Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

16/08/2021 - Spunti dalle coeve sentenze “Amazon” ed “Engie”: la commissione quale futura “direzione europea” delle agenzie fiscali nazionali?

argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza

Le due sentenze affrontano il tema del rapporto tra divieto di aiuti di Stato e rulings fiscali. Pur partendo dai medesimi principi, gli esiti delle due pronunce sono diametralmente opposti. Ciò a causa della diversità di fattispecie alla attenzione del Tribunale, la prima di carattere trans-nazionale (Amazon), la seconda puramente domestica (Engie). Nonostante ciò, entrambe le pronunce – facendo proprio l’approccio della Commissione europea in materia – mostrano di assegnare a quest’ultima un ruolo molto vicino a quello di una amministrazione fiscale nazionale.

PAROLE CHIAVE: aiuti di Stato - transfer pricing - tax ruling


di Francesco Pepe

  1. Nella stessa giornata – il 12 maggio 2021 – il Tribunale di primo grado dell’Unione europea ha aggiunto due nuovi tasselli alla sua (oramai già ricca) giurisprudenza sulla compatibilità dei rulings fiscali con il divieto di aiuti di Stato. Trattasi di due distinte sentenze, pronunciate entrambe nei confronti del Granducato di Lussemburgo, e relative a società lussemburghesi – rispettivamente – del gruppo Amazon (cause T-816/17 e T-318/18, reperibile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/?uri=CELEX:62017TJ0816) e del gruppo Engie (cause T-516/18 e T-525/18, reperibile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/?uri=CELEX:62018TJ0516). Il contesto nel quale queste ultime vanno collocate è noto, e riguarda quella che altrove si voluto definire “dottrina Vestager”: l’uso del divieto di aiuti di Stato (artt. 107 ss. TFUE) quale leva per contrastare forme di “pianificazione fiscale aggressiva” (ATP) e/o di “competizione fiscale dannosa” (HTC) realizzate da gruppi multinazionali (MNEs) tramite – appunto – tax rulings “compiacenti”, concessi dalle amministrazioni fiscali statali a società ivi localizzate, e suscettibili di concedere loro un trattamento fiscale individuale (relativamente) meno oneroso, anche tramite una valorizzazione dei prezzi di trasferimento “infra-gruppo” non in linea con il cd. arm’s lenght principle, (ALP) (sul punto, sia consentito il rinvio a F. Pepe, Sulla tenuta giuridica e sulla praticabilità geo-politica della “dottrina Vestager” in materia di tax rulings e aiuti di Stato alle imprese multinazionali, in Riv. trim. dir. trib., 2017, 703 ss.).

Delle due, la sentenza Amazon – come può intuirsi, per la notorietà del soggetto – è quella che ha avuto il maggior risalto mediatico. L’ennesima “sconfitta” della Vestager, dell’uso “punitivo” (ed in questo certamente ideologico, se non addirittura “populista”: J.D. Wright, A. Portuese, Antitrust Populism: Towards a Taxonomy, in Stanford Journal of Law, Business, and Finance, Vol. 21, No. 1, 2020, spec. 27 ss., https://ssrn.com/abstract=3400274) della normativa antitrust contro i “giganti del web” americani non solo ha da subito sollevato polemiche da parte di molti gruppi politici in seno al Parlamento Europeo,  (https://www.ansa.it/europa/notizie/europarlamento/news/2021/05/12/leuroparlamento-reagisce-alla-sentenza-della-corte-ue-su-amazon_fe42ffd4-8106-4e87-9952-a9f8772bfed4.html), ma ha anche fatto dubitare dell’attuale praticabilità tecnica di un simile approccio, fondato su schemi di ragionamento e su criteri (l’ALP) probabilmente oggi inadeguati ad una economia “digitalizzata”. Come è stato scritto, “[f]orse è meglio prendere atto che in questa materia non esistono risultati “oggettivi”, ma che essi vanno semplicemente negoziati per garantire gettito anche al paese che ospita la tecnologia, chiaro essendo che qui conteranno i rapporti di forza. Il valore di mercato (fair market value), insomma, è pia illusione” (così, condivisibilmente, T. Di Tanno, Sorpresa: Amazon è in regola con le tasse nella UE, in lavoce.info, 21 maggio 2021, https://www.lavoce.info/archives/74548/sorpresa-amazon-e-in-regola-con-le-tasse-nella-ue/); nella prospettiva di una evoluzione verso forme di “diplomazia fiscale”, negoziata, con le MNEs, sia consentito il rinvio a F. Pepe, Dal diritto tributario alla diplomazia fiscale. Prospettive di regolazione giuridica delle relazioni fiscali internazionali, Milano, 2020).

