Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

14/09/2020 - Caso Apple e ruling fiscali: per il Tribunale UE l’aiuto di Stato non č provato

argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza

Il Tribunale UE ha annullato in prima istanza la decisione della Commissione che ordinava il recupero degli aiuti concessi al Gruppo Apple dall’Irlanda attraverso due ruling fiscali. Preliminarmente, è stata confermata la competenza della Commissione a verificare – utilizzando l’arm’s length standard quale benchmark – se l’attribuzione di profitti ad una stabile organizzazione comporti un aiuto di Stato a norma dell’art. 107 TFUE. Nel merito, la Commissione non è riuscita a provare l’esistenza di un vantaggio, perché, nella stima degli utili imponibili di società non residenti che esercitano un’attività commerciale in Irlanda, avrebbe dovuto avere riguardo alle attività effettivamente svolte dalle branches, ai rischi assunti e al loro peso ai fini della creazione di valore del Gruppo

» visualizza: il documento (Tribunale UE, 15 luglio 2020, cause riunite T-778/16 e T-892/16 ) scarica file

PAROLE CHIAVE: - apple - aiuti di Stato - tax ruling - onere della prova


di Chiara Francioso

  1. Di recente il Tribunale UE ha annullato in prima istanza la Decisione della Commissione europea sugli aiuti di Stato individuali concessi a società del Gruppo Apple (Apple Sales International e Apple Operations Europe) attraverso due ruling preventivi irlandesi. La Decisione di recupero del 30 agosto 2016 aveva avuto vasta eco presso i media sia per l’entità della somma (circa 13 miliardi di euro), che non ha precedenti, sia per l’apparente impiego inedito di un arm’s length standard Infatti, sebbene anche le prime decisioni emesse nei confronti del Lussemburgo (Fiat) e dell’Olanda (Starbucks) facessero riferimento a tale possibilità, l’ordinamento irlandese era l’unico che non prevedeva, durante la vigenza dei ruling scrutinati, una disciplina sui prezzi di trasferimento né recepiva l’arm’s length standard raccomandato dalle linee guida OCSE.

In linea con le sentenze di primo grado Fiat e Starbucks, il Tribunale ha respinto le questioni preliminari sollevate dallo Stato e dalle società ricorrenti relative alla violazione dell’autonomia fiscale degli Stati membri e all’illegittimità dell’arm’s length standard impiegato dalla Commissione. Tuttavia, a differenza del caso Fiat e analogamente al caso Starbucks, i giudici hanno rilevato l’insufficienza di prove a supporto dell’accertamento del vantaggio ex art. 107 TFUE.

Come noto, secondo l’interpretazione consolidata dell’art. 107 TFUE, può integrare un aiuto di Stato ad un’impresa un vantaggio che al contempo abbia origine statale, sia idoneo ad incidere sulla concorrenza e sugli scambi tra Stati membri e sia selettivo. La Commissione ritiene che la manipolazione dei prezzi di trasferimento, talora unita allo sfruttamento di strutture ibride, possa generare un’allocazione dei profitti tra le varie entità di un gruppo societario non conforme alla realtà economica.

In particolare, la decisione oggetto del giudizio aveva accertato un consolidato meccanismo di pianificazione internazionale che consentiva al gruppo di convogliare i ricavi di tutte le vendite online concluse fuori dal territorio statunitense verso due società apolidi dotate di branches irlandesi. Solo una piccola porzione dei profitti veniva attribuita e tassata in capo alle filiali irlandesi, sulla base del metodo di stima individuato nei due ruling censurati; la restante porzione rimaneva non tassata a causa del disallineamento di residenza. La Commissione ha ritenuto che una simile allocazione dei profitti, generando un risparmio fiscale nell’UE, costituisse un vantaggio, conferito con risorse statali, ai sensi dell’art. 107 TFUE. In sede d’indagine, il requisito della selettività è stato ritenuto soddisfatto per via della natura individuale dell’APA e dell’ampia discrezionalità dell’amministrazione irlandese che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, se «consent[e] [all’] autorità di determinare i beneficiari o le condizioni della misura concessa non può considerarsi avente carattere generale» e può anzi «consentirle di favorire determinate imprese o produzioni a scapito di altre» (Corte giust., 18 luglio 2013, C-6/12, P Oy; Id., 25 luglio 2018, C-128/16, Commissione c. Spagna). La potenziale lesione alla libera concorrenza e agli scambi fra Stati è stata invece presunta sulla base del carattere multinazionale del gruppo, operante in diversi Paesi dell’Unione.

