Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

10/11/2022 - Problemi (veri e) presunti della disciplina cfc

argomento: IRES - Giurisprudenza

La decisione della Commissione tributaria provinciale di Milano conferma le difficoltà di applicare gli schemi della fiscalità societaria a redditi prodotti in altri Paesi. Si alimentano così i contrasti fra posizioni pro-contribuente e “fiscaliste”, che distorcono modelli normativi pur teoricamente coerenti e riducono la stessa attuazione della legge d’imposta a composizione di interessi confliggenti, secondo una visione superata del rapporto d’imposta.

» visualizza: il documento (CTP Milano, sent. 9 dicembre 2021, n. 4567) scarica file

PAROLE CHIAVE: imposta sui redditi - normativa cfc - utili distribuiti


di Daniele Canč

  1. 1. Questa decisione offre un buon esempio di come regole pur correttamente intese possano trovare cattiva applicazione, se non altrettanto ben inquadrate nel sistema normativo cui appartengono – come succede quando non sono chiari i modelli impositivi di riferimento, soprattutto in settori specialistici come la fiscalità societaria.

Ci ricorda, inoltre, come quei modelli vengano deformati nell’applicazione pratica, se ad interpretazioni “fiscaliste”, che tutelano le esigenze finanziarie dello Stato, se ne oppongono di altrettanto sbilanciate a favore del contribuente.

Rispetto ai grandi problemi di oggi, si tratta forse di questioni assai tecniche e liminari, che interessano relativamente pochi contribuenti. Conviene tuttavia occuparsene proprio per il contrasto che si è venuto a creare, frutto delle difficoltà dell’interprete rispetto a discipline che, nell’applicazione giurisprudenziale, finiscono spesso per allontanarsi dagli schemi normativi.

Ne risulta un ridimensionamento della stessa giustizia tributaria, volta in questo contesto non all’attuazione della legge d’imposta, ma alla composizione di interessi confliggenti.

  1. 2. Il contrasto riguardava la disposizione che considera non imponibili, presso il socio residente, gli utili distribuiti da una controllata non residente fino all’ammontare del reddito già assoggettato a tassazione, sempre presso il socio, in base alla normativa sulle società controllate estere (o CFC; articolo 167, comma 7, d.p.r. 917/1986).

È noto che questa normativa, riscritta tra il 2015 e il 2019 (Corasaniti, L’evoluzione normativa in tema di CFC e di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze provenienti da regimi fiscali privilegiati, in Riv. g. fin., 2019, p. 723), prevede l’imputazione al socio del reddito prodotto dalla controllata estera al ricorrere di certe condizioni, che non occorre qui approfondire. È invece bene ricordare che quel reddito – che non sarebbe altrimenti tassabile in Italia fino a che non è distribuito – è imputato pro quota al socio nel periodo di produzione e a prescindere dalla percezione, secondo un meccanismo concepito per i redditi prodotti in forma associata e in seguito esteso a talune società estere, cui di regola non si applicherebbe, per finalità antielusive (v. Oecd (2015), Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Action 3, Oecd Publishing, Paris, p. 65). Sicché, quando quel reddito viene poi distribuito, bisogna evitarne una seconda imposizione sempre sul socio, per intuibili ragioni di eguaglianza e rispetto della capacità contributiva ben impresse nel sistema (v. art. 163, Tuir, per cui non si può applicare la stessa imposta sullo stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi, e, negli stessi termini, l’art. 67, d.p.r. 600/73).

Il comma 7 – oggi 10, dopo la riformulazione del 2019 – esplicita, insomma, un corollario della trasparenza, quale dispositivo di integrazione fra due imposizioni che, diversamente, inciderebbero su soggetti diversi e in momenti diversi – la società che produce il reddito, nel periodo di produzione, e il socio, alla percezione – e che andrebbero diversamente coordinate (si pensi alla participation exemption, o all’imposizione sostitutiva sui dividendi non relativi a un’attività d’impresa, cui pure si può riconoscere la stessa finalità).

E che la normativa CFC costituisca una peculiare declinazione della trasparenza fiscale, adottata per i redditi prodotti in forma associata, non sembra discutibile. Lo confermano diversi aspetti tecnici propri appunto di quel modello impositivo, tra cui le norme sulla determinazione del costo fiscale della partecipazione, che aumenta e decresce, rispettivamente, dei redditi e delle perdite imputate, e sull’imputazione delle imposte estere assolte dalla CFC sul reddito prodotto (sulle possibili alternative: Nussi - Stevanato, L’imputazione del reddito delle “CFC”, tra vecchie questioni e nuove proposte, in Dial. dir. trib., 2004, p. 903; Canè, Controlled Foreign Corporations as Fiscally Transparent Entities. The Application of CFC Rules in Tax Treaties, in W. Tax J., 2017, p. 528).

