Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

04/07/2023 - Qualifica di PMI e verifica dei requisiti dimensionali in presenza di collegamento tra imprese ai fini della fruibilita’ dell’agevolazione ex art. 6 comma 13 della legge n. 388/2000

argomento: Agevolazioni - Giurisprudenza

L’art. 6 comma 13 della legge n. 388/2000, c.d. “Tremonti Ambientale” prevede che “la quota di reddito delle piccole e medie imprese destinata a investimenti ambientali, come definiti al comma 15, non concorre a formare il reddito imponibile ai fini delle imposte sul reddito”. Per poter beneficiare dell’agevolazione in esame è necessario che l’impresa sia in possesso dei requisiti dimensionali individuati dal DM 18 aprile 2005, il cui art. 2 prevede che la categoria delle PMI è costituita da imprese che a) hanno meno di 250 occupati e b) hanno un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro, oppure – in alternativa- un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro. Qualora l’impresa richiedente l’agevolazione risulti collegata ad altre imprese, il conteggio dei requisiti dimensionali deve essere effettuato computando anche i valori delle imprese collegate.

» visualizza: il documento (Commissione Tributaria Regionale- Lombardia, Sez. XI, 7 luglio 2022, n. 2872) scarica file

PAROLE CHIAVE: PMI - diniego rimborso


di Aurora De Roma

 

Premessa fattuale.  La sentenza della Commissione tributaria Regionale della Lombardia (ora Corte di Giustizia tributaria di secondo grado) del 7 luglio 2022, n. 2872, ha ad oggetto l’impugnazione di un diniego di rimborso IRES.

L’Ufficio aveva negato il rimborso in quanto, risultando il capitale della società contribuente interamente detenuto da società estere, il numero degli occupati e i dati di bilancio erano superiori ai limiti previsti dal DM del 18 aprile 2005, necessari ai fini della qualifica quale PMI. Non sussistendo, dunque, i requisiti dimensionali necessari per la qualifica quale PMI, la società contribuente, a parere dell’Ufficio, non poteva usufruire dell’agevolazione prevista dall’art. 6 comma 13 della Legge c.d. “Tremonti Ambientale”.

La sentenza di primo grado aveva accolto il ricorso della contribuente. La Commissione, richiamando la circolare n. 53/E del 2005, aveva escluso la considerazione del gruppo societario, data la non omogeneità delle attività svolte, ritenendo la società contribuente quale realtà autonoma e, conseguentemente, qualificabile quale PMI.

Nel giudizio di appello, l’Ufficio, insistendo sulla configurabilità del collegamento tra imprese, ribadiva che i dati dimensionali erano tali da escludere la qualifica di PMI.

L’appello non è accolto dalla Commissione Tributaria Regionale. Quest’ultima, pur riconoscendo il collegamento tra imprese e pur tenendo conto che, in tal caso, è necessario computare i valori delle imprese collegate per verificare la qualifica o meno quale PMI, chiarisce che l’errore compiuto dall’Ufficio sta nella lettura dell’art. 2 del DM 18 aprile 2005. Dal testo della citata norma emerge, infatti, chiaramente, che la categoria delle PMI è costituita da imprese che a) hanno meno di 250 occupati e b) hanno un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro, oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro. L’errore dell’Ufficio consiste nel non aver considerato che la lettera della norma prevede espressamente un’alternatività tra i requisiti sub b).

La sentenza in esame offre l’occasione per alcuni spunti di riflessione su alcune peculiarità della disciplina agevolativa c.d. “Tremonti Ambientale”.

 

  1. La natura dell’agevolazione ex art. 6, commi 13-19 Legge n. 388/2000. La sentenza annotata, che ha ad oggetto il diniego di rimborso IRES (l’impugnabilità del diniego di rimborso è prevista dall’art. 19 comma 1, lett. g del d.lgs. 546/1992. Sul punto, cfr. m. miscali, Il diritto di restituzione. Dal modello autoritativo al modello partecipativo nel sistema delle imposte, 2004, p. 254) implica alcune riflessioni, in primo luogo, riguardo alla natura della misura prevista dall’art. 6, commi 13-19 della Legge 388/2000, c.d. “Tremonti Ambientale” (per una approfondita disamina dell’agevolazione in esame, si veda f. russo, g. russetti, Le agevolazioni alle imprese, Milano, 2012, p. 494 ss.).

