata dalla condotta delle istituzioni europee (cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza 16 luglio 1992, causa C-163/90, Legros, ove si rileva quanto segue: “31 Quanto alla presente causa, le caratteristiche dal dazio di mare nonché le peculiarità dei DOM francesi hanno creato una situazione di incertezza circa la legittimità di tale tributo sotto il profilo del diritto comunitario. Siffatta incertezza trova del resto un suo riflesso nel comportamento tenuto dalle istituzioni comunitarie in ordine al problema del dazio di mare. 32 Infatti, in primo luogo la Commissione ha rinunciato a proseguire il procedimento per inadempimento avviato contro la Francia relativamente al dazio di mare. Essa ha poi proposto al Consiglio la decisione 89/688, la quale, tra gli altri obiettivi, contiene anche quello di consentire in via provvisoria il mantenimento del dazio di mare, nell'ambito del citato programma Poséidom. Da ultimo, nel terzo e quarto 'considerando' della medesima decisione si precisa che “il dazio di mare costituisce attualmente un elemento di sostegno alle produzioni locali esposte a varie difficoltà a causa della lontananza e dell'insularità”, e che “si tratta inoltre di uno strumento essenziale di autonomia e di democrazia locale, i cui proventi devono costituire un mezzo di sviluppo economico e sociale dei DOM”. 33 Siffatte circostanze hanno potuto indurre la Repubblica francese, nonché le autorità locali dei DOM, a ritenere ragionevolmente che la normativa nazionale in materia fosse conforme al diritto comunitario”. Nel prosieguo della motivazione riaffiora l'interesse fiscale nazionale: infatti la Corte di Giustizia dell'Unione Europea osserva che, “stando così le cose, condizioni tassative di certezza del diritto ostano alla possibilità di rimettere in discussione rapporti giuridici che hanno esaurito i loro effetti nel passato, dal momento che ciò sconvolgerebbe retroattivamente il sistema di finanziamento degli enti territoriali dei DOM francesi” (§ 34)).