Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

29/11/2023 - Riflessioni sull’istituto della condanna alle spese di giudizio nel processo tributario nell’ipotesi di autotutela dell’ente impositore

argomento: Sanzioni e contenzioso - Legislazione e prassi

Nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria agisca in autotutela in pendenza di giudizio, eliminando un provvedimento che è già stato impugnato dal contribuente, le spese di lite non sono sicuramente compensate tra le parti ma possono essere poste esclusivamente a carico dell’ente fiscale ove si riscontri che il vizio dell’atto abbia natura “originaria”, ossia derivi da una manifesta illegittimità sussistente sin dal momento della sua emanazione.

PAROLE CHIAVE: autotutela; processo tributario; pendenza di giudizio; spese di lite


di Marzia Morbici, Maria Vittoria Serranò

1. La ripartizione delle spese processuali nelle liti fra contribuente e Amministrazione finanziaria è ispirata – com’è noto – al principio di soccombenza (sul principio di soccombenza  si veda Glendi-Consolo - Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario: commento al D.Lgs. 5 agosto 2015 n. 128 e al D.Lgs. 24 settembre 2015, Torino, 2016; Glendi, Rapporti tra nuova disciplina del processo tributario e codice di procedura civile, in Dir. prat. trib., n. 6/2000, p. 11700 ss.; Ingrosso, Le spese della lite tributaria, in Dir. proc. trib., n. 1/2016, p. 29 ss.; Marini, La condanna alle spese nel processo tributario. Compensazione delle spese in caso di soccombenza dell’Erario: rispondenza ai dettami di legge o mero retaggio culturale?, in Riv. trim. dir. trib., n. 3/2019, p. 575); tuttavia, non poche sono le ipotesi che, nella realtà processuale, conducono il giudice a privilegiare la scelta della compensazione rispetto alla condanna a carico della parte soccombente. Cercheremo in queste brevi riflessioni di affrontare il tema con particolare attenzione all’ipotesi di autotutela da parte dell’Ente impositore in pendenza di giudizio, di recente oggetto di interesse da parte della Suprema Corte con la pronuncia n. 18459/2023. Con l’ordinanza la Cassazione chiarisce come – nel caso di cessazione della materia del contendere a seguito di annullamento dell’atto per intervenuta autotutela – non operi necessariamente l’istituto della condanna alle spese.

La condanna alle spese nel processo tributario è oggi disciplinata dall’articolo 15 del D.Lgs. n. 546/1992, ma l’originaria formulazione risale all’art. 39 del D.P.R. n. 636/1972 il quale stabiliva che «Al procedimento dinanzi alle commissioni tributarie si applicano, in quanto compatibili con le norme del presente decreto e delle leggi che disciplinano le singole imposte, le norme contenute nel libro I del codice di procedura civile, con esclusione degli artt. da 61 a 67, dell'art. 68, primo e secondo comma, degli artt. da 90 a 97 [e dell'art. 128]. Per le attività degli impiegati di cui al primo comma dell'art. 13, valgono le disposizioni degli artt. 57 e 58 del codice di procedura civile concernenti le attività dei cancellieri».

Non si applicavano al processo tributario le norme del Codice di Procedura civile e, quindi, il principio del victus victori  in tema di «Responsabilità alle spese e per danni processuali» (articoli da 90 a 97).

L’art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992 che attualmente disciplina la materia, così dispone: «la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza. Le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate».

Esso ha, dunque, introdotto anche in sede processuale tributaria il principio “victus victori”, in base al quale la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio e la parte vittoriosa deve essere tenuta indenne dal costo del processo.

La ratio della norma è quella della causalità e della responsabilità processuale: le spese devono essere sopportate da chi le ha causate con la sua condotta, onerando indebitamente dei relativi costi la controparte.

La disposizione in esame è pressoché sovrapponibile all’articolo 91 c.p.c., salvo il potere di compensazione rimesso al giudice ex art. 92 c.p.c.

Al principio di soccombenza, infatti, sono poste una serie di deroghe (sull’argomento si veda Marini, op. cit., p. 581 ss.) che trovano la loro fonte, prevalentemente, nella discrezionalità del giudice.