Si trattava, in termini generali, di un’agevolazione (in tema di agevolazioni fiscali, senza alcuna pretesa di esaustività, n. d’amati, Agevolazioni ed esenzioni tributarie, in Nov. Dig. it., App. I, Torino, 1980, p. 153; s. la rosa, Esenzioni e agevolazioni tributarie, in Enc. giur., XIII, Roma, 1989; f. fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992; r. zennaro, f. moschetti, Agevolazioni fiscali, in Dig. disc. priv., sez. comm., I, Torino, 1987, p. 63; a. pace, Le agevolazioni fiscali. Profili procedimentali, Torino, 2012, p. 15 ss.), volta a incentivare le piccole e medie imprese che realizzavano investimenti “ambientali” -ad esclusione degli investimenti realizzati per obbligo di legge- con l'evidente intento di utilizzare la leva fiscale per spronare interventi di tale natura (sul concetto di investimento ambientale, si veda si veda f. russo, g. russetti, Le agevolazioni alle imprese, op. cit., p. 503-507).

Partendo dal presupposto che la fiscalità ambientale risulta caratterizzata non solo dallo scopo di recuperare risorse ma soprattutto dalla sua capacità di incidere sulle condotte degli agenti economici, aggravando i costi dei prodotti e delle attività dannose per l’ambiente ovvero prevedendo agevolazioni fiscali ed incentivi per favorire condotte eco-compatibili (in questi termini, a. f. uricchio, I tributi ambientali e la fiscalità circolare, in Diritto e Pratica Tributaria, n. 5/2017, p. 1849), la misura in esame, essendo finalizzata ad incentivare comportamenti e processi produttivi ecocompatibili, persegue fini extrafiscali, nell’intento di salvaguardare l’ambiente. La tutela dell’ambiente, quale interesse da conseguire sia a livello europeo che nazionale, infatti, è suscettibile di assurgere a finalità extrafiscale giustificativa di un’agevolazione fiscale (in questi termini, p. selicato, Fiscalità ambientale e Costituzione, in F. Picciaredda, P. Selicato (a cura di), I tributi e l’ambiente, Milano, 1996, p. 102).

L’agevolazione in esame si configurava nella detassazione, ai fini delle imposte sul reddito, del costo relativo all’acquisto di immobilizzazioni materiali ricomprese nell’elenco di cui al comma 1, lett. b), n. 2, art. 2424 c.c. - intesi quali costi sostenuti dalle PMI per prevenire, ridurre o riparare i danni causati all’ambiente dall’attività d’impresa- ed era espressione del lodevole intento del Legislatore di porre in essere modalità di prevenzione e riparazione dei danni ambientali causati dalle attività economiche, diverse dal semplice inasprimento dell'imposizione sui prodotti inquinanti (in riferimento alle agevolazioni fiscali in materia ambientale, f. amatucci, Agevolazioni fiscali ambientali, aiuti di Stato e incompatibilità comunitaria, in Riv. dir. trib. int., n. 1/2005, p. 81; r. alfano, Agevolazioni fiscali in materia ambientale e vincoli dell’Unione europea, in Rass. trib., n. 2/2011, p. 328; g. selicato, Profili teorici e lineamenti evolutivi degli strumenti agevolativi a carattere fiscale e non fiscale per la promozione dello sviluppo sostenibile, in Riv. dir. trib. int., n. 2-3/2004, p. 399).

Si trattava, in particolare, di un’agevolazione automatica poiché era prevista la sola procedura di autoliquidazione del beneficio: in sede di dichiarazione annuale dei redditi, veniva operata una variazione in diminuzione dell’imponibile, pari all’eccedenza degli investimenti ambientali realizzati nel periodo d’imposta corrente rispetto alla media di quelli effettuati nei due periodi d’imposta precedenti. L’impresa era tenuta soltanto a conservare la relazione tecnica, redatta con l’aiuto del fornitore dell’impianto, da esibire in sede di eventuali controlli fiscali, per dimostrare la destinazione ambientale dell’investimento effettuato (v. dulcamare, L'agevolazione per gli investimenti ambientali alle PMI, in Azienda & Fisco n. 2/2001, p. 115; g. gavelli, Legge Finanziaria 2001: agevolazione per investimenti ambientali, in Il Fisco, n. 8/2001, p. 3072 ss.).

Tale agevolazione,  prevista per le piccole e medie imprese in regime di contabilità ordinaria, trovava nell’approccio incrementale, diretto esclusivamente al riconoscimento dei costi d’investimento supplementari, il metodo di calcolo per la quantificazione della variazione in diminuzione ai fini delle imposte sul reddito. Difatti, come chiarito dalla risoluzione n. 226 dell’Agenzia delle entrate dell’11 luglio 2002, “l’approccio incrementale di misurazione delle spese ambientali separa la quota parte dell’investimento realizzato al fine di ottenere migliorie ambientali dalla restante parte dell’investimento stesso; esso si contrappone all’approccio globale che invece considera ambientale, nella sua interezza, un investimento realizzato anche per altre finalità”.

