Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

22/07/2022 - I confini della prova contraria avverso l’accertamento sintetico: il caso della simulazione

argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza

La Corte di Cassazione torna sul tema dell’accertamento sintetico e della difesa del contribuente, stabilendo che il soggetto privato può fornire una prova contraria consistente nella dichiarazione di simulazione. La sentenza si inscrive coerentemente nel filone giurisprudenziale che ammette la prova contraria nel senso più ampio dell’istituto, a tutela della posizione del soggetto privato, ma presenta al suo interno molteplici contraddizioni che ne sminuiscono il contenuto.  

» visualizza: il documento (Corte di Cassazione, 10 maggio 2021, n. 12251) scarica file

PAROLE CHIAVE: accertamento sintetico - prova contraria - simulazione


di Stefania Scarascia Mugnozza

  1. Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte torna a occuparsi del problema della prova contraria che il contribuente colpito da un atto impositivo è ammesso a fornire. Il quesito, la cui rilevanza pratica è di stringente attualità, acquisisce peculiare importanza nei casi in cui il maggior reddito contestato sia stato determinato mediante la procedura sintetica disciplinata dal comma 4 dell’art. 38, d.P.R. 600/73. I tratti caratteristici di tale istituto, infatti, generano non pochi oneri a carico del contribuente, la cui posizione è apparsa fin da subito svantaggiata rispetto ai poteri attribuiti al Fisco. È agevole, pertanto, comprendere il motivo dell’interesse che dottrina e giurisprudenza hanno manifestato nei confronti della disciplina, sin dalla sua introduzione.
  2. Il caso di specie origina da una serie di atti di compravendita di partecipazioni societarie, ciascuno dei quali stipulato tra coeredi. In esito ad un accertamento condotto ai sensi dell’art. 38, comma 4, d.P.R. 600/73, l’Agenzia delle Entrate contestava al soggetto privato un maggior reddito, derivante dai negozi menzionati; in sua difesa, il ricorrente rilevava come tali operazioni si inquadrassero nell’ambito di un accordo tra fratelli, finalizzato a dividere l’eredità paterna mediante la ripartizione delle partecipazioni, senza ricorrere ad alcun esborso di denaro. Al fine di dimostrare la natura simulata delle dette operazioni, e dunque l’inesistenza della ricchezza accertata dal Fisco, il ricorrente produceva una scrittura privata stipulata con gli altri coeredi; tuttavia, nel corso del contenzioso che originava dall’atto impositivo, i giudici di merito confermavano la fondatezza della pretesa fiscale, non potendosi utilizzare la scrittura privata prodotta in quanto inopponibile ai terzi ai sensi dell’art. 1415, c.c. Sulla questione si pronunciava in via definitiva la Suprema Corte, che respingeva la tesi sostenuta dai giudici di merito e rilevava come la scrittura privata fornita dal ricorrente costituisse a tutti gli effetti “la prova contraria per contrastare i risultati dell’accertamento sintetico”.
  3. La sentenza in commento si colloca nel nutrito filone giurisprudenziale relativo alla prova che il contribuente, qualora assoggettato ad accertamento sintetico, è chiamato a fornire per superare la presunzione su cui poggia la pretesa fiscale.

Il problema della prova contraria, dei suoi limiti e della sua ampiezza, sorge in seguito all’intervento del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 sull’art. 38 del d.P.R. 600/73: come è noto, nel modificare l’impianto originario della norma, il legislatore ha disposto il potere di determinare sinteticamente “il reddito complessivo” del contribuente, e non più “il reddito complessivo netto”; inoltre, è previsto che la sola precondizione per determinare sinteticamente il reddito sia lo scostamento di almeno un quinto tra il reddito complessivo accertabile e quello dichiarato, e non più di un quarto, eliminando l’ulteriore requisito del perdurare dello scostamento per almeno due periodi di imposta. È opportuno ricordare che tali innovazioni si innestano in un sistema che consente la rettifica delle dichiarazioni sulla base del confronto con le dichiarazioni relative a periodi d’imposta precedenti, con dati e notizie di varia natura, nonché sulla base di “presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti” (art. 38, comma 3) e mediante l’utilizzo del redditometro (art. 38, comma 5).