 Ai sensi dell’articolo 92, comma 2, c.p.c. per i processi incardinati prima del 1° marzo 2006, il giudice poteva procedere alla compensazione in presenza di “giusti motivi” che – a seguito della L. n. 263/2005 – sono stati assoggettati alla loro esplicita indicazione in sentenza comportando così la loro legittimazione ed assumendo in qualche modo la connotazione di giustificati motivi. In effetti una enunciazione dei giusti motivi in presenza dei quali si possa addivenire ad una compensazione delle spese di lite non è stata fornita né dalla dottrina né dalla giurisprudenza, bensì solo qualche tentativo di esemplificazione casistica (si possono considerare “giusti motivi”, stando alla interpretazione della Suprema Corte (sentenza n. 2885 del 19/5/1979; n. 3911 del 24/4/1987; n. 12108 del 28/11/1998; n. 18352 del 1/12/2003) l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, l’intervenuta dichiarazione d’incostituzionalità di una norma, la valutazione complessiva del comportamento delle parti). Il legislatore è nuovamente intervenuto con l’art. 45, comma 11, L. n. 69/2009, disponendo il passaggio dai “giusti motivi” di compensazione ad altre “gravi ed eccezionali ragioni”. Fu solo a seguito del D.L. n. 132/2014 che è stata prevista in via autonoma la compensazione soltanto «se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza» restringendo i casi in cui è possibile compensare le spese, valorizzando il criterio della soccombenza (si precisa che la Corte costituzionale, con sentenza n. 77/2018, ha dichiarato illegittimo l’art. 92, comma secondo, c.p.c., nel testo introdotto dal D.L. n. 132/2014, convertito con L. n. 162/2014 nella parte in cui non prevede la possibilità di compensare le spese processuali anche in presenza di altre gravi ed eccezionali ragioni, diverse dall’assoluta novità della questione o dal mutamento di giurisprudenza).

Nel processo tributario, le deroghe al principio di soccombenza sono individuate al comma 2 dell’art. 15 (Cfr. Pistolesi, Il processo tributario, Torino, 2023, pag. 190), laddove si dispone che «Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla Corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate».

È utile ricordare, a tal proposito, che con l’art. 9, comma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 156/2015, in vigore dal 1° gennaio 2016, il legislatore ha modificato l’art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992, eliminando il rinvio esplicito all’art. 92 c.p.c. – previsto nella precedente formulazione della norma – e introducendo un nuovo comma 2 che dispone la compensazione, oltre al caso in cui vi sia soccombenza reciproca, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate.

Concordiamo pienamente con chi (Cfr. Marini, op. cit., p. 582) ha attribuito a tale disposizione la natura «di una norma elastica, che va interpretata alla luce del principio cardine in tema di riparto dei costi del processo e la cui elasticità deve essere, di certo, contemperata con l’obbligo di motivazione espressa».

Ebbene, come verrà infra illustrato, la compensazione delle spese può ricorrere anche nell’ipotesi di annullamento di un atto in autotutela intervenuto in pendenza del relativo giudizio di impugnazione.

In generale, ai sensi degli artt. 21 quinquies e 21 novies della L. n. 241/1990, la Pubblica Amministrazione ha il potere di rivalutare (rivedere criticamente) la propria attività e di annullare d’ufficio o revocare gli atti già emessi che riconosce come viziati.

L’autotutela risponde ad esigenze di giustizia sostanziale che si realizzano attraverso l’esercizio dello ius poenitendi da parte della Pubblica Amministrazione, la quale può ritirare e/o correggere l'atto emanato a condizione che vi sia una presunta illegittimità del provvedimento da annullare e che, parimenti, vi sia un interesse pubblico attuale alla rimozione degli effetti dell'atto (vedi Paparella, Lezioni di diritto tributario, Milano, 2021, p. 208 ss.; Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, Milano, 2022, p. 207 ss.).

Essa è espressione di quella capacità “di farsi giustizia da sé” (Cfr.,  Ficari, Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, Milano, 1999, p. 2) che trova la sua matrice nel principio costituzionale di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., in forza del quale la pubblica amministrazione deve emettere atti idonei ai fini che essa è chiamata a realizzare e che comporta, di conseguenza, la necessità per la stessa di adeguarsi all’interesse pubblico, intervenendo in autotutela laddove questo muti o intervenga una sua differente valutazione.