La normativa in esame si completava con la previsione, ex art. 6 comma 14 della Legge n. 388/2000, di una disposizione antielusiva, in base alla quale l’agevolazione veniva meno nell’ipotesi in cui i beni acquistati venivano ceduti entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello in cui erano stati effettuati gli investimenti ambientali. Sebbene la norma in esame prendesse in considerazione la sola cessione, si è ritenuto che essa potesse trovare applicazione anche nelle ipotesi di dismissione o di destinazione dei beni agevolati a finalità estranee all’impresa (in questi termini, f. russo, g. russetti, Le agevolazioni alle imprese, op. cit., p. 516).

È necessario sottolineare che, con riguardo alla possibilità di beneficiare dell’agevolazione in un periodo d’imposta successivo a quello di effettuazione dell’investimento ambientale, come verificatosi nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcune precisazioni. Nella risoluzione 58/E/2016, l’ADE ha precisato che “conformemente a quanto chiarito con la risoluzione n. 132/E del 20 dicembre 2010 in relazione alla già citata agevolazione Tremonti-ter, si è ritenuto che la mancata indicazione della deduzione per fruire della detassazione ambientale entro il termine di presentazione della dichiarazione originaria, non sia di ostacolo alla possibilità di avvalersi di tale deduzione in sede di dichiarazione dei redditi integrativa, ai sensi dell’articolo 2, comma 8-bis, del D.P.R. n. 322 del 1998. Decorsi i termini per la presentazione della dichiarazione a favore di cui all’articolo 2, comma 8-bis, del D.P.R. n. 322 del 1998, è altresì possibile recuperare l’agevolazione presentando un’istanza di rimborso, ai sensi dell’articolo 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602” (sul punto, Commissione Tributaria Regionale-Lombardia, sentenza 24 gennaio 2020, n. 173).

Fatte tali premesse, dunque, pur non avendo la società contribuente indicato la deduzione per fruire della detassazione ambientale nel termine previsto per la presentazione della dichiarazione originaria, in base alla citata risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, è del tutto legittima la presentazione dell’istanza di rimborso.

Nella fattispecie in esame, la società contribuente aveva presentato istanza di rimborso per aver realizzato un impianto fotovoltaico. Riguardo alla concreta fruibilità dell’agevolazione, la genericità e l’indeterminatezza della normativa in esame ha comportato molteplici problemi applicativi, sia in merito alla valutazione dell’approccio incrementale, sia riguardo alla corretta individuazione degli investimenti qualificabili come “ambientali” (sul punto, r. alfano, Imposte sui redditi, detassazione e regime agevolativo. Il caso della Tremonti ambientale: analisi di un'esperienza e possibili prospettive future, in V. Ficari (a cura di), I nuovi elementi di capacità contributiva: l'ambiente, 2018, p. 138 ss.). Al riguardo, è sorta la questione se gli impianti fotovoltaici potessero rientrare nel novero degli investimenti ambientali.

Se, da un lato, l’Agenzia delle Entrate (Circolare Agenzia delle Entrate 23 giugno 2010, n. 38/E, paragrafo 1.8.a, in Il Fisco n. 28/2010, p. 4490) aveva affermato che “l’impianto fotovoltaico non costituisce un impianto infisso al suolo in quanto normalmente i moduli che lo compongono (i pannelli solari) possono essere agevolmente rimossi e posizionati in altro luogo, mantenendo inalterata la loro originale funzionalità”, dall’altro, l’Agenzia del Territorio (Risoluzione Agenzia del Territorio 6 novembre 2008, n. 3/T.25) aveva, invece, qualificato gli impianti fotovoltaici posizionati sul suolo quali opifici, ossia quali unità immobiliari. Al riguardo, si era espressa anche Assonime sostenendo che gli impianti fotovoltaici, consentendo di ridurre le emissioni di CO2 nell’ambiente rispetto all’uso di energia tradizionale, potessero rientrare nel novero degli investimenti ambientali.

Risolutivamente, il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) ha affermato, nella nota del 15 settembre 2011 n. 0018485, che ‘‘gli impianti fotovoltaici [...] ricadono [...] nell’ambito applicativo dell’art. 6, commi da 13 a 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388’’ (sul punto, p. alberti, La detassazione degli investimenti ambientali e i riflessi sul fotovoltaico, in Il Fisco, n. 45/2010, p. 1-7272; s. chirichigno, v. segre, La detassazione ambientale per gli impianti fotovoltaici: l’Agenzia fa il punto sui profili procedurali, in Corr. Trib., n. 37/2016, p. 2846). Infine, preme sottolineare che l’agevolazione in esame, in origine non sottoposta ad alcuna scadenza temporale, è stata abrogata dal D.L. n. 83/2012 a far data dal 26 giugno 2012. Tutti gli investimenti effettuati successivamente a tale data, dunque, ne sono esclusi.