 

  1. 2. A ben vedere, però, con la decisione Amazon non si aggiunge nulla di nuovo rispetto a quanto statuito dalla più recente giurisprudenza europea. Il ruling Amazon ha ad oggetto un’operazione cross-border, grazie alla quale si riuscivano a “spostare” i profitti di una controllata lussemburghese operativa (società di capitali) verso la controllante statunitense, per il tramite di altra controllata lussemburghese (società di persone fiscalmente “trasparente”), ed in sostanziale esenzione di imposta: (i) LuxOpCo (società di capitali, operativa, autonomamente tassata) pagava a LuxSCS (società holding sua controllante) canoni per (sub)licenza di utilizzo di IP, che deduceva come costi; (ii) LuxSCS (società di persone, tassata per trasparenza) conseguiva tali royalties, che però (poiché tassata per trasparenza) non assoggettava ad imposizione in Lussemburgo, ma imputava direttamente in capo ai soci (americani) secondo le norme del Trattato Stati Uniti-Lussemburgo sulle doppie imposizioni. Il ruling, da un lato, confermava la tassazione per trasparenza di LuxSCS, dall’altro, avallava una determinazione (mediante TNMM) delle royalties pagate da LuxOpCo a LuxSCS ritenuta dalla Commissione sovradimensionata rispetto all’ALP, tale cioè da abbattere pressoché completamente l’imponibile di LuxOpCo.

Con la sentenza Amazon, il Tribunale UE ribadisce, pressoché pedissequamente, quanto già affermato in tutte le analoghe pronunce emesse nei mesi precedenti sulle medesime questioni ed in relazione al rispetto dell’ALP (cfr. Tribunale UE, 14 febbraio 2019, cause T-131/16, Regno del Belgio c. Commissione, e T-263/16, Magnetrol International c. Commissione; 24 settembre 2019, cause T-760/15, Regno dei Paesi Bassi c. Commissione, e T-636/16, Starbucks Corp. e Starbucks Manufactoring Emea BV c. Commissione; 24 settembre 2019, cause T-755/15, Granducato di Lussemburgo c. Commissione, e T-759/15, Fiat Chrisler Finance Europe c. Commissione; 15 luglio 2020, cause T-778/16, Irlanda c. Commissione, e T-892/16, Apple Sales International e Apple Operating Europe c. Commissione; per una panoramica delle decisioni della Commissione in materia: https://ec.europa.eu/competition-policy/state-aid/tax-rulings_en#ecl-inpage-506). Anche in essa si è infatti confermata, in linea di principio, la legittimità giuridica della “dottrina Vestager”, la possibilità cioè di usare la disciplina sugli aiuti di Stato per contrastare tax ruling individuali non in linea con l’ALP (cfr. sentenza Amazon, pp. 114-120). Anche in essa, se ne sono ribaditi i limiti e le “condizioni d’uso”, ossia: (i) la necessità di provare in modo rigoroso la “non plausibilità” o la scarsa “adeguatezza” del metodo di determinazione dei prezzi “di libera concorrenza” (o di attribuzione dei profitti) adottato nel ruling (del metodo in sé o dei suoi elementi); cui deve affiancarsi necessariamente (ii) l’identificazione di una diversa e più “plausibile” metodologia di calcolo e la prova che questa, se applicata al caso concreto, avrebbe condotto ad un maggior prelievo in capo alla MNE destinataria del ruling, a meno che gli “errori metodologici” nel ruling non siano tali da determinare di per sé stessi, logicamente ed inevitabilmente una riduzione dell’imponibile (cfr. sentenza Amazon, pp. 123, 125, 126). Anche in essa – come nel più noto caso Apple – si è infine ritenuto che la Commissione non avesse adeguatamente fornito prove sufficienti a rispettare tali condizioni, non avesse cioè fornito la prova non solo dell’erroneità del metodo di quantificazione dell’ALP utilizzato (TNMM) in sé e/o nei suoi risvolti specifici (scelta della tested party, previsione di un massimale), ma anche della sua concreta “vantaggiosità” sul piano impositivo (https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2021-05/cp210079it.pdf). Da cui l’annullamento della decisione di recupero degli aiuti di Stato (su questi aspetti, sia consentito rinviare a F. Pepe, How to Dismantle an Atomic Bomb”: osservazioni sul caso Apple e sulla prima giurisprudenza europea in materia di rulings fiscali, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 329 ss.).