  1. Secondo i ricorrenti (con argomentazioni supportate da alcuni Stati membri e dagli U.S.A., il cui intervento in giudizio era stato negato), la Commissione avrebbe violato il riparto di competenze fra l’UE e gli Stati membri (articoli 4 e 5 TUE), con conseguente armonizzazione surrettizia del settore delle imposte dirette. Nella specie, è stata lamentata la lesione dell’autonomia fiscale e procedimentale degli Stati membri, perché la Commissione, tentando di rettificare i prezzi di trasferimento ed evidenziando alcuni vizi dei procedimenti preventivi di ruling, avrebbe invaso una sfera tradizionalmente rimessa alla piena sovranità statale. Il Tribunale ha respinto la questione preliminare sulla violazione dell’autonomia procedimentale poiché solo una minima parte delle censure sollevate dalla Commissione era di natura procedimentale (censure comunque confermate dal Tribunale, che reputa «a regrettable methodological defect» l’emissione di un ruling in assenza di qualsiasi report che giustifichi l’allocazione dei profitti). Richiamando una massima giurisprudenziale consolidatasi in materia di aiuti di Stato e libertà fondamentali, il Tribunale ha poi escluso un eccesso di potere della Commissione europea nelle istruttorie sui ruling fiscali poiché «anche se la materia delle imposte dirette rientra, allo stato attuale dello sviluppo del diritto dell’Unione, nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono però esercitar[la] […] nel rispetto del diritto dell’Unione».

La questione preliminare più delicata (che rende “Apple” un unicum fra le cause sui ruling fiscali) concerne l’impiego dell’arm’s length standard nella definizione di “normale tassazione” irlandese, pur in assenza di una disciplina interna dei prezzi di trasferimento. Il Tribunale l’ha risolta valorizzando la prassi amministrativa e giurisprudenziale irlandese, alla quale non era estraneo l’utilizzo di un canone di libero mercato nell’attribuzione di profitti alle stabili organizzazioni.

Come noto, la definizione della “normale tassazione” (o “contesto di riferimento”) serve ad evidenziare l’esistenza di un trattamento derogatorio riservato al destinatario del presunto aiuto di Stato. Si tratta di un passaggio particolarmente dibattuto nella materia fiscale, ove non possono trovare applicazione c.d. test delle normali condizioni di mercato tradizionalmente impiegati in altri settori e avallati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. L’applicazione di questi ultimi consente di escludere il requisito del vantaggio ex art. 107 TFUE, qualora l’ente pubblico contraente si sia relazionato alla controparte privata secondo le normali condizioni di mercato. Ai fini dell’accertamento dei requisiti di un aiuto fiscale, simili modelli risultano però inconferenti, dal momento che all’imposizione tributaria non corrisponde alcuna attività economica nel settore privato (in tal senso, Wattel, The Cat and the Pigeons: Some General Comments on (TP) Tax Rulings and State Aid After the Starbucks and Fiat Decisions, in Richelle – Schön – Traversa (a cura di), State Aid Law and Business Taxation, Springer, Berlino-Heidelberg, 2016, 186). Pertanto, se l’aiuto deriva da una manipolazione dei prezzi di trasferimento, la Commissione ritiene che il “contesto di riferimento” sia costituito dalle «norme ordinarie di imposizione degli utili delle società vigenti nello Stato membro» e adotta come parametro di valutazione l’arm’s length.