Appurata la natura agevolativa della misura ex art. 6, commi 13-19 della Legge n. 388/2000, secondo un consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass., 4 ottobre 2017, n. 23228; Cass., V Sez. Trib., 11 dicembre 2018, n. 20332), peraltro ribadito dalla Corte nella sentenza annotata, l’onere della prova è a carico della società contribuente e non può trovare fondamento, salvo il principio di non contestazione, in quanto affermato nei propri atti difensivi o nelle memorie integrative, dovendo, invece, essere oggetto di puntuale e preciso riscontro probatorio documentale (sul punto, f. tesauro, Prova (diritto tributario), voce in Enc. dir., Aggiornamento, III, Milano, 1999, p. 893; g. m. cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 602 ss.).

 

  1. La qualifica di PMI, necessaria ai fini della fruizione dell’agevolazione prevista dalla c.d. “Tremonti Ambientale”. La seconda questione da esaminare, risolutiva della sentenza annotata, riguarda la qualifica di PMI.

Data la loro rilevanza, le PMI sono state oggetto di numerose politiche nazionali ed europee volte, ad esempio, a facilitare l’accesso alle fonti di finanziamento, a ridurre gli oneri normativi per semplificare l'ingresso nei mercati del capitale e a incentivare la transizione verso la sostenibilità e la digitalizzazione. Indubbiamente, lo sviluppo e l’attuazione di politiche dedicate alle PMI non possono che essere influenzati dalla definizione stessa di PMI.

Partendo dal presupposto che il riferimento alle PMI non è presente né all’interno del codice civile (l’art. 2082 c.c. fornisce una definizione generale di imprenditore, senza prendere in considerazione la differenza tra media e grande impresa. In questi termini, f. galgano, Diritto commerciale, Bologna, 2010, p. 35), né all’interno della Carta Costituzionale, tale assenza ha reso necessario l’intervento del Legislatore comunitario ed italiano.

Poiché una definizione di PMI non aveva “mai trovato una sistemazione definitiva” (g. vesperini, Industria (interventi pubblici nell’), in Enciclopedia Giuridica, Roma, 1988, XVI, p. 11), pur rappresentando “il necessario presupposto di una politica economica di intervento nel settore” (in questi termini, f. galgano, Diritto commerciale, op. cit., p. 184), il Legislatore nazionale fornisce una prima definizione di tali imprese nel DM del 1 giugno 1993, recante l’adeguamento alla disciplina comunitaria dei criteri di individuazione di PMI di cui alla Comunicazione del 5 maggio 1993.

Una seconda definizione di PMI è contenuta nel DM 18 settembre 1997, emanato in attuazione della Raccomandazione n. 280 del 1996: un’impresa rientra nel novero delle PMI laddove, da un lato, abbia meno di 250 dipendenti ed un fatturato annuo non superiore a 40 milioni di ECU, oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 27 milioni di ECU; dall’altro, sia in possesso di specifici requisiti di indipendenza.

La terza e più recente definizione di PMI ha avuto origine dalla Raccomandazione della Commissione Europea del 6 maggio 2003 n. 361. Il nuovo intervento comunitario si è reso necessario attese le profonde mutazioni delle caratteristiche quantitative dell’economia: i valori riferiti al lontano 1996, peccando della mancata considerazione del fattore inflazionistico e dell’incremento di produttività nel frattempo registratosi, erano considerati, infatti, superati, soprattutto in relazione alle soglie finanziarie (totale di bilancio e fatturato), utilizzate ai fini dell’inquadramento della classe dimensionale delle imprese.

In attuazione della Raccomandazione europea, nel nostro ordinamento, il Ministero delle attività produttive ha emanato il DM 18 aprile 2005, introducendo, accanto alle imprese “piccole” e “medie”, anche le c.d.  “microimprese”. In particolare, l’art. 2 prevede che la categoria delle microimprese, delle piccole e medie imprese è costituita dalle imprese che hanno: a) meno di 250 occupati; b) un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro, oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro (m. di lascio, Le nuove definizioni di micro, piccola e media impresa, in Pratica Fiscale e Professionale, n. 26/2005, p. 28).

La distinzione avviene sulla base di due criteri volti ad esprimere il carattere dimensionale dell'impresa: uno relativo agli "occupati" e uno di carattere "finanziario".

