Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

13/05/2022 - La cessione d’azienda e la dislocazione dei beni nella prospettiva della territorialità IVA

argomento: IVA - Legislazione e prassi

Secondo il punto di vista dell’Amministrazione finanziaria, nella cessione d’azienda che comprenda beni, materiali o immateriali, ubicati in Stati diversi da quello in cui è dislocato il compendio oggetto di vendita, è necessario enucleare tali asset per trattarli isolatamente ai fini IVA. Con due risposte a interpello pubblicate nel corso del 2021, entrambe relative a cessioni di aziende esistenti all’estero di cui sono parte singoli beni dislocati in Italia, l’Agenzia delle entrate mostra infatti di ritenere che la norma di cui all’art. 19, direttiva n. 2006/112/CE (la quale ammette che gli Stati membri possano decidere di escludere dall’ambito delle cessioni di beni i trasferimenti di un’universalità totale o parziale di beni) vada intesa come riferita ai complessi aziendali interamente esistenti in un solo Stato. Si tratta di un orientamento che non pare tuttavia perfettamente aderente alla norma comunitaria, perlomeno sulla base delle indicazioni ritraibili dalla giurisprudenza in materia.

PAROLE CHIAVE: cessione d - territorialità - beni immateriali


di Massimo Sirri - Riccardo Zavatta

  1. Con due interventi pubblicati nel corso del 2021, l’Agenzia delle entrate porta all’attenzione la questione della rilevanza territoriale delle operazioni di cessioni d’azienda nel cui ambito siano compresi beni che non sono tutti ubicati nello stesso Stato. Nello specifico, la risposta n. 536 del 6 agosto 2021 affronta il caso di un compendio aziendale ubicato fuori del territorio comunitario che viene ceduto, con atto formato all’estero, da una società stabilita in un paese extraUE ad altro operatore extracomunitario. Pur essendo l’azienda interamente collocata all’estero, essa comprende alcuni marchi registrati presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), i quali pertanto rappresentano gli unici “beni” (immateriali, nel caso di specie) esistenti in Italia.

Un caso analogo (è peraltro probabile che l’istanza sia stata presentata dallo stesso soggetto impegnato nella complessiva riorganizzazione di un gruppo d’imprese) è quello della risposta a interpello n. 637 del 30 settembre 2021. In tale intervento, l’Agenzia delle entrate si occupa infatti di una cessione fra operatori extracomunitari avente per oggetto un’azienda insediata fuori dell’Unione europea di cui sono parte alcune rimanenze di magazzino esistenti in Italia che rappresentano gli unici beni dislocati in territorio nazionale.

In entrambe le fattispecie, gli operatori coinvolti non sono dotati di stabili organizzazioni in Italia cui siano riconducibili i singoli beni ivi esistenti. E, in entrambe le fattispecie, la richiesta di chiarimenti concerne la qualificazione dell’operazione e dunque la possibilità che il trasferimento dei diritti di proprietà dei marchi in un caso, e quello delle rimanenze nell’altro caso, rientri nell’ambito della complessiva cessione d’azienda, come tale irrilevante ai fini IVA ai sensi dell’art. 2, comma 3, lettera b), Dpr 633/1972 (ambedue le istanze d’interpello pongono anche la questione del trattamento delle operazioni ai fini dell’imposta di registro, tema che non forma oggetto del presente contributo).

Anche il percorso argomentativo seguito dall’estensore delle risposte è sostanzialmente lo stesso.