Quanto alle innovazioni che interessano i poteri del contribuente sottoposto ad accertamento sintetico, il legislatore del 2010 ha previsto una forma obbligatoria di contraddittorio endoprocedimentale, disciplinato dal penultimo comma del citato art. 38, ed ha altresì espunto il riferimento alla necessità che l’ammontare dei redditi oggetto della prova contraria risulti da idonea documentazione.

Le modifiche apportate si riflettono in egual misura sulla posizione del Fisco e del contribuente, parti contrapposte nell’esplicazione della procedura in parola. Al diminuire delle condizioni cui la determinazione del reddito in via sintetica era in precedenza subordinata corrisponde, come è ovvio, un ampliamento dei poteri amministrativi: nell’assetto post riforma del 2010 il Fisco risulta svincolato da limiti rigidi, mentre lo snellimento della procedura in sé ne agevola l’applicazione. Il nuovo assetto riflette lo scopo perseguito dal legislatore, motivato ad incentivare il ricorso all’accertamento sintetico per farne uno strumento anti-evasione (v. BAGAROTTO, L’accertamento sintetico dopo le modifiche apportate dal DL n. 78/2010, in Riv. Dir. Trib., 2010, 10, p. 968). In questo senso va letto il riferimento al reddito “complessivo” del contribuente accertato, che consente all’Amministrazione finanziaria di indagare la totalità delle spese sostenute “di qualsiasi genere” esse siano - ivi comprese, evidentemente, quelle che darebbero diritto a deduzioni o detrazioni-; parimenti, la riduzione della soglia di scostamento necessaria per legittimare l’attivazione della procedura sintetica ne ha senz’altro ampliato gli orizzonti applicativi.

Una simile estensione dei poteri del Fisco non potrebbe ritenersi costituzionalmente legittima, se non si rispecchiasse simmetricamente in un adeguato rafforzamento delle garanzie riconosciute al contribuente. Ciò è tanto più vero dal momento che la semplificazione del procedimento ex art. 38 pare esporre l’Amministrazione al rischio di imprecisioni nella determinazione del reddito (v. TINELLI, L’accertamento sintetico del reddito complessivo nel sistema dell’Irpef, CEDAM, 1993; BEGHIN, La determinazione sintetica dell’imponibile Irpef e il problema degli “scostamenti” tra reddito accertato e reddito dichiarato, in Rass. Trib., 2009, p. 222). In questo senso, l’istituzione di un contraddittorio endoprocedimentale sembra offrire una soluzione al problema, nella misura in cui concede al contribuente la possibilità di segnalare eventuali inesattezze, senza obbligarlo a percorrere la – ben più onerosa – via del contenzioso (sulla centralità del contraddittorio nella procedura in oggetto, v. CONTRINO-MARCHESELLI, Il «redditometro 2.0» tra esigenze di privacy, efficienza dell’accertamento e tutela del contribuente, in Diritto e pratica tributaria, n. 4/2014, p. 694 e ss.; BEGHIN, Profili sistematici e questioni aperte in tema di accertamento “sintetico” e “sintetico redditometrico”, in Riv. dir. Trib., fasc. 6, 2010, p. 719).

Ciononostante, a parere di chi scrive l’attivazione del dialogo preventivo non può ritenersi un rimedio sufficiente a compensare lo squilibrio tra le parti contrapposte: il dovere di efficienza e buon andamento che la Carta costituzionale pone a carico della Pubblica Amministrazione non si traduce in un obbligo di prendere in considerazione i motivi esposti dal contribuente in sede endoprocedimentale, l’ultima parola sui quali spetta pur sempre alla Commissione Tributaria competente (v. SCARASCIA MUGNOZZA, L’ammissibilità del contraddittorio endoprocedimentale nel confronto tra i giudici tributari di merito e la Suprema Corte, in Riv. Trim. Dir. Trib., n. 3/2019, p. 675 e ss.). In sostanza, il confronto preventivo non pone il soggetto privato al riparo dalle conseguenze di un accertamento approssimativo, né funge da argine all’aleatorietà del giudizio; l’implementazione della tutela del contribuente coinvolto nella procedura ex art. 38 appare, dunque, imprescindibile.

  1. In un assetto delineato nei termini che precedono, non stupisce che all’indomani della novella del 2010 l’attenzione della dottrina si sia focalizzata proprio sulla garanzia dei diritti del contribuente sottoposto ad accertamento sintetico.