Il criterio finanziario, indispensabile per apprezzare la dimensione di un’impresa, prende in considerazione, alternativamente, due parametri: il fatturato e il totale di bilancio (sul punto, m. maltoni, a. ruotolo e d. boggiali, La nuova disciplina delle (PMI) società a responsabilità limitata, in Studi e materiali, n. 2/2018, p. 325). Tali parametri devono essere ricavati dall'ultimo bilancio di esercizio approvato precedentemente alla data di sottoscrizione della domanda di agevolazione. Per le imprese esonerate dalla tenuta della contabilità ordinaria e/o dalla redazione del bilancio, le predette informazioni sono desunte, per quanto riguarda il fatturato, dall'ultima dichiarazione dei redditi presentata e, per quanto riguarda l'attivo patrimoniale, sulla base del prospetto delle attività e passività, redatto con i criteri di cui al D.P.R. 23 dicembre 1974, n. 689 e in conformità all’art. 2423 c.c. Infine, per le imprese per le quali alla data di sottoscrizione della domanda di agevolazione non è stato approvato il primo bilancio oppure, nel caso di imprese esonerate dalla tenuta della contabilità ordinaria e/o dalla redazione del bilancio, non è stata presentata la prima dichiarazione dei redditi, sono considerati esclusivamente il numero degli occupati ed il totale dell'attivo patrimoniale risultanti alla stessa data.

La qualifica di PMI è, dunque, di fondamentale importanza per stabilire se un’impresa possa o meno usufruire di misure di sostegno da parte dello Stato, incentivi, contributi pubblici, maggiore facilità nell’accesso al credito e agevolazioni fiscali (ne sono un esempio, i recenti interventi legislativi finalizzati a fronteggiare la crisi economica derivante dalla diffusione del Covid-19, che assumono la qualificazione di PMI quale presupposto per fruire dei molteplici incentivi previsti, tra i quali il “Fondo di garanzia PMI” istituito dall’art. 49 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. Decreto Cura Italia).

Inoltre, nell’ipotesi in cui l’impresa presenti legami qualificati con altri soggetti, a differenza della previgente normativa, il DM 18 aprile 2005 prevede una distinzione tra imprese autonome (definite “in negativo”, cioè in quanto non siano associate né collegate), imprese associate (quando non possono essere considerate collegate e sussiste tra loro una relazione per la quale un’impresa detiene almeno il 25% o più del capitale dell’altra o dispone di analoga quota dei diritti dei voti) ed imprese collegate.

La circostanza che l’impresa risulti collegata non necessariamente ne implica una modifica della classe dimensionale o, addirittura, l’attrazione nella categoria delle grandi imprese ma, ai fini della determinazione del numero di occupati, del fatturato o del totale di bilancio, sarà necessario sommare anche i dati delle altre imprese che con essa hanno rapporti. Come si evince dalla lettera dell’art. 3 comma 6 del DM 18 aprile 2005, tali dati sono tratti direttamente dal consolidato oppure, nel caso in cui le imprese collegate all'impresa richiedente non siano riprese nei conti consolidati o non esistano conti consolidati, ai dati dell'impresa richiedente si sommano per intero i dati degli occupati e del fatturato o del totale di bilancio desunti dal bilancio d'esercizio delle collegate (sul punto, m. bombi, Impresa che cambia da piccola a media in base alla definizione comunitaria: il problema dei contributi, in Diritto & Giustizia, n. 46/2015, p. 28).

Nella sentenza annotata, in primo luogo, la Corte riconosce la rilevanza del collegamento tra imprese, esclusa nel giudizio di prime cure, e, in secondo luogo, afferma che, trattandosi di imprese collegate, i dati dimensionali devono essere valutati con riguardo all’intero gruppo.

Assodato ciò, il dato centrale preso in considerazione dalla Corte, risolutivo ai fini del rigetto dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, è la lettera dell’articolo 2 del DM 18 aprile 2005, dal quale si evince, senza ombra di dubbio, che mentre il requisito degli occupati è obbligatorio per appartenere alla categoria delle piccole e medie imprese, il criterio del fatturato è alternativo a quello del totale di bilancio.

In definitiva, non è necessario per l’impresa, stando al dato testuale della norma, l’obbligo di soddisfare entrambi i criteri (del fatturato e del totale di bilancio), ai fini della qualifica quale PMI (l. benvenuto, La nozione di “microimpresa”, di “piccola” e di “media impresa” negli aiuti alle attività produttive, in Corr. Trib., n. 28/ 2005, p. 2213).