In effetti, dopo aver premesso che, con la norma di cui all’art. 2, terzo comma del decreto IVA, il legislatore nazionale ha inteso esercitare la facoltà - prevista dall’art. 19 della direttiva n. 2006/112 - di considerare irrilevanti le cessioni d’azienda (e delle altre operazioni straordinarie) nel presupposto che queste realizzino “una continuità dell’attività aziendale”, è sottolineato che la nozione d’azienda “ai fini in esame” coincide con quella fornita in ambito civilistico, come risulta dai contributi della giurisprudenza. Fra questi, sono richiamate la sentenza della Corte di giustizia europea, 27 novembre 2003 nella causa C-497/01, e la sentenza 10 novembre 2011 nella causa C-444/10, ed è messa in evidenza (fra l’altro) l’affermazione secondo cui “la regola della non avvenuta cessione (ossia l’esclusione delle cessioni d’azienda o rami aziendali dal novero delle cessioni di beni rilevanti ai fini dell’imposta) costituisce una nozione autonoma del diritto comunitario che mira ad evitare divergenze nell’applicazione da uno Stato membro all’altro del sistema dell’IVA” e che, conseguentemente, deve ricevere un’interpretazione uniforme in tutta l’Unione europea.

I principi stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria, inoltre, sarebbero stati recepiti dalla giurisprudenza di vertice nazionale, come provano la sentenza della Corte di Cassazione n. 24913 del 10 ottobre 2008 e le altre pronunce menzionate nelle risposte, mentre la prassi ufficiale (fra cui, circolare n. 320 del 19 dicembre 1997, risoluzioni n. 48/E del 3 aprile 2006, n. 371/E del 13 dicembre 2007 e le altre conformi) ha sottolineato l’ampiezza del concetto di cessione di azienda che riguarda il complesso aziendale nel suo insieme “quale universitas di beni materiali, immateriali e di rapporti giuridico-economici suscettibili di consentire l’esercizio dell’attività di impresa e non i singoli beni che compongono l’azienda stessa”.

Con specifico riguardo alla cessione dei marchi, infine, la risposta n. 536 puntualizza che la risoluzione n. 48/E del 3 aprile 2006 ha precisato che, per effetto della norma di esclusione dal campo applicativo IVA delle cessioni di azienda, “non sussisterebbe alcuna possibilità di scorporo di taluni beni in sede di qualificazione dell’operazione”. Viene così superato l’orientamento, assunto dalla Corte di Cassazione (sentenze n. 4452 del 26 marzo 2003 e n. 4974 del 1°aprile 2003) sulla base della previgente normativa in materia di circolazione del marchio, secondo cui s’imponeva la “distinta tassazione dell’azienda… (soggetta a imposta di registro, per il principio di alternatività fra tale tributo e l’imposta sul valore aggiunto) rispetto al marchio” (assoggettato a IVA).

Al termine di tale ricostruzione, l’Agenzia delle entrate formula le proprie conclusioni, identiche – nei principi enunciati - in ambedue le risposte, affermando che la possibilità riservata agli Stati membri di escludere i trasferimenti di azienda o di rami aziendali dall’ambito delle cessioni di beni rilevanti ai fini dell’imposta, ai sensi dell’art. 19, direttiva n. 2006/112/CE e dell’art. 2, comma 3, lett. b), Dpr n. 633/1972, non concerne le fattispecie in esame. E ciò, perché “la norma comunitaria postula che il complesso aziendale oggetto del trasferimento… sia situato nel territorio di uno Stato membro”. Più precisamente, proseguono le risposte a interpello, quest’impostazione sarebbe “consequenziale alla natura opzionale del regime previsto” dalla norma comunitaria “e ne (sic) conferisce anche un senso logico”. L’applicabilità della disposizione di esclusione sarebbe pertanto subordinata alla preliminare verifica di sussistenza dei “presupposti oggettivo, soggettivo e territoriale” e l’accertamento del requisito territoriale (negli Stati che, come l’Italia, hanno scelto di adottare la norma di esclusione dell’art. 19 della direttiva) andrebbe eseguito “con riferimento alle operazioni che abbiano ad oggetto il trasferimento di una universalità totale o parziale di beni esistente nello Stato stesso”.

Le conseguenze sarebbero le seguenti.