  1. 3. Il giudizio verteva appunto sul trattamento degli utili percepiti – nel 2014 – dal socio italiano di una società lussemburghese soggetta alla disciplina CFC per il solo 2014, e non anche per gli esercizi precedenti. Si discuteva, pertanto, di utili rivenienti da redditi verosimilmente prodotti ante 2014 e, a quanto è dato capire, non già imputati al socio in base alla normativa CFC.

Secondo l’Agenzia delle Entrate, quegli utili, ancorché distribuiti in costanza di regime CFC, erano da considerarsi imponibili per il 5 per cento del loro ammontare, derivando da redditi non già imputati al socio (perché appunto prodotti prima del 2014).

In effetti, la norma è sempre stata intesa dalla prassi nel senso che la non imponibilità presuppone che gli utili derivino da redditi già imputati al socio in esercizi precedenti (Ag. Entrate, circ. 27 dicembre 2021, n. 18/E, p. 127; Id., 26 maggio 2011, n. 23/E, par. 7.5; ma già ris., 27 luglio 2007, n. 191/E, e Min. Finanze, circ. 16 novembre 2000, n. 207) – in linea con la disciplina degli utili distribuiti da società trasparenti, i cui redditi sono anch’essi imputati ai soci alla produzione (articoli 5, 115 e 116, Tuir).

Si tratta, come detto, di un corollario della trasparenza fiscale, che è uno dei possibili dispositivi di integrazione – nella prospettiva del socio – dell’imposizione sui redditi prodotti in forma societaria. Questa può infatti articolarsi su due livelli, variamente integrabili fra loro: tramite la participation exemption, che ha sostituito il credito d’imposta, o il meno diffuso sistema della deduzione degli utili distribuiti (da parte della società che li distribuisce). La scelta del legislatore fra l’uno e l’altro è libera, salvo vincoli esterni all’ordinamento nazionale – il credito d’imposta non era compatibile con il diritto europeo. Ma, una volta optato per la trasparenza, la non imponibilità degli utili distribuiti è scelta obbligata, pena inaccettabili doppie imposizioni per il socio (su cui il sistema è incentrato: v. Stevanato, Divieto di doppia imposizione e capacità contributiva, in Perrone - Berliri, Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, p. 69).

D’altro canto, il contribuente poteva nel nostro caso opporre che il comma 7 dell’articolo 167 considera non imponibili gli utili distribuiti fino a concorrenza dei redditi assoggettati a tassazione, presso il socio, anche in periodi d’imposta precedenti.

Non sembrerebbe perciò esclusa l’ipotesi in cui gli utili sono distribuiti durante lo stesso periodo d’imposta in cui il reddito societario è prodotto e imputato al socio – come quando sono pagati acconti sui dividendi, o la controllata-CFC chiude il proprio esercizio, e pone in distribuzione i relativi utili, prima che termini il periodo d’imposta del socio (cui il reddito è appunto imputato nel periodo d’imposta in corso alla chiusura dell’esercizio della controllata).

  1. La decisione in commento sposa quest’ultima tesi, annullando la ripresa dell’Ufficio perché la CFC avrebbe conseguito, nel 2014, un reddito più che capiente rispetto agli utili distribuiti in quello stesso periodo – si era dunque fuori dalle ipotesi appena prospettate.

Sembrano tuttavia sfuggire le implicazioni di un’applicazione forse troppo rigida di una norma di cui pure si coglie la ratio, e che risultano all’atto pratico incompatibili (le implicazioni) con il modello impositivo adottato dal legislatore.

Non è in discussione che si sarebbe, in teoria, potuto slegare la tassazione dei dividendi distribuiti dalla CFC da quella scontata dal reddito societario, e dunque concedere la non imponibilità anche a redditi non già imputati al socio, semplificando l’applicazione di norme già molto complesse. Si sarebbe evitato al socio – e all’Amministrazione – di “tracciare” l’origine di utili distribuiti magari anni dopo la produzione – cosa non semplice nella non infrequente ipotesi di partecipazione indiretta nella CFC (Assonime, circ. 65 del 18 dicembre 2000, p. 16). Peraltro, la controllata aveva conseguito, nel 2014, redditi ampiamente sufficienti a coprire i dividendi distribuiti – redditi, questi, imputati per trasparenza al socio. Sicché si trattava, al massimo, di differirne l’imposizione alla distribuzione, per recuperare l’esenzione indebitamente concessa agli utili distribuiti nel 2014 ma non già imputati al socio.