Non sfugge il sostanziale silenzio del diritto primario e derivato sul rilievo dello standard nelle politiche UE. La Commissione quindi fonda la propria analisi sulla sentenza Forum 187 c. Commissione, con la quale la Corte di giustizia ne aveva legittimato l’applicazione, ai fini del controllo ex art. 108 TFUE, per verificare la rispondenza dei prezzi di trasferimento alle condizioni di libera concorrenza (Corte giust., 22 giugno 2006, cause riunite C-182/03, Belgio c. Commissione, e C-217/03, Forum 187 c. Commissione). Tuttavia, è difficile stabilire la portata interpretativa di quella pronuncia, poiché riferibile agli aiuti concessi da un Paese, il Belgio, che aveva recepito nel suo ordinamento lo standard: non è chiaro, quindi, se la Corte lo avesse considerato parte del contesto di riferimento perché incluso nel diritto positivo domestico o in quanto autonomo corollario dell’art. 107 TFUE. La stessa ambiguità emergeva dalle sentenze di prima istanza sugli APA concessi a Fiat e Starbucks, in quanto sia il Lussemburgo sia l’Olanda recepivano l’arm’s length standard e riconoscevano, ai fini della sua applicazione, il valore interpretativo delle linee guida OCSE (Tribunale UE, 24 settembre 2019, cause riunite T-755/15, Lussemburgo c. Commissione, e T-759/15, Fiat c. Commissione; Id., 24 settembre 2019, T-760/15, Paesi Bassi c. Commissione, e T-636/15, Starbucks c. Commissione). In quelle due pronunce si alternano passaggi secondo cui pare potersi prescindere da un recepimento domestico («il principio di libera concorrenza […] è uno strumento utilizzato, giustamente, nell’ambito dell’esame effettuato ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE […] che ha forza vincolante nello Stato membro [che] sceglie, nell’ambito del proprio sistema fiscale nazionale, l’approccio separate legal entity […] indipendentemente dalla questione se il principio di libera concorrenza sia stato esplicitamente o implicitamente incorporato nel diritto nazionale») e altri che sembrano propendere per l’opposta soluzione («la Commissione non dispone, in questa fase dello sviluppo del diritto dell’Unione, di una competenza che le consenta di definire autonomamente la tassazione cosiddetta “normale” di una società integrata, prescindendo dalle norme fiscali nazionali»).

Sotto questo profilo, la sentenza Apple apporta maggior chiarezza enfatizzando solo l’ultimo dei due passaggi tratti dai precedenti e restando ancorata – attraverso ampi riferimenti – al dato domestico. In particolare, i giudici confermano che rileva la disposizione del “Taxes Consolidation Act” vigente ratione temporis sulla tassazione delle società non residenti, in base alla quale, quando una società non residente esercita un’attività commerciale in Irlanda attraverso una succursale, tale società deve essere tassata su tutto il suo reddito commerciale derivante direttamente o indirettamente dalla branch o dai beni immateriali detenuti o usati da essa o da altri nel suo interesse («[…] any trading income arising directly or indirectly through or from the branch or agency , and any income from property or rights used by, or held by or for, the branch or agency, but this paragraph shall not include distributions received from companies resident in the State […]»).

Si rammenta, infatti, che le due società “madre” dotate di branches irlandesi risultavano “apolidi” a fini fiscali a causa di un disallineamento di residenza. Prima del 2014, il sistema tributario irlandese prevedeva una deroga alla regola della residenza fiscale delle società di diritto irlandese e/o ivi gestite e controllate laddove fossero (i) ritenute fiscalmente residenti in un altro Paese in virtù dell’applicazione di un trattato contro la doppia imposizione (c.d. «treaty exception») o (ii) fossero quotate presso una borsa riconosciuta o controllate in ultima istanza da un soggetto residente in uno Stato membro dell’UE o in un paese firmatario di un trattato fiscale (c.d. «relevant companies exception») e svolgessero un’attività commerciale in Irlanda. Il sistema tributario statunitense adotta il criterio del “place of incorporation” per determinare la residenza fiscale delle società. Le controllate irlandesi di Apple hanno, dunque, sostenuto per anni di non essere residenti né in Irlanda, in virtù della c.d. relevant company exception, né negli U.S.A., in quanto costituite in Irlanda.

Ciononostante, una parte dei ricavi avrebbe potuto essere tassata in Irlanda se correttamente attribuita – in base alla citata disposizione del “Taxes Consolidation Act” – alle stabili organizzazioni delle due controllate operanti nel Paese europeo. A tal fine, la Commissione aveva adottato un “approccio per esclusione”: poiché le controllate di diritto irlandese ASI e AOE – oltre che apolidi ai fini impositivi – erano prive di dipendenti e di una presenza fisica al di fuori del territorio irlandese, secondo la Commissione, le licenze di proprietà intellettuale necessarie per le vendite online detenute da ASI e AOE (e la relativa remunerazione) avrebbero dovuto essere assegnate alle due branches, senza tentare di dimostrare che tale allocazione derivasse dalle attività effettivamente svolte da queste ultime (§ 228).