In ambito tributario, l’istituto de quo è stato introdotto con l’art. 68 del D.P.R. n. 287/1992 ai sensi del quale «… gli uffici dell’amministrazione finanziaria possono procedere all’annullamento, totale o parziale, dei propri atti riconosciuti illegittimi o infondati, con provvedimento motivato comunicato al destinatario».

Tale norma è stata oggetto di abrogazione con l’art. 23, D.P.R. n. 107/2001 a cui hanno fatto seguito l’art. 2 quater del D.L. n. 564/1992 e il D.M. n. 37/1997, per effetto dei quali, sulla base della normativa generale in sede amministrativa, è stata definita la disciplina dell’autotutela nell’ambito prettamente tributario (sul punto Busico, L’estinzione del processo tributario, in Il diritto tributario commentato – Serie I, Vol. CXXX, Milano, 2019, p. 119).

Il potere di annullamento e di revoca o di rinuncia all'imposizione in caso di auto accertamento della illegittimità e infondatezza dell’atto spetta all'Ufficio che lo ha emanato o che è competente per gli accertamenti d'ufficio ovvero in via sostitutiva, in caso di grave inerzia, alla Direzione regionale o compartimentale dalla quale l'Ufficio stesso dipende.

I motivi che possono determinare l’esercizio dell’autotutela sono riconducibili a qualunque vizio che infici la legittimità dell’atto; volendo riprendere quanto indicato nell'art. 1 del D.M. n. 37/1997, si possono citare a titolo esemplificativo l'errore di persona, la duplicazione d'imposta e l'avvenuto pagamento delle somme, l’evidente errore logico o di calcolo ma si tratta di un elenco certamente non esaustivo e tassativo.

L’autotutela può essere esercitata dopo la definitività dell'atto (ove il contribuente, dunque, non abbia notificato il ricorso), a contenzioso pendente e addirittura successivamente al giudicato esterno. In quest'ultimo caso, però, come sancito nell'art. 2 del D.M. n. 37/1997, i motivi dell'annullamento d'ufficio del provvedimento non devono contrastare con la ratio decidendi che sta alla base del giudicato.

Emerge con chiara evidenza come l'esercizio del potere di autotutela risponda all'esigenza di una Pubblica Amministrazione maggiormente consapevole, imparziale e responsabile del proprio operato (art. 97 Cost.) e sia volto, in particolare, alla tutela dell'interesse pubblico, mediante il ritiro di un atto che si presenti illegittimo o infondato ed alla tutela del diritto del contribuente di essere tassato in ragione del principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost.

2. È opportuno a questo punto precisare che, in linea di massima, oggetto del processo tributario d’accertamento sia «il diritto della persona, che si pretende lesa dall’imposizione illegittima, di far annullare l’imposizione dal giudice tributario» (Cfr. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1962, p. 106) ed, inoltre, che l’azione del contribuente sia identificabile in un diritto d’iniziativa, o meglio d’impulso (per una evoluzione storico-legislativa del concetto di impulso si veda Glendi, L’estinzione del processo tributario per inattività delle parti, in Dir. prat. trib., 1975, p. 453; Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1928, p. 761; Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1978, p. 212; Ferlazzo Natoli, Scritti di diritto tributario, Messina, 1993, p. 457. Sulla natura ed oggetto del processo tributario, si veda, altresì, Glendi, Atti impugnabili e oggetto del ricorso, in Dir. prat. trib., 2017, p. 2750 ss.), da parte del contribuente.

In senso più ampio è certamente da condividere l’impostazione (così Giovannini, La sentenza sostituisce l’atto impositivo, in Corr. trib., 2015, p. 40 ss.; Id., Azione e processo tributario: una discussione sulla tutela dei “beni della vita”, in Rass. trib., 2015, p. 1010) secondo la quale l’oggetto del processo «non coincide né con la validità dell’atto, né con il solo accertamento dei fatti, ma con il bene della vita, la cui lesione è da intendere come effetto della fattispecie, nella quale l’atto si inserisce come elemento costitutivo. E quando la fattispecie si distende davanti al giudice, questi vede non solo l’atto, ma la fattispecie stessa nella sua interezza, secondo, ovviamente, il principio devolutivo e le sue regole. Ecco perché la sentenza di merito valuta il bene sul quale incidono gli effetti lesivi ed ecco perché valuta gli effetti per come sono allo scopo di consacrarli per come devono o non devono essere, prescrivendo alle parti ed in specie all’amministrazione il comportamento conseguente».