 

  1. 3. Molto più interessante quanto invece affermato nella sentenza Engie, la quale – pur toccando il medesimo tema, e pur ribadendo gli stessi principi giuridici – tuttavia ha ad oggetto una fattispecie profondamente diversa. E, non a caso, ha un diverso esito.

Il caso Engie attiene infatti a due (identiche) operazioni interamente domestiche (coinvolgenti cioè solo soggetti localizzati in Lussemburgo) e nelle quali il vantaggio fiscale per il gruppo sarebbe derivato dall’impiego di una struttura “ibrida” di finanziamento: (a) la società operativa LNG Supply (GSTM nella seconda operazione) acquistava un asset da altra società del gruppo (LNG Trading); (b) la somma versata per l’acquisto da parte di LNG Supply (GSTM) veniva però fornita da LNG Lux (EIL nella seconda operazione), anch’essa controllata del gruppo, sulla base di un contratto di finanziamento del tutto peculiare; un contratto che infatti non prevedeva il pagamento periodico di interessi sul capitale finanziato (come di norma), ma che – alla sua scadenza (15 anni) – imponeva l’attribuzione da parte della finanziata LNG Supply (GSTM) alla finanziatrice LNG Lux (EIL) di azioni proprie di valore pari al valore nominale del prestito (capitale di debito così “convertito” in capitale di rischio, in regime di “neutralità” fiscale), maggiorate di una somma pari all’ammontare dei profitti conseguiti nel quindicennio da LNG Supply (GSTM), al netto di un “margine” tassato (contratto cd. ZORA); (c) la somma però che LNG Lux (EIL) forniva a LNG Supply (GSTM) veniva a sua volta messa a disposizione alla prima da una holding lussemburghese del gruppo, ossia la LNG Holding (CEF nella seconda operazione) in forza di un “accordo di trasferimento” (Forward Contract) in virtù del quale, all’atto della “conversione” del prestito in azioni (attuata in base all’accordo ZORA), essa avrebbe trasferito automaticamente dette azioni alla (si passi l’espressione) “finanziatrice di ultima istanza”, cioè LNG Holding (CEF).

Ebbene, secondo la Commissione, tale operazione avrebbe consentito – alla LNG Holding (CEF) e, per traslato, al gruppo Engie – di ottenere un vantaggio fiscale individuale (indebito e selettivo), quale effetto di una “doppia non imposizione” infra-gruppo, frutto della combinazione tra: (i) la deduzione dei costi di finanziamento da parte di LNG Supply (GSTM), pari all’accantonamento annuale dei profitti che poi, dopo 15 anni, sarebbero confluiti nel valore delle azioni assegnate a LNG Lux (EIL) (ZORA Accretions); (ii) della fruizione, da parte di LNG Holding (CEF), del regime domestico di participation exemption (pex) sui dividendi percepiti o sui capital-gains realizzati sulle azioni successivamente acquisite da questa in virtù del Forward Contract. Insomma, il classico caso di strumento “ibrido”, apprezzato contestualmente come “prestito” (deducibile relativamente alla propria componente di “costo”) e come “utile” (non imponibile secondo il regime di pex).

Sul punto, sia la Commissione nella sua decisione, che il Tribunale UE nella sua sentenza (della prima confermativa), nell’affermare la “selettività” e “vantaggiosità” del ruling, hanno seguito due linee di ragionamento distinte.

 

  1. 4. – La prima linea di ragionamento (quella che ha determinato la conferma della decisione) appare fondata soprattutto sulla valorizzazione di due nessi: (1) di un nesso in diritto, tra gli artt. 164 e 166 LIR, deputati a stabilire, il primo, la tassazione del reddito prodotto in capo alla società, indipendentemente dalla distribuzione, il secondo, l’esenzione dei dividendi distribuiti in capo ai soci (pex), e tale che la fruizione della pex in capo al socio sarebbe legata alla (previa) tassazione degli utili in capo alla società (questo il reference framework); (2) di un nesso in fatto, emergente dall’accordo ZORA, intercorrente tra gli accantonamenti di utili da parte di LNG Supply (GSTM) (ZORA Accretions), e la realizzazione (post-conversione e trasferimento delle azioni) di dividendi o capital-gains da parte di LNG Holding (CEF), essendo il valore delle azioni a quest’ultima (ri)trasferite eccedente il valore finanziamento erogato in misura esattamente corrispondente a tali profitti.