Sebbene il “Taxes Consolidation Act” non delinei un metodo di attribuzione, secondo alcuni precedenti giurisprudenziali irlandesi degli anni Ottanta, occorre avere riguardo al valore delle sole attività effettivamente svolte nel Paese dalle branches e dei beni immateriali da esse effettivamente controllati e gestiti, che devono essere valutati in base ad un canone di libero mercato (§ 181 e 219 della sentenza in commento).

Sono questi quindi gli elementi che, secondo i giudici di prime cure, rilevano nella definizione della “normale tassazione” rispetto alla quale individuare trattamenti derogatori di favore («the Commission cannot […] contend that there is a freestanding obligation to apply the arm’s length principle arising from Article 107 TFEU obliging Member States to apply that principle horizontally and in all areas of their national tax law»).

  1. Venendo ai profili di merito, sui quali si registra la soccombenza della Commissione, il Tribunale ha valutato se essa abbia applicato correttamente il menzionato criterio di libero mercato, considerato assimilabile all’arm’s length standard. A tal fine, occorrono due premesse (i) sulla ripartizione dell’onere della prova in materia di aiuti di Stato e (ii) sul sofisticato meccanismo di pianificazione adottato dal Gruppo.

In base a principi consolidatisi in via giurisprudenziale, nelle contestazioni ex art. 108 TFUE spetta alla Commissione fornire prova dell’esistenza dell’aiuto, ovvero dimostrare che ricorrono congiuntamente tutti i requisiti previsti dall’art. 107, comma primo, TFUE. Sullo Stato membro e/o sull’impresa incombe invece l’onere di dimostrare la sussistenza di eventuali cause di giustificazione legate alla natura o struttura generale del sistema tributario. Dunque, nel caso di specie la Commissione doveva innanzitutto verificare se l’allocazione dei profitti avallata nei ruling rispondesse al canone di libera concorrenza e se un’eventuale discrepanza desse luogo ad un vantaggio competitivo al Gruppo Apple.

Il meccanismo di pianificazione fiscale adottato dal Gruppo in Europa è stato reso possibile, in primo luogo, da un cost-sharing agreement fra la capogruppo statunitense e le controllate offshore che ha trasferito ad una controllata di diritto irlandese (ma “apolide” a fini fiscali) i diritti di proprietà intellettuale – sviluppati negli U.S.A. – necessari per le vendite in Europa, Medio Oriente e Africa. Il contributo di adesione, pari al 60% della spesa sostenuta dalla capogruppo, ammonta a 1,4 miliardi di dollari: grazie ad esso, in base alla regolamentazione statunitense, la controllata ha potuto registrare e mantenere nel paese irlandese 74 miliardi di dollari solo fra il 2009 e il 2012 (stando a quando si apprende da una nota inchiesta del Congresso statunitense). In estrema sintesi, il cost sharing è un modello contrattuale adottato da molti gruppi di origine statunitense, col quale le varie entità della multinazionale possono condividere investimenti e rischi legati allo sviluppo congiunto di beni immateriali. Secondo la ratio del modello, in base all’arm’s length standard, la quota della prevista partecipazione ai benefici derivanti dallo sviluppo congiunto del progetto deve essere proporzionale alla quota di contribuzione iniziale di ciascun partecipante (c.d. buy-in payments). In genere, accade che la capogruppo statunitense, che sviluppa il progetto R&D nel proprio territorio, coinvolga nel contratto le controllate offshore che partecipano ad una quota consistente della spesa iniziale: se il progetto avrà successo, i profitti spetteranno proporzionalmente alle entità del gruppo che vi hanno contribuito economicamente, mentre, se sarà insoddisfacente, la controllante avrà diritto a dedurre negli U.S.A. solo i costi da essa formalmente sostenuti. Peraltro, tra i benefici previsti dal contratto vi è spesso il trasferimento di parte della proprietà intellettuale sviluppata nell’ambito del progetto, con la possibilità per la controllata offshore di concederla in uso ad altre società del gruppo, dietro corresponsione di royalties. La prassi insegna che la maggior parte dei costi sono sostenuti da controllate localizzate in giurisdizioni, anche europee, poco trasparenti e, talora, in grado di offrire una bassa aliquota effettiva di tassazione dei redditi societari: in tal modo, la maggior parte dei profitti beneficia di un trattamento fiscale più vantaggioso di quello statunitense. Inoltre, sono scarse le probabilità di insuccesso del progetto R&D, poiché è ragionevole supporre che la capogruppo decida di stipulare un cost-sharing agreement quando sa di avere buone probabilità di riuscita (Avi-Yonah, Advanced Introduction to International Tax Law, Cheltenham – Northampton, 2019, pp. 34 e 69-70).