Ne deriva che, se oggetto del processo è il bene della vita al quale l’interesse si riferisce, tale interesse viene azionato grazie ad un’azione di impulso rivolta alla rimozione di una eventuale lesione che trova la sua espressione in una sentenza emessa dal giudice tributario che può rivestire natura sostitutiva sia della posizione dichiarata dal contribuente, che dell’accertamento operato dall’Ufficio, con un sistema riconducibile ad una struttura di fattispecie a formazione progressiva (così Giovannini, op. cit.).

Sostituendosi all’atto impugnato, sarebbe unicamente la sentenza a rappresentare la fonte della fattispecie tributaria e, di conseguenza, essa rivestirebbe efficacia costitutiva dell’obbligazione tributaria.

Conseguenzialmente una sentenza che non sostituisce l’atto impugnato ha natura dichiarativa, o di accertamento; se lo sostituisce, deve avere la natura (ma anche i connotati) di sentenza di condanna o di una sentenza costitutiva.

Naturalmente la sentenza può avere anche un doppio contenuto, si pensi ad una sentenza che rigetti il ricorso (accertamento) e che contemporaneamente condanni alle spese (di condanna), e in questo caso ogni capo della sentenza seguirà il regime proprio della natura che gli appartiene.

Già in altre occasioni (ci sia consentito rinviare a Serranò, Termine breve di prescrizione del tributo e conversione in termine decennale ex art. 2953 c.c.: sulla inapplicabilità alle sentenze tributarie non di condanna, in Studi in memoria di Francesco Tesauro, Padova, 2023, Vol. 2, p. 671) ci siamo chiesti se, oltre alle azioni impugnatorie (suscettibili di fondare sentenze costitutive o dichiarative), esistano (e quali siano) in materia tributaria le azioni di condanna da cui conseguirebbero le relative sentenze, considerato che nell’art. 2953 c.c. si fa riferimento unicamente a tale tipologia di pronunce.

Non vi è dubbio che l’azione di rimborso della somma indebitamente pagata, nell’erroneo presupposto dell’esistenza di un’obbligazione tributaria, oppure oltre il quantum giustificato dall’ammontare di questa, per errore di calcolo o altro (Cfr. Allorio, op. cit., p. 162), sia azione di condanna ed è altrettanto evidente che è certamente esperibile la tutela di condanna dinanzi alle Corti di Giustizia tributarie «per il tramite dell’esercizio in via autonoma da parte del contribuente delle azioni aventi ad oggetto la restituzione delle somme indebitamente corrisposte. Tali fattispecie, a differenza che nel passato, trovano oggi espressa disciplina ad opera dell’art. 69 del D.Lgs. n. 546» (Cfr. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 2005, p. 38 ss.).

Analogo contenuto riveste il capo della sentenza che decide sulle spese, nella parte in cui dovesse condannare una parte al pagamento delle spese processuali.

La sentenza di rigetto del ricorso è volta, invece, al mero accertamento della infondatezza dello stesso e, quindi, non può in alcuna ipotesi essere a questa equiparata.

3. Chiarita, sia pur per sommi capi, la natura della sentenza di condanna in materia tributaria, ci chiediamo a questo punto quale possa essere il comportamento del giudice con riferimento alle spese nell’ipotesi di estinzione del giudizio a seguito di annullamento dell’atto in ipotesi di autotutela.

L’annullamento totale o parziale dell’atto impugnato integra un’ipotesi di cessazione della materia del contendere ex art. 46 D.Lgs. n. 546/1992 in presenza della quale il processo, con provvedimento del giudice, viene dichiarato estinto.

La cessazione della materia del contendere, lo ricordiamo per completezza, rappresenta una delle ipotesi di estinzione del giudizio tributario insieme alla rinuncia alle liti (art. 44) e alla inattività delle parti (art. 45) (Cfr. Russo - Coli - Mercuri, Diritto processuale tributario, Milano, 2022, p. 232 ss.; Batistoni Ferrara - Bellè, Diritto tributario processuale, Milano, 2020, p. 159 ss.).