Già in epoca antecedente alla riforma in parola, la Consulta sottolineava come la disciplina dell’istituto “non pone limiti alla dimostrazione dell’insussistenza degli elementi e delle circostanze fattuali su cui si fonda l’induttività dell’accertamento” (così, Corte Cost., sent. n. 283 del 7 luglio 1987; v. SELICATO, Il nuovo accertamento sintetico dei redditi, Cacucci, 2014, p. 116), subordinando a tale previsione la legittimità dell’accertamento sintetico. Coerentemente con la posizione espressa dalla Consulta, la tutela da possibili abusi amministrativi connessi all’esercizio del potere di determinazione sintetica del reddito si concentra nell’istituto della prova contraria. Sin dalla fase endoprocedimentale, il contribuente può dimostrare che la spesa contestata è stata finanziata “con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile”, e, a tale scopo, è ammesso a fornire tutti gli elementi ritenuti utili: come si anticipava, l’ultima delle modifiche apportate dal legislatore del 2010 consiste nel venir meno dell’esigenza che la prova offerta dal contribuente debba risultare da idonea documentazione. In sostanza, l’ampiezza dell’ambito applicativo dell’accertamento sintetico si riflette in una altrettanto ampia possibilità, per il contribuente accertato, di dimostrare l’infondatezza della pretesa fiscale. Tale conclusione trova riscontro nella natura di presunzione semplice dell’accertamento sintetico, ricavabile dalla lettera dell’art. 38, comma 4, e dall’eloquente riferimento alla possibilità che l’ufficio “possa” (e non “debba”) determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese sostenute nel periodo di imposta accertato (CONTRINO-MARCHESELLI, op. cit., p. 690 e ss.; contra, CAMPOLI, in CAMPOLI-LUPI-MARCHESELLI, Accertamento sintetico, prostituzione e prova, in Dialoghi Tributari, 3/2008, p. 54, che ascrive l’accertamento sintetico alla categoria delle presunzioni legali relative). In simili ipotesi, infatti, le chances difensive del contribuente sono più ampie (CONTRINO-MARCHESELLI, op. cit., p. 683-684; a parere degli Autori, tuttavia, tale ragionamento conduce a escludere la necessità di contestare la presunzione semplice attraverso una “prova contraria”, essendo sufficienti a tal fine la presunzione semplice “argomenti idonei a dimostrare che il ragionamento di carattere presuntivo non regge, in quanto illogico o implausibile in sé”).

Del resto, è difficile immaginare una soluzione alternativa al potenziamento della prova contraria: da un lato, infatti, rileva la necessità di rispettare l’intento sotteso alla semplificazione dell’accertamento sintetico, che risulterebbe snaturato dalla previsione di ulteriori oneri procedimentali o processuali – seppur ispirati alla tutela del contribuente -; dall’altro, essendo l’intera struttura dell’accertamento sintetico basata su un meccanismo presuntivo, era inevitabile che il rafforzamento della posizione del soggetto privato si incentrasse sul potere di “smontare” quel meccanismo, offrendo la prova della sua erroneità. Una simile previsione appare, peraltro, particolarmente opportuna, se letta attraverso il filtro del complesso rapporto tra l’utilizzo delle presunzioni nell’ordinamento tributario e il requisito di effettività della capacità contributiva. La non sempre facile compatibilità tra i due concetti stride con la generale espansione del ruolo delle presunzioni nell’accertamento del rapporto fiscale: il ricorso a tali istituti è reso sempre più frequente dall’esigenza di rimediare allo svantaggio conoscitivo che penalizza l’Amministrazione finanziaria (v. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, CEDAM, 2005, p. 265), ma finisce inevitabilmente per tradursi nell’aggravio difensivo a carico del contribuente (v. SELICATO, op. cit., p. 33). A fronte di ciò, è agevole comprendere la ratio della rimozione del riferimento all’idoneità della prova contraria, definita esplicitamente come un contrappeso all’ampliamento dei poteri dell’Amministrazione (v. PROTANO, in CONTRINO, Il nuovo redditometro. L’equilibrio instabile tra contrasto all’evasione e rischio di vessazione, Egea, 2014, p. 25; BAGAROTTO, op. cit., p. 975).