Nel caso in esame, appurato che il numero degli occupati ed il fatturato annuo risultano inferiori alla soglia prevista dal DM 18 aprile 2005, come peraltro riconosciuto dallo stesso Ufficio, non ci sono ragioni per escludere la qualifica di PMI e, conseguentemente, per negare il rimborso IRES richiesto dalla società contribuente.

 

  1. Osservazioni conclusive. L’agevolazione prevista dalla Legge n. 388/2000, c.d. “Tremonti ambientale”, oggetto della sentenza annotata, implica alcune riflessioni, in primis, in ordine alle finalità perseguite e, in secundis, essendo rivolta soltanto alle PMI, riguardo alla ratio di tale scelta legislativa.

L’agevolazione in esame, configurandosi nella detassazione, ai fini delle imposte sul reddito, del costo relativo all’acquisto di immobilizzazioni materiali, era finalizzata ad incentivare comportamenti e processi produttivi ecocompatibili, perseguendo, quale fine extrafiscale (sullo studio dell’extrafiscalità si vedano, tra gli altri, s. la rosa, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, vol. I, Padova, 1994, p. 401 ss. e 412 ss.; f. fichera, Imposizione ed extrafiscalità nel sistema costituzionale, Napoli, 1973; m. basilavecchia, Agevolazioni ed esenzioni (diritto tributario), in Enc. dir., Agg., V, Milano, 2001, p. 48 ss.) la tutela e la salvaguardia dell’ambiente.

In ordine alla scelta di circoscrivere tale agevolazione alle sole PMI, preliminarmente, è utile constatare che, in diverse occasioni, l’Unione Europea ha indirizzato la propria azione ed offerto soluzioni programmatiche e giuridiche agli Stati Membri per la creazione di un quadro normativo favorevole al rafforzamento ed allo sviluppo delle PMI.

A titolo esemplificativo, basti pensare al “Rapporto Davignon” del 1978, al programma di azione della Commissione del 1986, al “Libro Bianco sulla crescita, la competitività e l’occupazione” del 1993, al “Programma integrato a favore delle PMI e dell’artigianato” ed alla stessa Raccomandazione del 2003 che contiene la definizione di micro, piccole e medie imprese (in questi termini, t. tassani, La fiscalità delle P.M.I. tra distretti produttivi e reti di impresa: il dibattito teorico e l’evoluzione normativa, in Piccola impresa- Small Business, n. 3/2007, p. 109).

Sia il Consiglio nel 2000, attraverso la Carta europea per le piccole imprese (nell’ambito delle politiche europee volte a creare condizioni favorevoli alla crescita e alla competitività delle piccole e medie imprese) sia la Commissione, nel c.d. Small Business Act (SBA), dall’eloquente titolo “Una corsia preferenziale per la piccola impresa – Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per le PMI europee”, hanno confermato la necessità di porre in essere interventi finalizzati a promuovere lo sviluppo delle PMI.

In tale contesto, il ruolo della fiscalità è  sempre stato considerato fondamentale, come emerge anche dalla stessa Carta Europea per le piccole imprese, secondo cui i sistemi fiscali dovrebbero “premiare il successo”, “incoraggiare le imprese in fase di avviamento” e “favorire l’espansione” delle PMI.

Le piccole e medie imprese, che costituiscono la spina dorsale dell’economia europea, rappresentando il 99% delle imprese dell’Unione Europea, a ragione delle loro dimensioni, sono più sensibili ai cambiamenti industriali ed economici, essendo le prime a risentire di una eccessiva burocrazia e le prime a fiorire per effetto delle iniziative dirette a favorirne lo sviluppo.

Tali peculiarità rendono, dunque, necessari gli interventi legislativi volti a ridurre il divario esistente tra le PMI e le imprese di maggiori dimensioni.

 Partendo dal presupposto che la previsione di una misura agevolativa per le PMI -quale quella oggetto di esame- impone una riflessione rispetto alla giustificazione costituzionale della stessa, in termini di uguaglianza e di ragionevolezza (sulla esigenza del rispetto dei canoni costituzionali in esame, nella costruzione legislativa di trattamenti fiscali di tipo agevolativo, si rinvia, tra i tanti, a. fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, p. 30 ss.; e. de mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2000, p. 93 ss.; f. moschetti, (voce) Capacità contributiva, in Enc.giur.it., Roma, p. 9 ss.), le piccole e medie imprese hanno una forma e dei principi di funzionamento peculiari che, differenziando nettamente tali società dagli altri operatori economici, giustificano un diverso trattamento fiscale, quale rimedio compensativo ad una disuguaglianza strutturale di chances e di produttività.