Tuttavia, da quest’ultime si differenzia in quanto la ragione che determina la cessazione è di ordine sostanziale e non processuale ed anche le conseguenze sono diverse: tale tipologia di estinzione, infatti, non comporta l’inefficacia degli atti processuali compiuti e la definitività del provvedimento impugnato ma al contrario determina il venir meno, in tutto o in parte, della pretesa oggetto dell’atto.

Essa ha luogo nei casi di definizione delle liti per previsione legislativa (c.d. condono), nelle ipotesi di conciliazione nonché nei casi di riconoscimento in autotutela da parte della Amministrazione finanziaria della infondatezza della pretesa contestata in pendenza di giudizio.

Per completezza, si ricorda altresì che il tema della ripartizione delle spese legali è stato posto all’attenzione anche della Corte Costituzionale (sentenza n. 98 del 16/04/2014) anche in relazione, avuto riguardo alla fase preprocessuale, all’istituto del reclamo-mediazione di cui all’art.17-bis del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546.

In particolare, in quella sede, il giudice a quo lamentava, in riferimento agli artt. 3 (in relazione sia al principio di uguaglianza che a quello di ragionevolezza) e 24 Cost. (là dove garantisce il diritto di difesa) che, in ambito di reclamo-mediazione, la normativa non prevede alcun ristoro delle spese che il contribuente ha sostenuto per la presentazione del reclamo e lo svolgimento della successiva procedura amministrativa nel caso in cui l’Agenzia delle entrate accolga il reclamo (e annulli, perciò, l’atto che ne è oggetto in quanto illegittimo o infondato).

Una situazione, quest’ultima, assimilabile e riconducibile all’autotutela.

La questione, tuttavia, non è stata poi compiutamente affrontata nel merito dai giudici della Consulta in quanto dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza poiché nel giudizio di rinvio non era stato presentato reclamo e dunque non bisognava fare applicazione della norma censurata.

Ora, ai sensi dell’ art. 15, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992 è previsto che le spese di giudizio possano essere compensate soltanto in caso di soccombenza reciproca o per gravi ed eccezionali ragioni che, come sopra già accennato, devono essere motivate.

In tale situazione è certamente fondata la richiesta della parte ricorrente di porre le spese del giudizio a carico della parte resistente, che sia Amministrazione finanziaria o Ente locale è irrilevante, che – con una più diligente azione amministrativa – ben avrebbe potuto e dovuto evitare il ricorso alla cui proposizione il contribuente è stato in definitiva costretto per conseguire, nelle more del giudizio, lo sgravio di una pretesa illegittima ab initio.

Del resto, se così non fosse si creerebbe un contrasto e una situazione di disparità tra questa situazione e quella, speculare, in cui il contribuente che rinuncia al ricorso, accogliendo implicitamente le pretese erariali che aveva precedentemente contestato impugnando l’atto impositivo, è invece tenuto a rimborsare le spese del giudizio alle altre parti  ai sensi dell’art. 44 del D.Lgs. n. 546/1992 (così anche Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 2013, p. 261).

In virtù di quanto previsto al terzo ed ultimo comma dell’art. 46 «nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate».

Tale attuale formulazione della norma è il frutto di un intervento del Legislatore (con D.Lgs. n. 156/2015) volto ad adeguarne il contenuto a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 274/2005, che ne aveva dichiarato l’illegittimità nella sua versione originaria laddove prevedeva la compensazione delle spese di lite in tutti i casi di cessazione della materia del contendere e non limitatamente a quelli derivanti dalla definizione delle liti previste dalla legge.

In particolare, la Consulta ha precisato che il processo tributario è in linea generale ispirato – non diversamente da quello civile o amministrativo – al principio di responsabilità per le spese del giudizio, come dimostrano l'art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992, secondo cui la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese, salvo il potere di compensazione della commissione tributaria, e l'art. 44 del medesimo decreto legislativo, secondo cui, in caso di rinuncia al ricorso, il ricorrente che rinuncia deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro.

La compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere, rendendo inoperante quel principio, si traduce, dunque, in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento (il ritiro dell'atto, nel caso dell'amministrazione, o l'acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni, e, corrispondentemente, in un del pari ingiustificato pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova disciplina del processo tributario, dell'assistenza tecnica di un difensore e, quindi, costretta a ricorrere alla mediazione (onerosa) di un professionista abilitato alla difesa in giudizio.