Nel caso della risposta a interpello n. 536 del 2021, posto che non esiste nel territorio nazionale un complesso aziendale, essendo “presente in Italia” un unico bene immateriale, rappresentato dai marchi registrati presso l’UIBM, e non essendo gli operatori coinvolti dotati di stabile organizzazione cui ricondurre (per attrazione) i beni in questione, le norme - comunitaria e nazionale - che escludono la rilevanza IVA della cessione d’azienda (o del ramo d’azienda) non sarebbero applicabili. La cessione dei marchi va pertanto osservata “isolatamente” e, nella prospettiva nazionale, essa integra l’effettuazione di un’operazione rientrante nell’art. 3, comma 2, n. 2, Dpr n. 633/1972, norma che qualifica le cessioni di diritti relativi a beni immateriali, compresi i marchi, come prestazioni di servizi agli effetti dell’imposta. E poiché si tratta di prestazioni generiche, tali operazioni rilevano territorialmente nello Stato del committente ai sensi dell’articolo 44, direttiva n. 2006/112 (e dell’art. 7-ter, Dpr n. 633/1972) ovverossia fuori del territorio UE, essendo il cessionario dei marchi un soggetto extracomunitario. Nel caso di specie, inoltre, l’operazione non comporterebbe alcun adempimento amministrativo-contabile. Infatti, considerato che il cedente dei marchi (presunto prestatore del servizio) è un soggetto non residente privo di stabile organizzazione in Italia, la prestazione non va documentata con fattura, dal momento che gli obblighi di fatturazione delle operazioni extraterritoriali competono soltanto ai soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 21, comma 6 bis del decreto IVA. Il cedente extracomunitario non è pertanto tenuto ad assumere una posizione ai fini IVA in Italia, non dovendo qui assolvere alcun obbligo con riferimento all’imposta.

Gli stessi principi valgono nel caso della risposta n. 637/2021, differenziandosi solo gli adempimenti a carico del cedente non residente in conseguenza della diversa operazione realizzata. Dato che gli unici beni esistenti in Italia sono costituiti da scorte di magazzino che non saranno trasferite all’estero (essendo destinate a rimanere nel territorio dello Stato anche in seguito alla cessione d’azienda) e che nessuno dei soggetti (cedente e cessionario) partecipanti all’operazione sono ivi dotati di stabile organizzazione, “la cessione di tali beni… è da considerarsi territorialmente rilevante ai fini IVA in Italia come autonoma cessione di beni”. Da ciò segue (ancorché la risposta non se ne occupi espressamente) che il cedente dovrà assumere una posizione IVA (rappresentante fiscale, ai sensi dell’art. 17, comma 3, Dpr n. 633/1972, o identificazione diretta, ai sensi dell’art. 35-ter, Dpr n. 633/1972, possibilità –quest’ultima - riservata ai soggetti di altri Stati membri UE e ai soli operatori stabiliti in Norvegia e Regno Unito, come precisato dalle risoluzioni n. 44/E del 28 luglio 2020 e n. 7/E del 1° febbraio 2021), per poter emettere fattura con applicazione dell’imposta in relazione alla cessione interna delle rimanenze di magazzino.

 

  1. Le indicazioni fornite dall’Agenzia delle entrate inducono a qualche riflessione critica che coinvolge sia aspetti di ordine teorico-sistematico sia profili più strettamente pratico-operativi.

Si è appena osservato che, nella prospettiva dell’Amministrazione finanziaria, la disposizione dell’art. 19, direttiva n. 2006/112/CE, per essere dotata di “senso logico”, andrebbe necessariamente interpretata considerando che essa riguardi esclusivamente le cessioni di aziende (o rami d’azienda) ubicate nel territorio dello Stato membro che ha esercitato l’opzione per l’esclusione di dette operazioni dal campo applicativo dell’imposta. Sarebbe infatti questa la “pre-condizione” che consente di accertare la sussistenza del presupposto territoriale dell’operazione, come emerge dall’affermazione, contenuta in entrambe le risposte, secondo cui “la corretta verifica del requisito della territorialità implica che la norma sia applicata da ciascuno Stato membro (che abbia optato per l'introduzione del regime in commento) con riferimento alle operazioni che abbiano ad oggetto il trasferimento di una universalità totale o parziale di beni esistente nello Stato stesso”.

