Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

16/11/2023 - Esterovestizione societaria e relazione di controllo: brevi considerazioni a margine di una recente pronuncia della corte di cassazione

argomento: IRES - Giurisprudenza

La Corte di Cassazione, con la sentenza 5 aprile 2023, n. 9400, ha enunciato il principio di diritto secondo cui, affinché possa operare la presunzione legale di tipo relativo in materia di esterovestizione, consistente nell’attrazione della sede amministrativa del soggetto estero nel territorio dello Stato, per accertare la sussistenza della relazione di controllo da parte di una società residente, la verifica di quest’ultimo, disciplinato ex art. 2359, co. 1, n. 1) del Codice civile, richiede che la maggioranza delle quote della società estera sia concentrata e detenuta in capo alla sola società italiana senza che rilevino, in alcun modo, manifestazioni del controllo c.d. mediato per il tramite dei soci di quest’ultima, a ciò ostando espressamente il disposto di cui all’art. 2359, co. 2 del Codice civile, che esclude, al riguardo, il computo dei voti spettanti per conto di terzi.

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PAROLE CHIAVE: IRES; esterovestizione; controllo societario; imprese estere partecipate.


di Giulio Garofalo

1. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha fornito importanti chiarimenti in ordine al perimetro applicativo della presunzione operante in tema di residenza fiscale delle persone giuridiche, precisando i casi per i quali possa ritenersi integrato il requisito del controllo, presupposto imprescindibile per l’attrazione della sede amministrativa in Italia delle società o enti cc.dd. “esterovestiti”.

Ebbene, uno dei riflessi della globalizzazione, connaturato al fenomeno delle box company, è stato ed è tutt’oggi la proliferazione di gruppi multinazionali caratterizzati da una direzione e strategia unitaria, ma composti da società frammentate in Paesi diversi, prevalentemente in funzione di fattori economico – produttivi, relativi ad esempio al costo del lavoro, alla disponibilità di materie prime, alla vicinanza ai mercati di sbocco. Anche la convenienza fiscale, in aggiunta alle predette, fa la sua parte specie per cespiti ad alta volatilità territoriale, come brevetti, marchi, partecipazioni societarie, ricchezza finanziaria, attività di trading. Può, quindi, sovente accadere che una società con sede legale all’estero sia fortemente integrata con altre società aventi sede nel territorio statale.

Come noto, ai sensi dell’art. 73, co. 3 del TUIR, la residenza fiscale dei soggetti Ires si viene a determinare sulla scorta di tre criteri alternativi – la sede legale, la sede dell’amministrazione e l’oggetto sociale – ai quali si deve sommare un requisito di natura squisitamente temporale, consistente nella localizzazione in Italia di almeno uno dei suddetti elementi per la maggior parte del periodo d’imposta.

Posto, dunque, il criterio di collegamento di carattere generale per il radicamento della residenza, con la disposizione introdotta per mezzo dell’art. 35, co. 13, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in L. n. 248 del 4 agosto 2006, il Legislatore ha inteso apportare, in materia di individuazione della residenza fiscale delle persone giuridiche, un restyling di natura procedimentale all’intelaiatura del TUIR con l’inserimento nel tessuto normativo dell’art. 73 di due nuovi commi (per un maggiore approfondimento sulla genesi della normativa in esame si permetta di rinviare ai contributi di Corasaniti – Dé Capitani, La nuova presunzione di residenza fiscale dei soggetti ires, in Diritto e Pratica Tributaria, 2007, p. 97 e ss; Melis, La residenza fiscale dei soggetti ires e l’inversione dell’onere dell’onere probatorio di cui all’art. 73, commi 5-bis e 5-ter T.U.I.R., in Diritto e Pratica Tributaria Internazionale, 2007, p. 781 e ss. e Bagarotto, La residenza delle società nelle imposte dirette alla luce della presunzione di “esterovestizione”, in Riv. Dir. Trib., 2008, p. 1156 e ss.).

Invero, con una formulazione giuridica tutt’altro che cristallina, si è innestata nel terreno tributario una presunzione iuris tantum in ordine al radicamento in Italia della sede dell’amministrazione, al ricorrere di specifiche circostanze che sono state elevate a indici sintomatici di collegamento del soggetto estero con il territorio dello stato italiano.