L’art. 46, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992 risultava in definitiva lesivo, sotto l'aspetto considerato, del principio di ragionevolezza, riconducibile all'art. 3 della Cost., e ne di conseguenza ne è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale nella parte in cui si riferiva alle ipotesi di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge, dovendo, pertanto, in tali ipotesi la commissione tributaria pronunciarsi sulle spese ai sensi dell'art. 15, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992.

Pertanto, ove l’Amministrazione finanziaria annulli un atto in autotutela in pendenza di giudizio, deve valere il principio della soccombenza virtuale dal momento che è lo stesso ente impositore a riconoscere l’illegittimità del suo operato.

La soccombenza c.d. virtuale è un principio di derivazione giurisprudenziale (si veda la sentenza della Cassazione civile sez. VI, del 11/08/2022 n. 24714) in virtù del quale ove il giudice dichiari l’estinzione del processo senza pronunciarsi sul merito della causa, mancando sul piano squisitamente processuale una parte soccombente (dal momento non si accoglie né la domanda del contribuente né le eccezioni dell’Amministrazione finanziaria), questi è tenuto ad effettuare un giudizio virtuale sull'esito della controversia per individuare la parte tenuta al rimborso delle spese e, a seconda delle ipotesi, condannare il soccombente “virtuale” al pagamento delle spese oppure – se non individuabile – disporne la compensazione (ex multis Cass. 15.10.2007 n. 21530 e Cass. 21.9.2010 n. 19947).

L’eventuale identificazione del soccombente virtuale si fonda su una ricognizione della probabilità di accoglimento della pretesa basata su criteri di verosimiglianza. E pertanto le spese del giudizio sono poste a carico della parte che, sulla base di un giudizio prognostico, sarebbe risultata soccombente se l’estinzione non fosse intervenuta.

Nel caso di nostro interesse, dal momento che l’atto impugnato viene annullato in autotutela per una illegittimità riconosciuta dalla stessa Amministrazione finanziaria, in un giudizio ipotetico, quest’ultima dovrebbe risultare soccombente virtuale.

In realtà, però, non è sempre così.

Infatti, la giurisprudenza esclude la soccombenza a carico dell’Erario, ammettendo di converso la compensazione delle spese ai sensi dell’art. 15 comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992, in tutti i casi in cui si ravvisi nell’operato della Pubblica Amministrazione una condotta che, seppur illegittima, non è del tutto imputabile ad una responsabilità piena della Pubblica amministrazione in quanto in qualche maniera giustificabile sulla base di “gravi ed eccezionali ragioni” che l’hanno determinata quali ad esempio: la sussistenza di precedenti giurisprudenziali contrastanti; la sopravvenienza di nuove leggi e/o di pronunce di incostituzionalità; sopravvenienza di pronunce interpretative della Corte di Giustizia; complessità della vertenza o novità delle questioni oggetto del giudizio (ex multis, Comm. trib. reg. Piemonte, n. 286/36/15; Comm. trib. reg. Emilia-Romagna n. 2210/01/17; Comm. trib. prov. Ravenna n. 78/01/15; Comm. trib. reg. Toscana n. 41/01/11).

 Come sottolineato dalla Corte Suprema di Cassazione con la decisione n. 7273/2016, la cessazione della materia del contendere per annullamento dell'atto in sede di autotutela non comporta necessariamente la condanna alle spese, occorrendo a tal fine verificare se tale annullamento abbia fatto seguito ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione, perché in tal caso il contribuente ha diritto al ristoro delle spese.

Diversamente, nel caso in cui, ad esempio, l'annullamento abbia fatto seguito ad una obiettiva complessità della materia poi chiarita da apposita norma interpretativa, l'autotutela dell'Ufficio può essere considerata un comportamento conforme al principio di lealtà, ai sensi dell’art. 88 c.p.c., da ‘premiare’ con la compensazione delle spese (Cass. n. 22231/2011, n. 19947/2010 e più di recente n. 7607/2018).

Tali principi devono ritenersi applicabili anche in seguito alla riforma del contenzioso tributario intervenuta nel 2015.