Si sostiene: il nesso in fatto (2) reciderebbe il nesso in diritto (1). I dividendi o capital gains soggetti alla pex scaturirebbero infatti da somme ab origine non trattate come “utili” (imponibili), ma come “costi” (deducibili). Il che avrebbe consentito a LNG Holding (CEF) – e, si ripete, per traslato al gruppo – di fruire di un vantaggio fiscale consistente sia nel maggior utile acquisito “a monte” (perché, grazie alle ZORA Accretions soggetto ad imposizione minore), che nella non imposizione “a valle” del medesimo, in virtù del regime pex (sentenza Engie, spec. pp. 288-301, 312, 317). La “scissione” soggettiva tra le due posizioni fiscali (tra chi deduce e chi esenta, rispettivamente LNG Supply/GSTM e LNG Holding/CEF) e la presenza di un intermediario nel finanziamento (LNG Lux/EIL) sarebbero poi circostanze irrilevanti: la prima perché si valorizza un approccio “sostanziale” e “complessivo” dell’operazione (attraverso la “combinazione” delle due condotte), la seconda perché – per effetto dell’automatico ed immediato trasferimento delle azioni alla loro “conversione” (in base al Forward Contract) – l’intermediario sarebbe in realtà un soggetto giuridico “di carta”, la cui presenza servirebbe a rendere meno “percepibile” all’esterno proprio il nesso in fatto sopra indicato (come successivamente, sebbene nell’ambito della seconda linea di ragionamento, esplicitato: cfr. sentenza Engie, pp. 423-424).

La seconda linea di ragionamento della Commissione (seppur valutata dal Tribunale solo per il suo carattere “innovativo”, ad abundantiam: cfr. sentenza Engie, pp. 382-383) segue una via in parte diversa: secondo Bruxelles, l’operazione compiuta all’interno del gruppo integrerebbe infatti un’operazione “abusiva” (non in virtù del relativo principio di matrice europea, bensì) secondo i crismi della “norma anti-abuso” prevista dal diritto nazionale lussemburghese (sentenza Engie, pp. 410 ss.). Come tale, essa non avrebbe potuto essere avallata in un tax ruling, poiché quest’ultimo – in quanto teso, in linea di principio, alla corretta applicazione ad un caso concreto della disciplina domestica (che costituisce per la Commissione il reference framework) – avrebbe dovuto decidere anche tenendo conto di tale norma, a pieno titolo ad essa appartenente (principio non contestato, invero, nemmeno dalla parti in causa: cfr. sentenza Engie, pp. 395-396). Altrimenti detto: se l’ordinamento nazionale prevede una norma “anti-abuso”, se l’operazione oggetto del ruling integra gli estremi di detta norma (i.e. dell’abuso, come da quest’ultima definito), ebbene il ruling non può permettere detta operazione, pena la lesione del divieto di aiuti di Stato in quanto – per utilizzare l’espressione fatta propria dalla dalla Commission Notice on the notion of State aid as referred to in Article 107(1) of the Treaty on the Functioning of the European Union, C/2016/2946 (punto 174, lett. a) – teso ad “[applicare] in modo errato la normativa fiscale nazionale”, con “riduzione dell'onere fiscale”.

 

  1. 5. Ebbene, l’aspetto di maggior interesse, a sommesso avviso di chi scrive, starebbe proprio in quest’ultimo profilo, ossia nella consacrazione giurisprudenziale – da parte del Tribunale UE, e sottesa ad entrambe le linee di ragionamento – di quanto previsto dal citato punto 174, lett. a) della Commission Notice: dal fatto che – nel valutare la selettività di un rulingè consentito alla Commissione verificare la corretta applicazione, da parte dell’amministrazione finanziaria nazionale, della normativa interna al caso di specie (norma “anti-abuso” compresa, se esistente).