Si tratta di un punto cruciale, a parere di chi scrive.

Innanzitutto, perché, a quel che consta, non risultano precedenti di prassi che abbiano direttamente affrontato la questione né indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sullo specifico tema della “territorialità” di tali operazioni. Considerazione che avrebbe (perlomeno) dovuto indurre a un’esposizione maggiormente argomentata delle ragioni alla base della scelta interpretativa.

Inoltre, l’impostazione seguita dalle Entrate porta inevitabilmente a ridimensionare la portata della nozione di unitarietà dell’azienda (o di ramo aziendale) che, stando a quanto riferisce la stessa Amministrazione finanziaria, va valutata “nel suo insieme, quindi quale universitas di beni materiali, immateriali e di rapporti giuridico-economici suscettibili di consentire l’esercizio dell’attività di impresa e non i singoli beni che compongono l’azienda stessa” (in tal senso, è la menzionata circolare n. 320 del 19 dicembre 1997). Tale consolidata nozione andrebbe infatti abbandonata nel caso di un’azienda composta da beni che non siano tutti dislocati nel medesimo territorio, introducendo una visione “atomistica” dell’operazione, nella quale le singole componenti aziendali andrebbero fiscalmente inquadrate in funzione della loro collocazione geografica.

Ne potrebbe derivare che, come nel caso degli interpelli, il complesso aziendale sia dislocato all’estero e che solo alcuni asset (materiali o immateriali) siano presenti in Italia. Ma potrebbe anche darsi la fattispecie - uguale e contraria - dell’azienda collocata nel territorio nazionale, della quale sono però parte integrante alcuni elementi ubicati all’estero. Né può escludersi che, solo “collegando” i beni ubicati in Italia e quelli dislocati all’estero, sia possibile parlare di azienda in senso proprio. In tale ipotesi, non potrebbero mai applicarsi le regole in materia di cessione d’azienda, dato che un’azienda, in quanto tale, non sarebbe individuabile in nessun luogo.

Con riserva di tornare in seguito sugli effetti pratici che derivano dalla scomposizione “forzata” dell’azienda oggetto di cessione, proprio quest’ultima osservazione merita un ulteriore breve approfondimento.

In effetti, non solo non è possibile escludere che un’azienda o ramo d’azienda sia individuabile esclusivamente se si uniscono elementi materiali ubicati in più territori, ma non è neppure da escludere che, soprattutto grazie alla continua evoluzione tecnologica, sia oggi possibile riscontrare (e ancor più lo sarà in futuro) realtà economiche che possono prescindere completamente dalla presenza di asset materiali “segnaletici” dell’esistenza di un complesso aziendale secondo i canoni classici. A riprova dell’attualità di tali problematiche, si segnala ancora una volta un contributo dell’Amministrazione finanziaria. La risposta a interpello n. 609 del 18 dicembre 2020, infatti, sebbene neghi la rilevanza come trasferimento di azienda della cessione di una member list (lista clienti), lascia tuttavia intuire come non sia affatto da trascurare il caso, almeno in alcune determinate ipotesi, in cui un ramo aziendale si configuri in totale (o quasi) assenza di elementi e di fattori produttivi di tipo fisico. In tal senso, proprio a commento della ridetta risposta, ci pare che sia stato correttamente osservato come, in presenza di attività di prestazione di servizi (progettazione, marketing, consulenza informatica, eccetera), “prive di struttura materiale, a maggior ragione se prestate sul web, la lista clienti potrebbe assumere un rilievo essenziale rispetto a ciò che si trasferisce e costituire, insieme ad altri limitati elementi provenienti dal cedente, un’articolazione organizzativa dotata di stabile autonomia funzionale, capace di rappresentare l’unico vero asset in grado di garantire lo svolgimento dell’attività acquisita dal cessionario” (così, N. Zanotti, L’Agenzia delle Entrate ritorna sulla qualificazione fiscale della cessione di una member list, in Rivista Telematica di Diritto Tributario, 17 febbraio 2021).