Difatti, la modifica apportata al citato art. 46 dal D.Lgs. n. 156/2015 ha limitato la compensazione delle spese processuali alla cessazione della materia del contendere solo nelle ipotesi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge e la circolare n. 38/E/2015 dell’Agenzia delle Entrate ha precisato che tali ipotesi sono ravvisabili, ad esempio, a seguito di condono, con la conseguenza che nel caso di vizi insiti già nell’originario provvedimento impositivo, come nel caso in esame, il Giudice dovrà porle a carico all’Amministrazione.

In ogni caso, le ipotesi di compensabilità sono lasciate alla discrezionale determinazione degli organi giurisdizionali e dunque non sono individuabili aprioristicamente. Tuttavia, seguendo una certa impostazione dottrinaria (Così Gatto, La decisione sulle spese di lite nel caso di annullamento in autotutela dell’atto impugnato, in Corr. trib., n. 15/2016, p. 1183; Pivanti, Il potere di autotutela tributaria, in Studium Iuris, n. 10/2019, p. 1192), un valido criterio discretivo potrebbe essere dato dalla natura dell’illegittimità dell’atto ossia se si tratti di una illegittimità esistente fin dall’inizio oppure se sia sopravvenuta per circostanze intervenute successivamente all’esercizio del potere amministrativo e non ascrivibili alla responsabilità del Fisco.

Nel primo caso, infatti, è probabile che venga pronunciata la soccombenza virtuale dell’Amministrazione finanziaria con conseguente condanna alle spese solo a suo carico; nel secondo, invece, si avrà verosimilmente la compensazione delle spese processuali tra le parti.

4. La descritta impostazione è stata confermata anche di recente dalla Suprema Corte.

I giudici di legittimità, invero, dapprima con la sentenza n. 15432/2022, hanno confermato la legittimità del decreto con il quale il Presidente della Commissione Tributaria provinciale aveva disposto la cessazione della materia del contendere con compensazione delle spese di lite, in considerazione del sopravvenuto annullamento dell’avviso di accertamento in autotutela. Nel ribadire che il processo tributario è finalizzato all'accertamento del diritto collegato alla pretesa fiscale e, di conseguenza, l'annullamento in via di autotutela di un atto da parte dell'Amministrazione finanziaria, successivamente alla sua impugnazione, determina la sopravvenienza di carenza di interesse rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo (Cass., Sez. 5, 2/07/2008, n. 18054; Sez. 5, 3/02/2010, n. 2424; Sez. 5, 17/10/2014, n. 22019; Sez. 6 - 5, 07/09/2020, n. 18625), gli Ermellini ritornano anche sulla compensazione delle spese processuali di merito, precisando che «in tema di processo tributario, nell'ipotesi di estinzione del giudizio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46, comma 1, per cessazione della materia del contendere determinata dall'annullamento in autotutela dell'atto impugnato, può essere disposta la compensazione delle spese di lite ai sensi del medesimo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 1, quanto intervenuta all'esito di una valutazione complessiva della lite da parte del giudice tributario, trattandosi di un' ipotesi diversa dalla compensazione "ope legis" prevista dal citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46, comma 3».

Da ultimo, con l’ordinanza n. 18459/2023, la Sezione tributaria della Suprema Corte ha stabilito che nell’ipotesi di annullamento dell’atto a seguito di autotutela esercitata per illegittimità del provvedimento impugnato (nel caso di specie errore di persona) «non può meccanicamente correlarsi la compensazione delle spese, non essendo improntata una siffatta soluzione esegetica, che riserva alla parte pubblica un trattamento privilegiato privo di obiettiva giustificazione, ad un’ottica rispettosa dei principi costituzionali di ragionevolezza, di parità delle parti e del giusto processo» (Così Cass. Sez. trib. ordinanza n. 18459/2023).

I giudici di Cassazione, confermando la linea interpretativa ormai consolidata in subiecta materia, hanno ribadito che nel processo tributario, ove sia pronunciata la cessazione della materia del contendere per annullamento dell'atto in sede di autotutela, la compensazione può essere disposta solo se l’annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione.