  1. Dalle considerazioni svolte sinora emerge come la sentenza in commento affondi le radici nel più antico dei problemi del diritto tributario: la coesistenza, nel rapporto fiscale, di esigenze antitetiche, e la necessità di tutelarle entrambe, assicurando l’eguaglianza e la parità tra le parti.

A primo sguardo, la pronuncia della Suprema Corte sembra riflettere con la precisione di uno specchio l’humus da cui è germogliata. Nell’affermare che “in tema di accertamento sintetico la prova contraria del contribuente (…) può essere data con qualsiasi mezzo”, e che “la prova contraria può essere costituita anche dalla allegazione di una controdichiarazione di un negozio simulatorio”, la sentenza pare costituire l’approdo naturale di un ordinamento che disciplina un istituto e il suo “contrappeso”, ponendosi altresì in una prospettiva di inalterata continuità con le decisioni che l’hanno preceduta (cfr. Cass., 22 marzo 2017, n. 7258, in Boll. Trib., 2017, 17, 1294; Id., 13 febbraio 2019, n. 4212, in Giustizia Civile, Massimario 2019) e che la seguiranno (cfr. Cass., ord del 12 gennaio 2022, n. 692, reperibile su DeJure). Del resto, nell’espungere il riferimento a una “idonea documentazione”, l’intervento innovativo del 2010 ha esteso i confini della prova contraria ben oltre il mezzo strettamente documentale [v. MARCHESELLI, Tendenze attuali in tema di accertamenti tributari fondati su presunzioni (accertamenti sintetici, accertamenti bancari e coefficienti presuntivi in particolare), in Diritto e pratica tributaria, n. 4/2008, p. 685; LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Ipsoa, 2001, p. 595].

Tuttavia, tale immagine di cristallina coerenza si incrina, laddove sono proprio gli stessi giudici di legittimità a stabilire che “deve superarsi ogni dubbio circa la possibilità del contribuente attinto da un atto impositivo fondato sulla propria capacità di spesa (…) di offrire la prova contraria con ogni mezzo idoneo” (sent. 12251/20, p. 4). Nel giro di poche righe, la sentenza cade in contraddizione: nel richiamare il requisito dell’idoneità del mezzo, la Suprema Corte sembra apporre un limite alla prova che il contribuente inciso può fornire a sostegno delle proprie ragioni, in aperto contrasto con la lettera della legge e con lo spirito che ha animato la novella del 2010.

Non è dato sapere se il riferimento all’idoneità della prova contraria costituisca una svista, o una mera formula di stile; diversamente, la menzione del “mezzo idoneo” potrebbe sottendere l’intenzione dei giudici di legittimità di riportare in vita un requisito della difesa del soggetto privato, che finirebbe per introdurre una valutazione preliminare dell’idoneità degli elementi e le circostanze addotti dal contribuente. Il rischio connesso a una simile ipotesi è che un eventuale esito negativo di tale vaglio di idoneità pregiudichi ex se il potere del contribuente di dimostrare l’infondatezza della pretesa fiscale, compromettendo, in definitiva, l’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente tutelato.

Nell’impossibilità di conoscere il senso attribuito a questo riferimento, giova sottolineare che, in una pronuncia appena precedente a quella in commento, la Suprema Corte commetteva il medesimo errore: interpellata sulla prova contraria a carico del contribuente raggiunto da un accertamento sintetico, la Corte stabiliva che incombe sul privato l’onere di dimostrare che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente sia costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte, con la precisazione che l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso debbano risultare “da idonea documentazione” (cfr. Cass., sent. del 10 dicembre 2020, n. 28157, reperibile su DeJure).

  1. La principale criticità che caratterizza la sentenza in commento attiene, però, a una diversa questione: nell’affermare che il contribuente attinto da accertamento sintetico deve poter fornire la prova contraria con ogni mezzo – purché “idoneo” -, i giudici di legittimità sanciscono che la scrittura privata può senz’altro essere prodotta a dimostrazione della natura simulata del negozio, essendo caratterizzata da una dignità probatoria tale da “neutralizzare gli indici di manifestazione di ricchezza addotti dall’Amministrazione finanziaria”.