Si sostiene, sotto questo profilo, che la norma traduca una regola che trova riscontri nell’esperienza (sul punto cfr. Stevanato, La presunzione di residenza delle società esterovestite: prime riflessioni critiche, in Corriere Tributario, 2006, p. 2952 e ss.), secondo la quale la presenza di soci di controllo italiani ovvero della maggioranza degli amministratori italiani è elemento da cui è possibile desumere – secondo l’id quod plerumque accidit – che il centro decisionale del soggetto estero sia in realtà localizzato in Italia. Tale assunto non significa che – antecedentemente alla novella – siffatta ricostruzione induttiva fosse di per sé sola sufficiente per dimostrare l’esistenza in Italia della sede dell’amministrazione del soggetto estero, essendo comunque necessario che l’ufficio finanziario acquisisse ulteriori elementi tali da confermare al ragionamento presuntivo le connotazioni della gravità, precisione e concordanza, imprescindibili onde attribuire all’argomentazione la dignità di prova.

Di qui l’utilità della novella in commento che positivizza il ragionamento presuntivo, sollevando contestualmente l’Amministrazione finanziaria dall’onere motivazionale e probatorio in ordine al passaggio inferenziale dal fatto noto (controllo da parte di soci italiani e/o maggioranza di amministratori italiani) – la cui dimostrazione incombe pur sempre in capo all’Ufficio – al fatto noto (localizzazione della sede amministrativa in Italia).

Non è questa la sede per esaminare approfonditamente le diverse autorevoli posizioni dottrinali formatesi sulla natura della normativa di nuovo conio (sul punto si vedano Marino - Lupi, Quale valore sistematico per le nuove disposizioni sulla residenza in Italia delle “holding estere”?, in Dialoghi Diritto Tributario, 2006, p. 1013; Escalar, Criticità dei rilievi di esterovestizione di società unionali, in Corriere Tributario, 2019, p. 1074 e ss. e Ferranti, La disciplina dell’esterovestizione va tenuta distinta dall’abuso del diritto , in Corriere Tributario, 2023, p. 307 e ss.); ciò che invece occorre evidenziare è l’impatto dirompentemente pro Fisco arrecato dalla novella – in termini di onere probatorio – la cui ratio è individuabile nella voluntas legis di stigmatizzare non tanto la scelta dei contribuenti italiani di fissare in modo effettivo la residenza fiscale delle holding in un altro Stato, giacché, in ambito comunitario, tale intento si sarebbe posto in aperto contrasto con le libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali sancite dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, rispettivamente gli artt. 49 e 63, quanto piuttosto – in modo più mirato – la decisione di localizzare fittiziamente la residenza fiscale in un altro Stato, posizionandovi ivi la sede legale, onde creare un’apparenza di residenza fiscale in quel Paese, ma mantenendo nella sostanza, in modo occulto o quanto meno non trasparente, in Italia il centro decisionale, ossia la sede dell’amministrazione.

2. Nella fattispecie posta al vaglio della Suprema Corte, una società lussemburghese asseritamente esterovestita ricorreva avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia dolendosi, tra gli altri motivi, della distorta ricostruzione effettuata dai Giudici di seconde cure in ordine all’attrazione della sede amministrativa nel territorio nazionale delle società esterovestite.

Nel giudizio di prime cure, la Commissione Tributaria Provinciale di Brescia respingeva il ricorso della società, confermando de relato la legittimità della ricostruzione operata dall’Amministrazione finanziaria in quanto, sulla base delle prove raccolte da quest’ultima, la medesima era da considerarsi residente in Italia e, per tale ragione, soggetta a tutti gli adempimenti strumentali e sostanziali previsti dalle norme nazionali per i soggetti Ires.

 Avverso la decisione di primo grado, la contribuente interponeva appello dinanzi la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che, tuttavia, confermava la statuizione. Il giudice del gravame, in particolare, con riferimento alla contestata esterovestizione, riteneva la medesima integralmente provata dall’Amministrazione finanziaria essendo stata dimostrata sulla base della documentazione in atti che la quasi totalità del capitale sociale della società lussemburghese era posseduta da persone fisiche residenti nel territorio dello Stato. Secondo il ragionamento dei giudici d’appello, infatti, uno degli indizi sintomatici della sussistenza sul territorio italiano della sede dell’amministrazione della società è rappresentato dalla residenza fiscale, in Italia, dei membri del consiglio di amministrazione della società. Concludevano, quindi, per la correttezza della ricostruzione operata dai Giudici di prime cure, ritenendo provato con circostanze e fatti gravi, precisi e concordanti che la ricorrente è una società estero vestita alla luce della documentazione extra contabile, dei memorandum e dal possesso di quote del capitale attribuibile a persone fisiche residenti in Italia.

La società ricorreva così per Cassazione denunziando con il sesto motivo di ricorso la violazione dell’art. 73, co. 5-bis e 5-ter del Tuir sulla scorta della ricostruzione fattuale operata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia. Resisteva con controricorso l’Agenzia delle Entrate, asserendo la genuinità del percorso logico – giuridico operato dai Giudici di seconde cure.