L’analisi economica, infatti, ha abbondantemente dimostrato che il fattore dimensionale è rilevante nel determinare comportamenti, reazioni e potenzialità dell’impresa. Le PMI sono caratterizzate da particolare flessibilità produttiva, organizzativa e decisionale e dalla capacità di resistere, meglio di imprese più grandi, a shocks esterni (fluttuazioni della domanda, variazioni dei costi, ecc.). Per contro, le PMI sono maggiormente condizionate, rispetto alle imprese medio-grandi, dalla capacità di autofinanziamento e (in alternativa) di indebitamento con il sistema bancario; hanno minore potere di manovra dei prezzi; e, da ultimo, gli effetti della tassazione e dei costi degli adempimenti fiscali sulla liquidità e sulla operatività delle PMI si ripercuotono sulle loro decisioni economico-gestionali in misura maggiore rispetto alle imprese medio-grandi.

In particolare, la sottocapitalizzazione delle piccole e medie imprese italiane limita notevolmente la capacità di investire in progetti a medio/lungo termine. Proprio per far fronte a tale problematica, con il Decreto Legge n. 201/2011, è stata introdotta una misura volta a sostenere la capitalizzazione delle imprese, denominata Aiuto alla Crescita Economica (e meglio conosciuta con l’acronimo ACE), sulla falsariga di quanto già previsto in passato con la Dual Tax Income e con l'incentivo fiscale contenuto nel Decreto Anticrisi del 2008. L’ACE (soppressa con la legge di bilancio 2019, reintrodotta con la legge di bilancio 2020 e potenziata per il 2021), al fine di riequilibrare il trattamento fiscale tra le imprese che si finanziano con debito e quelle che si finanziano con capitale proprio, consiste in una deduzione, dal reddito imponibile netto, di un importo che corrisponde al rendimento figurativo degli incrementi di capitale proprio realizzati a partire dal 2011. In definitiva, tale agevolazione, in un Paese che da tempo soffre di una struttura di piccole e medie imprese sottocapitalizzate, si propone di favorirne la patrimonializzazione mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio (per una approfondita disamina dell’Aiuto alla Crescita Economica, si veda f. russo, g. russetti, Le agevolazioni alle imprese, op. cit., p. 225 ss.; p. parisi, p. mazza, Il ritorno dell’ACE senza soluzione di continuità, in Pratica Fiscale e Professionale, n. 4/2020, p. 67 ss.).

Dunque, in linea con gli obiettivi europei di sostegno alle PMI, che devono trovare applicazione in sede interna, attraverso “una sempre maggiore apertura verso le politiche di promozione della crescita” (in questi termini, a. e. la scala, Alcune riflessioni sulla tassazione agevolata delle PMI, in F. Amatucci- R. Alfano- M. P. Nastri (a cura di) Fiscalità decentrata, prospettive di sviluppo e riflessi sulle PMI, Roma, 2015, p. 210), acclarate le caratteristiche che contraddistinguono le PMI e che giustificano un diverso trattamento fiscale rispetto alle imprese di maggiori dimensioni, la scelta del Legislatore nazionale di circoscrivere l’agevolazione ex art. 6 comma 13 della Legge 388/2000 alle sole PMI denota, da un lato, un implicito riconoscimento della predominanza, nel comparto produttivo italiano, di tali imprese, che non sono in grado, con le loro risorse, di fronteggiare la competizione nel mercato globale; dall’altro lato, implica la consapevolezza che le PMI hanno minore capacità di assorbimento rispetto alle innovazioni tecnologiche più costose.

Per tali ragioni, poiché gli investimenti ambientali – per i quali è riconosciuta l’agevolazione in oggetto- hanno un costo medio molto elevato, diviene necessario prevedere forme di finanziamento per supportare tali imprese (al riguardo, per aiutare le piccole e medie imprese ad ammodernare o a sostituire i loro impianti con alternative efficienti sul piano energetico, vari Stati europei forniscono finanziamenti tramite prestiti agevolati o sovvenzioni dirette. A titolo esemplificativo, basti pensare alla Danimarca ed ai Paesi Bassi).

Data la centralità delle PMI (in Italia, rappresentano il 92% delle imprese attive e impiegano l’82% dei lavoratori), il legislatore nazionale, introducendo l’agevolazione in esame aveva ben compreso il ruolo cruciale che esse hanno per l’economia: il loro coinvolgimento è, quindi, indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi ambientali.

In termini generali, la sentenza annotata appare lineare e ben argomentata. La Corte, ai fini della decisione in ordine alla fruibilità o meno, da parte della società contribuente, dell’agevolazione prevista dall’art. 6 comma 13 della legge n. 388/2000, c.d. “Tremonti Ambientale”, fa riferimento al DM 18 aprile 2005.