In altre parole, una volta ribadita l’ampiezza del concetto di prova contraria accolto dall’art. 38, d.P.R. 600/73, estensibile anche a circostanze non espressamente contemplate dalla detta norma, la Suprema Corte sottolinea la differenza tra l’utilizzo della dichiarazione di simulazione nel diritto tributario e la fattispecie disciplinata dall’art. 1415, c.c.: come è noto, la disposizione civilistica non vieta tout court la conclusione di un negozio simulato, né ne disciplina gli effetti, limitandosi a sancire l’inopponibilità dell’atto a chi, in buona fede, abbia acquistato diritti dal titolare apparente. Su tale previsione si fondava il ragionamento della Commissione regionale, che rigettava l’appello del contribuente osservando che, in ogni caso, la scrittura privata prodotta per dimostrare l’insussistenza del reddito accertato non sarebbe stata utilizzabile, proprio perché inopponibile al Fisco ai sensi dell’art. 1415, c.c. La Cassazione sottolineava, però, come tale interpretazione non fosse condivisibile: l’oggetto del contendere non atteneva alla tutela del terzo in buona fede, ma riguardava il potere di dimostrare l’inesistenza di una manifestazione di ricchezza. Peraltro, non è irrilevante notare che la decisione dei giudici di merito avrebbe comportato un’inaccettabile compressione della prova contraria, in aperto contrasto con l’intento del legislatore e con il consolidato orientamento giurisprudenziale precedentemente analizzato.

La prospettiva dei giudici d’appello si rivelava, dunque, fallace.

Tuttavia, come si anticipava, non si può dire che la decisione della Suprema Corte sia esente da critiche. Il riferimento è rivolto all’interpretazione dell’istituto della scrittura privata e della relativa disciplina, prescritta dall’art. 2702, c.c.: la norma stabilisce che la scrittura privata “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta”. Il significato della disposizione è chiaro: il documento è utilizzabile per provare che le dichiarazioni in esso contenute provengono dalle persone che l’hanno sottoscritto, purché non lo disconoscano mediante querela di falso. Tuttavia, l’oggetto della prova contraria avverso l’accertamento sintetico non riguarda la provenienza della dichiarazione, ma bensì la verità del fatto narrato, dimostrabile con atto pubblico e non certo tramite scrittura privata (v. CONTRINO, Appunti in tema di accertamenti induttivi e presunzioni supersemplici, in Riv. dir. Fin. e sc. Fin., LXXVIII, 1, I, 2018, p. 134).

In sostanza, nel caso di specie un mezzo che, per legge, non prova altro se non la paternità di chi lo ha formato, è stato utilizzato per ricavarne la dimostrazione dell’insussistenza di un indice di ricchezza ricostruito in via presuntiva.

Le contraddizioni della pronuncia in commento emergono, ora, con cristallina evidenza. Sembra palese che i giudici di legittimità, sulla scorta di una progressiva espansione dei confini della prova contraria, abbiano applicato un istituto ben oltre il perimetro della sua efficacia. Spiazza il richiamo alla idoneità della prova, che riporta in auge una limitazione rimossa dal legislatore; per di più, si ammette la decostruzione della pretesa fiscale sulla base di un mezzo chiaramente inidoneo rispetto allo scopo, lasciando il lettore definitivamente disorientato. Del resto, anche in mancanza di qualsivoglia riferimento al detto requisito, lo scenario non sarebbe cambiato: la dimostrazione “con ogni mezzo” non può spingersi sino a collidere con una espressa previsione di legge.

  1. In conclusione, la sentenza in commento presta il fianco a più di una critica. Non solo l’espressa menzione del “mezzo idoneo” si pone in controtendenza rispetto all’intento del legislatore, manifestato con chiarezza nell’espunzione dell’aggettivo dall’art. 38; la Suprema Corte si rende altresì responsabile dell’applicazione distorta della disciplina della scrittura privata, estendendone la valenza probatoria ben oltre i confini delineati dal codice civile.

Tale interpretazione costituisce, verosimilmente, il frutto della rilevata esigenza di rafforzare le garanzie del contribuente coinvolto nella procedura di determinazione sintetica del reddito, un’esigenza che si fa via via sempre più impellente, alla luce del diffuso ricorso alle presunzioni da parte dell’Amministrazione finanziaria; d’altra parte, non è pensabile rinunciare all’utilizzo di strumenti presuntivi ai fini della ricostruzione del reddito.

Il timore è che la richiesta di maggiori tutele per entrambe le parti del rapporto tributario inneschi un vero e proprio circolo vizioso, in cui chi soccombe è la corretta applicazione della legge.