Nella stessa linea, è stato (altrettanto condivisibilmente) sostenuto come sia possibile ipotizzare l’esistenza di un’azienda costituita da soli beni immateriali (e dunque servizi, ai fini IVA) nella considerazione che “l’oggetto del trasferimento agevolato non è dato dalla natura statica dei beni (materiali e immateriali, ovvero materiali o immateriali) ma dalla loro funzione dinamica, nel senso di rendere possibile la continuazione dell’attività economica, attraverso l’uso e lo sfruttamento di ciò che viene trasferito” e che, pertanto, un ramo aziendale può consistere di “una composizione di elementi immateriali, quali possono essere le licenze d’uso di marchi e brevetti, il know how, i contratti di fornitura di servizi prestati da terzi, anche dipendenti” (P. Centore, IVA Europea, Percorsi commentati della giurisprudenza euro-unionale, 2016, pag. 188).

Se nel caso dell’azienda che esiste solo collegando beni materiali ubicati in Stati diversi, la norma di esclusione non sarebbe concretamente applicabile alla luce delle recenti indicazioni della prassi ufficiale, altrettanto potrebbe accadere per il caso dell’azienda costituita da soli beni immateriali. Non pare infatti possibile assegnare a un dato territorio un’azienda che si limiti alla prestazione di servizi via internet e i cui unici asset siano rappresentati da un sito web, dal software, da applicazioni, da prestazioni di servizi, da know how e/o da altri elementi privi di consistenza fisica. È evidente che anche in tal caso non potrebbe operare la norma che prevede l’irrilevanza IVA della cessione d’azienda, ancorché non si possa certo dubitare dell’esistenza di un’azienda o di un ramo aziendale.

Sembra infatti sufficientemente chiaro che, anche a voler seguire l’orientamento delle Entrate, l’allocazione territoriale di determinati beni immateriali ai fini del loro assoggettamento a IVA risulti assai poco appagante, sia dal punto di vista del criterio per stabilire tale allocazione sia per le conseguenze pratiche che ne possono derivare.

Al fine di stabilire l’esistenza nel territorio dello Stato dei marchi oggetto di cessione di cui alla risposta n. 536 del 2021, è stato infatti utilizzato un collegamento che pare almeno discutibile. Secondo l’Agenzia, infatti, il nesso che evidenzierebbe la “nazionalità” dei diritti in questione (e la conseguente astratta rilevanza ai fini IVA delle operazioni a essi relative) sarebbe rappresentato dalla circostanza che questi sono registrati presso l’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti. Circostanza che non pare dirimente, soprattutto considerando che gli stessi marchi potrebbero essere stati registrati anche in altri paesi ovverossia in tutti gli Stati in cui il titolare desidera ottenere la protezione o, ancora, che potrebbe trattarsi della registrazione di un marchio dell’Unione europea, valido per tutti i paesi membri (la principale fonte normativa in materia di marchio dell’Unione europea è rappresentata dal regolamento UE n. 2015/2424 del 16 dicembre 2015).

Accettando il ragionamento della risposta a interpello, si dovrebbe in effetti dedurre che, nelle predette ipotesi, i marchi siano “esistenti” in più Stati o addirittura nel territorio dell’intera Unione europea (ivi compreso lo Stato membro del titolare che procede alla registrazione, se si tratta di un soggetto UE) e che, conseguentemente, la loro cessione rileverebbe in una pluralità di territori. Soluzione che non sembra molto ragionevole e che dovrebbe far riflettere sulla correttezza della scelta di assegnare un bene immateriale a un determinato territorio astraendolo dalla restante parte dell’azienda (che è cosa diversa dallo stabilire dove una prestazione di servizi sia territorialmente rilevante ai fini IVA).