La Corte di Cassazione, opportunamente, accoglieva il ricorso avendo ritenuto nel caso de quo inapplicabile la disciplina sulla esterovestizione in ragione del fatto che le quote della società italiana possedute da quella estera del 48,80% non potessero essere sommate a quelle di proprietà del socio – presumibilmente socio della stessa società estera controllante l’ulteriore società nazionale – pari al 4,05%, in quanto si reputa sussistente il rapporto di controllo  solo se esercitabile in modo solitario dalla controllante, senza che rilevino forme di esercizio mediato o congiunto, riconducibili alla detenzione di quote da parte di soggetti terzi.

La Suprema Corte ha avuto modo di evidenziare come riguardo al c.d. controllo interno di diritto, ossia quello disciplinato ex art. 2359, co. 1, lett. a) del Codice civile, non assume rilevanza che i terzi siano soci della possibile controllante, poiché difetta in ogni caso il presupposto del possesso di una porzione maggioritaria del capitale sociale da parte della società controllante, sulla quale si fonda la connotazione presuntiva contenuta nell’art. 2359, co. 1, lett. a) del Codice civile.

Gli Ermellini hanno, quindi, fissato il principio di diritto per il quale, la verifica della sussistenza del requisito del controllo di cui all’art. 2359 cit.– al fine di appurare se una società estera sia soggetta al controllo da parte di una società italiana – debba accertarsi vagliando se la maggioranza delle quote della società estera sia concentrata in capo alla sola società italiana, senza che rilevino possibili titolarità di altre quote da parte dei soci di quest’ultima, a ciò ostando il disposto di cui all’art. 2359, co. 2 del Codice civile, che esclude, al riguardo, il computo dei voti spettanti per conto di terzi.

3. La pronuncia in commento offre l’occasione per snocciolare alcune brevi considerazioni in merito, da un lato, alla nozione di controllo nel diritto tributario (si permetta di rinviare per un’analisi funditus del tema alla monografia di Marino, La relazione di controllo nel diritto tributario, 2008) e, dall’altro, alla sua effettiva concretizzazione nell’ambito del fenomeno delle box company.

La nozione di controllo di società non gode di una definizione univoca ai fini tributari, diversamente da quanto si constata in ambito civilistico (sul rapporto tra diritto tributario e nozioni di altre branche dell’ordinamento cfr. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, 2003, p. 143 e ss.). Il silenzio serbato della normativa fiscale ha indotto la dottrina a elaborare soluzioni interpretative che hanno dato vita a due orientamenti contrapposti. Il primo, facendo leva sulla natura normativa di “secondo grado” del diritto tributario (in tal senso, ex multis, Castaldi, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, 1999, p. 8 e ss. e Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, 1990, p. 67 e ss.), ritiene che il – generico – riferimento al controllo operato dalla norma fiscale debba essere inteso quale implicito rinvio alla nozione civilistica di controllo dettata dall’art. 2359 Codice civile. L’argomentazione più coriacea a supporto di tale ricostruzione si fonda essenzialmente sulla natura dell’art. 2359 del Codice civile quale norma di carattere generale e, in quanto tale, idonea a spiegare automaticamente effetti nel comparto fiscale in assenza di un’espressa disposizione tributaria derogatoria. In secondo luogo, si è opinato che la ratio della disposizione civilistica consiste nel limitare la riconoscibilità del controllo a situazioni in cui l’esistenza effettiva di un potere direttivo tra le società fosse ragionevolmente probabile: finalità che rimarrebbe valida anche se calata nel contesto delle norme fiscali. Il secondo filone, contrariamente, valorizza le diverse finalità sottese alla disciplina del controllo nei due rispettivi comparti dell’Ordinamento, sostenendo che l’accezione di controllo in ambito tributario deve essere enucleata in via autonoma rispetto alla definizione civilistica in virtù del fatto che, in ambito fiscale, il riferimento all’art.2359 del Codice civile è impiegato, a volte, con l’intento di richiamare anche le limitazioni soggettive invalse nel campo civilistico, mentre altre volte il richiamo opera al solo scopo di fissare le soglie oggettive del controllo, a prescindere dai soggetti coinvolti (Michelutti – Prampolini, Il requisito del controllo nel consolidato fiscale nazionale, in Riv. Dir. Trib., 2006, p. 672).