Diversamente, invece, ove l’illegittimità sia sussistente già ab ovo (Cfr. Loi, Non compensazione delle spese se l’atto annullato in autotutela è illegittimo “ab ovo” – Annullamento in autotutela di un atto impositivo illegittimo e principio “victus victori”, in GT – Riv. giur. trib., n. 7/2016, p. 630) – come nel caso di specie in cui si è accertato un lampante errore di persona – deve farsi ricorso alla regola, della "soccombenza virtuale", «la cui applicazione nel primo è stata in passato esclusa proprio per essere stata ritenuta, in modo non convincente, di ostacolo all'esercizio dell'autotutela, cui possa seguire la condanna dell'amministrazione alle spese (Sez. 5, Sentenza n. 1230 del 19/01/2007)».

Dunque, in queste ipotesi, si applica la condanna alle spese a carico della Amministrazione finanziaria.

Pertanto, anche con questa recente pronuncia, viene confermato l’orientamento per cui in tema di contenzioso tributario, alla cessazione della materia del contendere a seguito di annullamento dell'atto impugnato in via di autotutela, dopo la definizione del giudizio di merito, non può automaticamente correlarsi la compensazione delle spese, non essendo improntata una siffatta soluzione esegetica, che riserva alla parte pubblica un trattamento privilegiato privo di obiettiva giustificazione, a un'ottica rispettosa dei principi costituzionali di ragionevolezza, di parità delle parti e del "giusto processo".

5. Sulla scorta delle considerazioni svolte appare chiaro, pertanto, il trend interpretativo ormai pienamente abbracciato dalla giurisprudenza sulla questione in esame.

Superando l’impostazione tradizionale che prevedeva la compensazione delle spese di lite in tutti i casi di autotutela dell’atto impugnato in pendenza di giudizio, in un’ottica di equità nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e contribuente e a maggior tutela dello stesso, laddove il provvedimento venga rimosso dall’Amministrazione finanziaria nel corso del relativo procedimento giudiziale, bisogna indagare la causa dell’autotutela.

Un siffatto orientamento si rivela, tra l’altro, in perfetta sintonia con i propositi della nuova Legge delega per la riforma fiscale, entrata in vigore il 29 agosto 2023 che prevede un’autotutela più piena (per approfondire, sul punto si veda Dal Corso-Renda, Il rafforzamento dell’istituto dell’autotutela nella Delega fiscale, in Corr. trib., n. 10/2023, p. 861) , nel caso di evidenti errori del Fisco, o di errate valutazioni di diritto e di fatto operate, addirittura anche in caso di intervenuta definitività dell’atto.

L’art. 4 «principi e criteri direttivi per la revisione dello Statuto dei diritti del contribuente», della L. 9 agosto 2023, n. 111 «delega al Governo per la riforma fiscale» dispone infatti il potenziamento dell’esercizio «del potere di autotutela estendendone l’applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell’atto, prevedendo l’impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi nonché, con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate, limitando la responsabilità nel giudizio amministrativo contabile dinanzi alla Corte dei conti alle sole condotte dolose».

Una previsione questa che si pone nel solco della proposta avanzata nella Relazione finale dalla Commissione interministeriale per la riforma tributaria del 30 giugno 2021 – ovvero il rafforzamento della posizione del cittadino tramite l’introduzione di un nuovo art. 10 ter alla L. n. 212/2000 che ammetteva l’autotutela di un atto già definitivo ma solo nelle ipotesi di “evidente illegittimità dell’atto” – per proseguire nell’obiettivo di una tutela ancor maggiore del contribuente.

Dunque, tornando alla questione che ci occupa, conformemente a tale proposito, nel caso in cui il giudice rilevi che il vizio inficiante l’atto impugnato – e che ha portato all’esercizio dell’autotutela da parte dell’ente fiscale – ha natura “originaria”, ossia deriva da una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato che l’Ufficio avrebbe potuto rilevare sin dal momento della sua emanazione, si procederà con la condanna alle spese esclusivamente a carico dell’Ente fiscale.

E ciò in ragione del fatto che la condotta poco “diligente” dell’Amministrazione finanziaria, che avrebbe dovuto accorgersi fin da subito dell’errore e intervenire per eliminarlo, ha costretto il contribuente alla instaurazione di un procedimento giudiziale inutile ed evitabile, vanificando la finalità deflattiva del contenzioso – ossia prevenire l’instaurarsi di contenziosi che possono essere definiti in via amministrativa – propria dell’istituto dell’autotutela.