Probabilmente, la Commissione (e, di riflesso, il Tribunale), nel far qui applicazione concreta della regola generale, hanno complicato un po’ troppo la questione. Al medesimo risultato si sarebbe potuti infatti pervenire seguendo una via più diretta e più semplice, ossia ri-qualificando il negozio di finanziamento tra LNG Lux (EIL) e LNG Supply (GSTM) (contratto ZORA) come negozio di investimento in capitale di rischio (e non in capitale di debito), al di là del nomen assegantogli dalle parti; questo sulla base di un dato oggettivo, esplicitato in contratto: la determinazione del “costo del finanziamento” non in ragione della misura del prestito (e del fattore tempo, come di norma), bensì in esatta corrispondenza agli eventuali profitti realizzati – medio tempore – dall’impresa finanziata (ossia di LNG Supply/GSTM). Ciò che estenderebbe il rischio di impresa di quest’ultima alla finanziatrice e che – notoriamente – costituirebbe il proprium degli atti di “conferimento” (come peraltro colto, ma in termini invertiti, dallo stesso Tribunale, che infatti evidenzia il carattere “ibrido” dello ZORA e la “asimmetria” dell’operazione, ma non per negarne la natura di “prestito” e la deducibilità dei relativi accantonamenti da parte di LNG Supply/GSTM, beni per escludere l’operatività del regime pex in capo alla LNG Holding/CEF: cfr. sentenza Engie, pp. 434-435, nell’ambito della seconda linea di ragionamento). Da qui la si sarebbero potuto sostenere la semplice indeducibilità degli ZORA Accretions in quanto non vere “spese di finanziamento”, ma “utili” pur accantonati a riserva, e la piana conseguenza circa la “selettività e vantaggiosità” del ruling, poiché (come detto) qui teso ad applicare (individualmente) in modo erroneo la normativa interna sulla deducibilità dei costi di finanziamento.

Ma, al di là di ciò, l’aspetto più interessante è che – come altrove già osservato (cfr. F. Pepe, Sulla tenuta giuridica e sulla praticabilità geo-politica della “dottrina Vestager, cit., 720-722) – tale approccio operativo di fatto avvicina di molto, nell’oggetto e nel modo, le indagini della Commissione a quelle di una qualsivoglia amministrazione finanziaria nazionale: lo scaturire del vantaggio dal ruling (e non dalla sua “base legale”), l’essere proprio quest’ultimo oggetto di valutazione della Commissione; l’essere tale valutazione orientata a verificare la legittimità dell’atto individuale in base alla normativa fiscale nazionale.

Ebbene, tutto questo fa sì che la Commissione – sebbene indirettamente, passando per il viatico legale del divieto di aiuti di Stato – finisca (volente o nolente, consapevole o meno) per assumere sostanzialmente il ruolo di autorità fiscale di secondo grado, gerarchicamente superiore e deputata al controllo delle singole decisioni amministrative (rulings) delle autorità fiscali nazionali. Si noti: giuridicamente non muta nulla (la Commissione formalmente agisce nell’ambito del controllo sugli aiuti di Stato, certamente di sua competenza, e le sue decisioni non determinano di per sé l’eliminazione formale dell’atto dal panorama giuridico, cioè il suo annullamento); tuttavia, l’obbligo di recupero della (minor) imposta versata (i.e. della successiva richiesta della maggior imposta ordinariamente dovuta) da parte dell’autorità nazionale conduce ad un risultato nella sostanza assimilabile ad un accertamento “integrativo o modificativo” rispetto a quello oggetto del ruling. Quasi che la Commissione fosse una sorta di “Direzione europea delle Entrate” con potere “sostitutivo” delle direzioni e degli uffici nazionali.

Ora, ci si può chiedere se tale linea non giunga ad alterare in fatto il riparto delle attribuzioni tra istituzioni europee e nazionali, specie secondo il principio di sussidiarietà, quindi, una violazione dei Trattati (degli artt. 4 e 5 TUE). Ci si può chiedere se – politicamente – ciò non possa rappresentare un fattore di disaggregazione nei rapporti tra istituzioni UE e Stati membri, ovvero – al contrario – non costituisca fonte di rafforzamento della rule of law fiscale (si noti) nazionale, ma “dall’esterno”, “per mano europea”. Ci si può chiedere – ancora – se questo ruolo (auto-)assunto dalla Commissione non possa addirittura essere preludio ad una futura “europeizzazione” del prelievo.

A questi interrogativi, ovviamente, non è possibile rispondere oggi ed in questa sede. Tutto però lascia supporre che, in ogni caso, l’assetto delle relazioni fiscali tra gli Stati membri sarà – in futuro, almeno quanto al trattamento delle MNEs – alquanto diverso da quello attuale.