Altrettanto insoddisfacenti sono le conseguenze sotto il profilo applicativo. Basti pensare al caso, speculare a quello della risposta, in cui due soggetti stabiliti in Italia compravendono un’azienda ivi dislocata e interamente composta di beni materiali, eccezion fatta per un marchio registrato in altro Stato membro. Stando alle indicazioni fornite, la cessione dell’intero complesso ubicato in Italia (qualificabile come azienda/ramo d’azienda) configurerebbe un’operazione fuori del campo applicativo IVA ai sensi dell’art. 2, comma 3, lettera b), Dpr n. 633/1972, a esclusione del marchio, la cui vendita darebbe invece luogo a una prestazione di servizi a se stante. Tuttavia, dato che in base all’art. 44, direttiva n. 2006/112/CE (e all’art. 7-ter, Dpr n. 633/1972) tale cessione rileverebbe in Italia, che è lo Stato del cessionario del marchio, essa andrebbe fatturata con IVA italiana, trattandosi della prestazione resa da altro soggetto nazionale (il cedente del marchio). Il che, comporterebbe inevitabilmente l’applicazione di un duplice regime di tassazione (l’IVA sulla cessione del marchio e l’imposta di registro sul valore dell’azienda) e quindi una situazione in cui, oltretutto, è facile immaginare che s’inneschino contestazioni sui rispettivi importi e valori, in particolare nei casi in cui il prezzo dell’azienda sia determinato unitariamente e l’individuazione del corrispettivo per il marchio consegue a una necessità di carattere meramente fiscale. Gli effetti sarebbero ancor più evidenti se, nell’esempio illustrato, il marchio fosse un marchio registrato in più Stati dell’Unione europea. Occorrerebbe infatti ipotizzare un prezzo per ognuno dei marchi registrati all’estero per assoggettarlo a imposta (dato che si tratterebbe, nel caso proposto, di una prestazione di servizi rilevante in Italia ovverossia nello Stato del cessionario).

 

  1. La recente presa di posizione dell’Amministrazione finanziaria solleva perplessità anche in relazione ad altri aspetti.

La prima reazione che suscita la lettura delle risposte in commento è quella di una conclusione che non segue un chiaro percorso argomentativo e che sembra piuttosto discendere da un’assunzione “data” e non discutibile. In questo senso, porta a ragionare l’affermazione di partenza secondo cui la norma “postula” che il compendio aziendale oggetto del trasferimento “sia situato nel territorio di uno Stato membro”. Un postulato, dunque, che non necessiterebbe di alcuna giustificazione. Questo, tuttavia, non lo dice la norma comunitaria (art. 19, direttiva n. 2006/112/CE e, prima di esso, art. 5, direttiva n. 77/388/CEE) né quella interna (art. 2, comma 3, lett. b, Dpr n. 633/1972). Né esiste alcun rinvio ai singoli ordinamenti nazionali che possa giustificare la formulazione di una definizione autonoma e, anzi, un simile rinvio è espressamente escluso. Come risulta dalla sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-444/10, infatti, i) la nozione di trasferimento a titolo oneroso di un’universalità totale o parziale di beni deve ricevere un’interpretazione uniforme a livello comunitario, trattandosi di una nozione autonoma del diritto dell’Unione che nulla, ad avviso degli scriventi, induce a ritenere vada confinata ai soli compendi interamente localizzati in uno Stato comunitario, ii) “in mancanza di una definizione di tale nozione” nella direttiva “o di un espresso richiamo al diritto degli Stati membri, il suo senso e la sua portata devono essere ricercati tenendo conto del contesto della disposizione e dello scopo perseguito dalla normativa di cui trattasi” e iii) è “proprio alla luce del contesto dell’art. 5, n. 8, della sesta Direttiva (ora art. 19, direttiva n. 2006/112/CE) e dello scopo perseguito da quest’ultima che la Corte ha ritenuto che la predetta disposizione è diretta a consentire agli Stati membri di agevolare i trasferimenti di imprese o di parti di imprese, semplificandoli ed evitando di gravare la tesoreria del beneficiario di un onere fiscale smisurato, che sarebbe, in ogni caso, recuperato ulteriormente mediante detrazione dell’IVA versata a monte”.