Il decreto in esame, che “fornisce le necessarie indicazioni per la determinazione della dimensione aziendale ai fini della concessione di aiuti alle attività produttive e si applica alle imprese operanti in tutti i settori produttivi”, prevede espressamente, all’art. 2, che “la categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese (complessivamente definitiva PMI) è costituita da imprese che: a) hanno meno di 250 occupati, e b) hanno un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro, oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro”.

Ed è proprio partendo dalla lettera dell’art. 2 del DM citato che la Corte, dopo aver riconosciuto, nel caso in esame, la rilevanza del gruppo di società- e la conseguenziale necessità di computare anche i valori delle imprese collegate, ai fini della verifica dei requisiti dimensionali-individua l’errore in cui è incorso l’Ufficio.

Al riguardo, la Corte chiarisce, infatti, che il comma 4 dello stesso art. 2 del DM in esame, nel disporre che “I due requisiti di cui alle lettere a) e b) dei commi 1, 2 e 3 sono cumulativi, nel senso che tutti e due devono sussistere”, limita il cumulo ai requisiti previsti dalla lettera a (occupati) e b (dato contabile), prevedendo espressamente un’alternatività tra i requisiti sub b.

In altre parole, ai fini della qualifica dell’impresa quale PMI, è necessario che essa abbia, oltre ad un numero di occupati inferiore a 250, o un fatturato inferiore a 50 milioni annui o, in alternativa, un volume di bilancio inferiore a 43 milioni di euro.

L’alternatività dei requisiti sub b emerge, senza ombra di dubbio, dall’utilizzo della congiunzione “oppure”, adoperata nell’art. 2 del DM 18 aprile 2005.

Appurata la linearità argomentativa della sentenza in esame, appare opportuna qualche riflessione in ordine all’agere dell’Ufficio.

Partendo dalla circolare n. 12/E del 12 aprile 2012, con la quale l'Agenzia delle Entrate impartisce ai propri Uffici istruzioni concernenti la gestione delle controversie riguardanti atti della riscossione, relativi ad entrate amministrate dall'Agenzia stessa, è previsto espressamente, con riferimento alle questioni di competenza dell'Agenzia delle Entrate, che gli Uffici devono valutare, in via preliminare, la fondatezza dei motivi di ricorso, evitando di resistere in giudizio o di coltivare la controversia quando la stessa non sia sostenibile (al riguardo, u. sabatino, L'Agenzia delle Entrate detta le istruzioni per la gestione del contenzioso, in Pratica Fiscale e Professionale, n. 21/2012, p. 28).

Ed in effetti, nel caso in esame, la pretesa non pare sostenibile, data la chiarezza della norma applicata.

Peraltro, in un ordinamento, quale quello tributario, in cui l’agere dell’A.F. deve essere informato ai principi di collaborazione e buona fede (sul punto, f. manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995; m. airoldi, La "lunga marcia" della buona fede e del legittimo affidamento dal sistema privatistico a quello tributario, in Dir. Prat. Trib., n. 5/ 2003, p. 804), è lecito chiedersi se, nel caso in esame, il comportamento dell’A.F. sia rispettoso dei principi richiamati.

Partendo dal presupposto che lo Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212/2000), all’art. 6 comma 4, prevede espressamente che “al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente”, dalla sentenza annotata si evince che l’Ufficio era in possesso delle informazioni necessarie a riconoscere la qualifica della società quale PMI.

A pagina 10 dell’atto di appello, infatti, l’Ufficio riconosce espressamente che “ad ogni modo, esaminando anche tali bilanci, emerge già che il numero di occupati è pari a 42, il totale dei ricavi è di euro 24.951.171,00, mentre l’attivo aggregato ammonta all’importo di euro 325,803.941,00, ben al di sopra della soglia di 50 milioni di euro prevista dall’art. 2 del DM”.

Lo stesso Ufficio, dunque, ammette che, oltre al numero di occupati, anche il totale dei ricavi (id est, il fatturato annuo come indicato dall’art. 2, comma 5 del DM 18 luglio 2005) è inferiore alla soglia prevista dal DM. L’Agenzia delle Entrate disponeva, dunque, dei dati necessari, ai fini della qualifica della società contribuente quale PMI.

 Il problema sta tutto nella lettura della norma, la cui formulazione, peraltro, è piuttosto chiara e lineare, non ponendo alcun dubbio sull’alternatività dei requisiti di cui alla lettera b) dell’art. 2 del DM 18 aprile 2005.

Data l’inequivocabilità dell’art. 2 del DM 18 aprile 2005, una lettura più attenta della norma avrebbe potuto, indubbiamente, evitare l’errore in cui è incorsa l’A.F. e le relative conseguenze processuali da esso scaturite.