Ma non sembra questa la soluzione prescelta dal legislatore, anche perché gli utili rivenienti da redditi già imputati al socio sono sicuramente esclusi da imposizione, anche se distribuiti quando la controllata non si considera più CFC (il che determinerebbe, nel nostro caso, un salto d’imposta). Inoltre, sembrano mancare quelle ragioni di semplificazione di cui si diceva, perché i dati necessari a “monitorare” i periodi di formazione dei redditi imputati sono tutti contenuti nella dichiarazione presentata dal socio che applica le norme CFC.

La stretta correlazione fra utili imputati e dividendi esenti, che si ricava dalla normativa, preserva insomma la coerenza del sistema impositivo e la precisa misurazione della capacità contributiva del socio, che avrebbe altrimenti beneficiato di inaccettabili franchigie d’imposta. Previene, inoltre, elusioni che la scelta opposta avrebbe consentito: al socio – che, lo ricordiamo, controlla la CFC – basterebbe infatti differire la distribuzione degli utili fino al periodo di applicazione della normativa CFC, per evitarne comunque la tassazione (specie gli utili che non hanno scontato, alla produzione, una tassazione congrua all’estero, che sono imponibili per intero presso il socio).

Ed è l’implicazione più difficile da accettare di questa decisione, che ha colto una parte del sistema ma non il tutto.

  1. Per una decisione troppo pro-contribuente, vi sono però interpretazioni a dir poco fiscaliste, con apparentemente l’unico scopo di reperire gettito, e che finiscono per legittimare reazioni opposte.

Il vero problema, qui però non sollevato, riguarda infatti quanto degli utili distribuiti dalla CFC vada escluso da imposizione: l’intero importo che trova capienza nel reddito già imputato per trasparenza, come dovrebbe essere, o, come ritiene l’Amministrazione, la sola parte corrispondente al reddito effettivamente tassato (pari di regola al 5 per cento, se il reddito della CFC fosse formato solo da dividendi).

È problema attualissimo, perché, modificando la propria posizione, l’Amministrazione ha di recente affermato che gli utili prodotti in giurisdizioni a fiscalità ordinaria, percepiti dalla CFC e poi imputati al socio, sono nuovamente imponibili, una volta distribuiti, per la parte non tassata (Ag. Entrate, circ. 18/E del 2021, cit., pp. 118-120, e prima ris. 191/E del 2007; diversamente, circ. 6 ottobre 2010, n. 51/E, p. 52). La (sopravvenuta) direttiva ATAD, che ha armonizzato le discipline CFC degli Stati membri, consentirebbe, per l’Agenzia, di esentare solo gli importi già effettivamente tassati per trasparenza, quali non sarebbero quei dividendi.

Ma questa impostazione comporta una doppia imposizione, in Italia, dello stesso reddito, che per di più si aggiunge a quella già scontata all’estero, dall’utile, alla produzione – mentre i dividendi percepiti dalla CFC si dovrebbero considerare percetti direttamente dal socio (se opera la disciplina CFC).

Si supponga che il reddito della CFC, imputato al socio nel periodo di produzione t0, sia formato solo da dividendi (ricevuti dalla CFC) per 100, imponibili per 5. Quando sono distribuiti al socio, nell’esercizio successivo, quei dividendi vanno considerati non imponibili fino a concorrenza del reddito imputato (100) e non dei soli importi imponibili (5) – come sostiene l’Agenzia. Diversamente, la differenza (95) sarebbe tassata due volte presso il socio (anche se per il solo 5 per cento): la prima, nell’esercizio t0; la seconda, alla percezione – senza considerare l’imposta scontata dall’utile alla produzione, ben più elevata, che aggiunge un terzo livello impositivo (!).

Si devono invece considerare «inclusi nella base imponibile» imputata al socio, come prevede la direttiva, anche i redditi esclusi ai sensi di norme che eliminano la doppia imposizione – come appunto quelle su dividendi e plusvalenze (v. AIPSDT, Osservazioni sulla bozza di circolare in materia di CFC, 6 agosto 2021, p. 17, su www.agenziaentrate.gov.it). Lo impongono i princìpi di uguaglianza, rispetto a redditi prodotti internamente, e capacità contributiva, oltre ai princìpi europei – ancor prima di quelli sui quali si fonda il regime fiscale internazionale, per cui (anche) i redditi societari dovrebbero essere tassati una sola volta (v. Sartori, Doppia non imposizione e convenzioni internazionali: note a margine di una recente e ineccepibile decisione della Cassazione, in Riv. tel. dir. trib., 2 ottobre 2019, anche se – va detto – non vi è consenso su di un simile regime).