Per queste ragioni, tale schema contrattuale, in dottrina, è pacificamente ritenuto «one of the most efficient tax planning tools» (Navarro, Transactional Adjustmentes in Transfer Pricing, Amsterdam, 2017, § 5.5) ai fini del risparmio o del differimento a lungo termine delle imposte statunitensi. Tutt’altra questione è dimostrare che l’amministrazione fiscale di uno Stato europeo abbia “rinunciato” a consistenti entrate tributarie avallando una allocazione dei profitti non “at arm’s length”. In altri termini, può darsi (ed è anzi probabile in un caso di ruling/APA concesso in assenza di qualsivoglia documentazione di supporto) che l’allocazione non rifletta la realtà economica, ma non è detto che le imposte risparmiate siano riferibili ad un solo Stato europeo (l’Irlanda). Piuttosto, è verosimile che in larga parte siano state risparmiate imposte statunitensi (dal momento che in quella giurisdizione si sono svolte le complesse e rischiose attività di R&D) e in minima parte imposte degli Stati europei nei quali il Gruppo vendeva attraverso il web con stabili organizzazioni occulte. Proprio un rilievo di questo tipo era stato formulato dall’Amministrazione finanziaria italiana con un procedimento autonomo rispetto all’istruttoria della Commissione, ma per periodi d’imposta coincidenti (in parte, ovvero 2008 – 2013). Alla contestazione non ha fatto seguito un pronunciamento giudiziale perché definita in adesione, ma è trapelato che la controllata italiana del Gruppo registrava un fatturato eccessivamente contenuto rispetto al volume d’affari generato nel Paese anche dalle vendite online e che l’Amministrazione italiana sarebbe riuscita a dimostrare che essa non si limitava a svolgere la sua attività di consulenza e di supporto per le altre società del gruppo, ma realizzava anche un’ulteriore attività economica nel loro esclusivo interesse (Greggi, Il caso Apple Italia, in Novità fiscali, n. 1, 2016, 4). 

La stessa Commissione nella Decisione annullata riconosceva che la somma da recuperare in Irlanda si sarebbe potuta rivelare inferiore se gli Stati membri a cui sono riferibili le vendite online (registrate però interamente in Irlanda) e/o gli Stati Uniti, sede dell’attività di ricerca e sviluppo, avessero accertato autonomamente un’erosione della propria base imponibile in conseguenza della pianificazione avallata nei ruling.

La sentenza in esame stabilisce che la Commissione non è riuscita a provare che, nel determinare la porzione di utili di ASI e AOE imponibile in Irlanda, l’Amministrazione irlandese avrebbe dovuto assegnare alle loro branches tutte le licenze di proprietà intellettuale necessarie per le vendite in Europa, Medio Oriente e Africa (e la relativa remunerazione). La Commissione, infatti, in luogo di una compiuta ricostruzione della remunerazione “at arm’s length” per le funzioni svolte e i rischi assunti dalle branches irlandesi, si era limitata ad attribuire loro tutti i profitti delle due società “madre” apolidi ai fini fiscali e prive di dipendenti (§ 265 e 307). Viene dunque censurato, in primo grado, l’”approccio per esclusione” adottato dalla Decisione. Il Tribunale ha infatti confermato la tesi dei ricorrenti secondo cui, nel determinare gli utili imponibili delle società non residenti che esercitano un’attività commerciale in Irlanda attraverso filiali irlandesi, occorre avere riguardo alle attività effettivamente svolte dalle filiali, ai rischi assunti e al loro peso ai fini della creazione di valore del Gruppo. In definitiva, almeno per i giudici di prima istanza, non è sufficiente che la Commissione – sulla quale grava l’onere di provare l’aiuto – individui errori nell’allocazione dei profitti infragruppo, occorrendo un esame dettagliato delle funzioni svolte dalle entità coinvolte.