Tratteggiata, senza pretesa di esaustività, la summa divisio che anima la dottrina circa la dipendenza o meno della normativa tributaria in merito alla nozione di “controllo”, preme a questo punto della trattazione circoscrivere l’esatta latitudine della presunzione recata dall’art. 73, co. 5-bis del TUIR innescandosi, la medesima, al soddisfacimento cumulativo (i) del controllo partecipativo del soggetto estero sull’ente nazionale e (ii) del controllo – partecipativo, ovvero gestionale – di un soggetto italiano sul soggetto estero.

Ebbene, l’indagine non può che essere intrapresa dall’esame del requisito della partecipazione di controllo che, secondo l’accezione tradizionale, può assumere i contorni di: un controllo di diritto, ossia il soggetto estero deve possedere la maggioranza assoluta dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; un controllo interno di fatto, ossia il soggetto deve possedere una partecipazione che garantisca un numero sufficiente di voti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; in un controllo contrattuale, ossia – a prescindere da qualsivoglia requisito partecipativo – un soggetto che esercita un’influenza dominante su di un altro soggetto (rectius, società) in virtù di particolare vincoli contrattuali.

Dubbi sono stati avanzati da attenta dottrina, tuttavia, in relazione sia al controllo c.d. contrattuale, in quanto tale ipotesi – sebbene non espressamente esclusa dal Legislatore – dovrebbe essere espunta dal novero delle fattispecie, posto che il dettato letterale della disposizione in analisi si riferisce esclusivamente alla detenzione di partecipazione di controllo e non anche a ipotesi di controllo tout court come, per converso, si registra nella normativa sulle controlled foreign companies di cui all’art. 167 del Tuir (si vedano Melis, La residenza fiscale dei soggetti ires e l’inversione dell’onere dell’onere probatorio di cui all’art. 73, commi 5-bis e 5-ter T.U.I.R., in Diritto e Pratica Tributaria Internazionale, 2007, p. 840 e 841 e Viotto, Considerazioni di ordine sistematico sulla presunzione di residenza in Italia delle società holding estere, Riv. Dir. Trib., 2007, I p. 269 e ss.), sia nelle situazioni di mero collegamento previste dall’art. 2359, co. 3 del Codice civile e, ancora, in tutti quei casi in cui per effetto della scissione tra nuda proprietà od usufrutto ovvero per le caratteristiche delle azioni attribuite al socio non residente, vengano meno i diritti amministrativi connessi alla qualità di socio, privandolo, dunque, del controllo.

Avversa tale ricostruzione altra parte della dottrina ritenendo che, sulla scorta di una lettura sistematica della disciplina, tale ipotesi non possa invero escludersi aprioristicamente in quanto, proprio facendo leva sulla disciplina CFC, si potrebbe verificare il caso in cui il soggetto estero detenga una partecipazione nella società o ente fiscalmente residente in Italia che, sebbene non gli consenta di esercitare un controllo diretto né di diritto né tantomeno di fatto secondo l’accezione di cui all’art. 2359, co. 1, nn. 1) e 2) del Codice civile, comunque, gli permetta di esercitare sul soggetto partecipato un controllo in base a peculiari rapporti contrattuali (Antonini, Note critiche sulla presunzione in tema di residenza fiscale di società ed enti introdotta dal DL 4 luglio 2006, n. 223, in Riv. Dir. Trib., 2006, III p. 179 e ss.). Senonché, questa interpretazione, pur attenta al dato sistematico, deve confrontarsi con l’espressione normativa, che si riferisce a società che detengono partecipazioni di controllo, in luogo di quella di detenere il controllo, impiegata in ambito CFC.

Precisata, nei termini anzidetti, la locuzione detenzione di partecipazioni di controllo nel soggetto nazionale, la sentenza qui annotata permette, altresì, di valutare la rilevanza di un’ulteriore tipologia di controllo, quello c.d. congiunto e, se lo stesso, possa integrare il prerequisito patrimoniale.

Quest’ultimo si realizza nei casi in cui due o più società, partecipanti congiuntamente, governano la società partecipata, ma da sole non sarebbero in grado di raggiungere una posizione di dominio tale da condizionare la volontà dell’altro o dei rimanenti soci. Ci si domanda, dunque, se in tale situazione sia configurabile una ipotesi di controllo ex art. 2359, co. 1 del Codice civile, tale da rendere applicabile, ceteris paribus, quanto stabilito dall’art. 73, co. 5-bis del Tuir. Condivisibile dottrina (Bernoni – Dragonetti, Esterovestizione e controllo congiunto, in Il Fisco, 2007, p. 2766 e ss.) afferma sul punto che la nozione di controllo prevista dall’art. 2359, co. 1 del Codice civile mal si attaglia alla fattispecie di controllo congiunto come sopra descritta. In particolare, essa postula che il controllo richiede sempre la solitudine, la unicità del controllante e non prevede in alcun modo ipotesi di controllo congiunto o, come nel caso di specie, mediato. In altri termini, si può affermare che le fattispecie di cui all’art. 2359 sono costituite dall’ipotesi del controllo maggioritario e determinativo in capo a un solo soggetto, non solo con riferimento al controllo di diritto, ma anche al controllo di fatto. La ratio della disciplina, infatti, consiste sostanzialmente nell’intercettare gli aspetti patologici di un “rapporto” tra soggetti (controllante e controllata) reciprocamente distinti e portatori di interessi confliggenti; un’impostazione che adotta esclusivamente la prospettiva della singola società del gruppo, senza contemplare la possibile sussistenza di un interesse (collettivo di gruppo) ulteriore e unificante le diverse entità che compongono la catena di controllo (cfr. Galgano, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Padova, 2004, p. 146).

Una volta appurato che la società estera possiede una partecipazione di controllo (diretto) nella società o ente italiano, come testé illustrata, per l’applicazione della presunzione di cui si discute occorre verificare la sussistenza del secondo requisito, il c.d. controllo passivo, interessante i soggetti “controllanti” residenti in Italia di cui al co. 5-bis, lett. a) dell’art. 73 TUIR. Il termine, in questo contesto, è utilizzato in senso atecnico in quanto in esso sono da ricondurre tanto le ipotesi in cui detti soggetti esercitino il controllo ex art. 2359 del Codice civile, nelle forme già indicate, quanto le ipotesi di controllo effettivo esercitato in base alla composizione del consiglio di amministrazione del soggetto estero. Dunque, occorre evidenziare che, per quanto attiene alla definizione di controllo, il Legislatore, a differenza di quanto si è sostenuto sopra in merito al controllo partecipativo esercitato dal soggetto estero nei confronti del soggetto residente in Italia, richiamandosi all’art. 2359, co. 1 del Codice civile ai fini della verifica del controllo esercitato dal soggetto fiscalmente residente in Italia sulla società o ente residente all’estero, richiede la verifica dell’esistenza di un controllo anche di tipo contrattuale, ipotesi che – come visto – risulta opportunamente esclusa da taluni autori nell’accertamento del controllo da parte del soggetto estero. Inoltre, il contestuale richiamo implicito all’art. 2359, co. 2 del Codice civile comporta la necessità di procedere alla verifica anche nel caso di controllo indiretto.

 

4. Le conclusioni raggiunte dalla Corte di Cassazione con la sentenza qui annotata sono pienamente condivisibili e risultano ossequiose del dettato normativo, circa il requisito del controllo, racchiuso nel TUIR.

Semmai, ciò che realmente dà adito a reali preoccupazioni è il comportamento dei verificatori e degli Uffici nei casi concreti. Sarebbe opportuno, pertanto, procedere a una revisione aggiornata – e possibilmente trasparente, con pubblicazione dei risultati – della casistica concreta di applicazione della presunzione di esterovestizione, che tenga quindi conto degli ultimi cinque anni di attività di accertamento, onde verificare in che misura gli Uffici locali abbiano tenuto conto delle direttive degli Uffici centrali.

Per altro verso, l’assenza di forme di contraddittorio preventivo e istituzionalizzato si manifesta come una carenza comunque di grande rilievo. A ben vedere, pur non costituendo di per sé un motivo di incompatibilità col diritto europeo, sub specie di lesione del diritto al contraddittorio (posto che questo viene comunque realizzato nell’ambito dell’attività stessa di verifica), ciò determina una significativa compressione di un altro essenziale valore, quale la certezza del diritto, per almeno due ragioni: i) da un lato, l’assenza di documentazione pubblica quali ruling e risoluzioni, non consente di verificare se e in quale misura sia data effettiva attuazione ai principi affermati dalla Direzione Centrale Normativa nelle risposte alla Commissione Europea (cfr. EU Pilot n. 2010/777/TAXU); tali affermazioni, infatti, se non supportate da prassi costante e coerente, rimangono mere (e non comprovate) dichiarazioni di intenti; ii) dall’altro lato, questa stessa carenza non consente ai contribuenti di strutturare operazioni che comportino il ricorso a sub – holding o, financo, semplici joint venture collocate in altri Stati membri, avendo reale contezza ab origine di ciò che sia e non sia consentito fare.

In un simile contesto è chiaro che la lesione delle libertà fondamentali risulta non comprovata, ma sempre potenziale e sospetta, contribuendo ancora una volta a generare un ambiente poco favorevole allo svolgimento di attività imprenditoriali in Italia.