Allo stesso modo, il potere discrezionale di un’amministrazione non vale – di per sé – a dimostrare l’esistenza di un aiuto, ma solo il suo carattere selettivo, in presenza degli indici fissati in via giurisprudenziale (id est, determinazione discrezionale dei beneficiari e delle condizioni di una misura in base a criteri estranei al sistema fiscale, quali il mantenimento dell’occupazione). Orbene, il Tribunale ritiene che, in assenza di prova del vantaggio, sia superfluo valutare la selettività del ruling e che, comunque, «la semplice allusione, nella corrispondenza tra le autorità fiscali irlandesi e il gruppo Apple […] al fatto che il gruppo Apple fosse uno dei maggiori datori di lavoro nella regione in cui erano stabilite le branches irlandesi di ASI e AOE non prova che gli utili imponibili di ASI e AOE sono stati determinati sulla base di questioni legate all’occupazione» (traduzione libera). A onor del vero, il riferimento al fattore occupazionale non sembra meramente descrittivo o incidentale, bensì un elemento sul quale far leva nella negoziazione del livello di remunerazione delle attività delle filiali (si legge, infatti, in un verbale di una riunione del 1991 riportato nella Decisione, che «it was agreed to accept a mark-up of 20% on costs in excess of $[60-70]m in order not to prohibit the expansion of the Irish operations»). La soglia ivi menzionata non fu mai superata, perciò da quella specifica statuizione non può essere derivato un vantaggio, ma resta la circostanza che la complessiva proposta di remunerazione non si basasse su un’analisi dei comparables bensì sull’individuazione di «a sufficiently high amount of chargeable profits». Pur senza voler reinterpretare la vicenda irlandese alla luce di canoni posteriori, si segnala che, almeno dal 1998, questo approccio è censurato dall’OCSE, che reputa inappropriati e idonei a favorire fenomeni di concorrenza fiscale dannosa i ruling/APA tesi a fornire certezza sulla quantificazione dell’imponibile anziché sulla correttezza del suo metodo di determinazione.

  1. Dal caso Apple emerge la strutturale inadeguatezza del controllo sugli aiuti di Stato ai fini del contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva. In punto di diritto, in linea con i casi Fiat e Starbucks, viene confermata la possibilità per la Commissione di censurare sotto il profilo degli aiuti di Stato strategie fiscali volte a minimizzare il reddito imponibile nel mercato unico. Ciononostante, nel merito, la Commissione è chiamata a soddisfare uno standard probatorio molto esigente, tipico delle controversie domestiche sul transfer pricing. In sostanza la Commissione, nella Decisione, avrebbe dovuto fornire una ricostruzione completa del corretto metodo di allocazione dei profitti alle branches sulla base delle funzioni e dei rischi ad esse effettivamente riferibili. La vicenda, densa di complessi profili fattuali, poco si presta ad un riesame della Corte di giustizia, davanti alla quale la sentenza può essere impugnata per soli motivi di diritto (artt. 256 TFUE e 56 Statuto della Corte). Possibili censure di legittimità possono comunque essere sollevate rispetto alla correttezza dell’approccio “per esclusione” adottato dalla Commissione e all’esistenza di una presunzione relativa di aiuto a fronte dell’assenza di idonea documentazione a supporto del ruling, dell’elevata discrezionalità del procedimento e dell’astensione dell’amministrazione da qualsivoglia attività di revisione negli anni successivi all’emissione. L’auspicio è che la Corte possa chiarire se sia sufficiente dimostrare (prima facie) una deviazione dal canone di libera concorrenza o se la Commissione debba fornire una compiuta ricostruzione (“at arm’s length”) dell’allocazione dei profitti alternativa, sebbene neppure il Gruppo, in origine, sia stato in grado di supportare la propria richiesta di ruling con idonee analisi funzionali.

Inoltre, nel caso di specie, il risparmio fiscale (e il probabile vantaggio competitivo) si deve in buona parte alla canalizzazione dei profitti europei verso entità di diritto irlandese “apolidi” ai fini impositivi; aspetto che tuttavia non appare censurabile di per sé ai sensi dell’art. 107 TFUE. Infatti, quando una struttura ibrida sorge per effetto di un disallineamento fra le disposizioni fiscali di due o più Stati, viene meno l’inequivocabile origine statale dell’aiuto richiesta dal Trattato. È quindi fondamentale che gli Stati membri continuino, sul fronte dell’integrazione positiva, a promuovere e implementare misure di trasparenza (come lo scambio automatico obbligatorio dei ruling transfrontalieri introdotto dalla c.d. DAC 3) e strumenti di contrasto alla pianificazione aggressiva (quali le previsioni anti-ibridi contenute nelle c.d. ATAD).