Dunque, la norma dell’art. 19, direttiva n. 2006/112/CE non offre alcuno spunto in materia di “territorialità” delle cessioni d’azienda, intesa come appartenenza dei beni che la compongono a un determinato territorio. Né gli Stati membri sono autorizzati a decidere al riguardo. In ogni caso, gli ordinamenti che scelgono di esercitare la facoltà di escludere le cessioni aziendali dall’ambito delle operazioni rilevanti IVA, sono tenuti a rispettare le finalità agevolative e di semplificazione che sono alla base della previsione normativa. Finalità che non paiono coerenti con la “scomposizione” della cessione in funzione della localizzazione dei singoli asset dell’azienda. Né paiono coerenti con l’esigenza, evidenziata dalla giurisprudenza unionale richiamata, di non “appesantire” finanziariamente il cessionario, visto e considerato che, come emerge chiaramente nel caso della risposta n. 637/2021, la rilevanza delle cessioni dei singoli beni negli Stati in cui essi sono collocati ben potrebbe determinare l’applicazione di un onere non indifferente, reso ancor più gravoso per il fatto che il cessionario si troverebbe a dover recuperare l’imposta di uno Stato che non è quello in cui egli è stabilito. Il tutto, senza considerare che potrebbe anche trattarsi di beni dislocati in più Stati. Oltre al caso delle rimanenze di cui alla risposta n. 637, potrebbe trattarsi, per esempio, della cessione di un’azienda di produzione che detiene presso alcuni terzisti in vari Stati UE (diversi dal luogo di ubicazione dell’azienda) gli stampi per la lavorazione dei beni. Rimanendo gli stampi negli Stati in cui sono collocati anche successivamente alla cessione dell’azienda (magari in vista della prosecuzione del rapporto con il cessionario), ne deriverebbe che il cedente debba identificarsi ai fini IVA in ognuno di tali Stati per assoggettare all’imposta locale la relativa vendita (questo in linea di principio e salva l’applicazione del meccanismo del reverse charge) con evidente moltiplicazione degli adempimenti (apertura di plurime posizioni IVA da parte del cedente per assolvere gli obblighi di fatturazione e addebito dell’imposta, e avvio da parte del cessionario di altrettante procedure di rimborso per il recupero del tributo) e delle difficoltà a determinare il corrispettivo di ognuna di tali cessioni. Non va infatti dimenticato che spesso, come già sottolineato in precedenza, il prezzo dell’azienda è unico e che non è detto che le parti condividano le medesime valutazioni economiche per ognuno dei componenti del compendio aziendale (oltretutto, non è infrequente che nella composizione dell’azienda il cessionario sia costretto ad accettare beni di cui il cedente intende disfarsi, ma ai quali il cessionario stesso non sarebbe interessato).

Il punto di vista esposto dall’Amministrazione finanziaria sembrerebbe allora “viziato” da un errore di prospettiva. L’errore consiste nel fatto che l’Agenzia delle entrate ritiene (così pare) che, al fine di giudicare dell’esclusione da imposta di una cessione d’azienda, sia necessario accertare che si tratti – prima di tutto - di un’operazione “territoriale”, con ciò intendendo che una tale indagine sia possibile solo se l’azienda è collocata nel luogo in cui lo Stato (che abbia optato per l’applicazione della norma di esclusione) esercita la propria potestà impositiva. La conseguenza (come emerge dalle risposte a interpello) è che, se l’azienda non è collocata in tale territorio, la norma non può applicarsi e, per l’effetto, vengono in rilievo le eventuali operazioni che coinvolgono i singoli beni ivi presenti (marchi e magazzino, nei casi di specie), da esaminare e trattare isolatamente previa verifica dei requisiti soggettivo, oggettivo e territoriale (quest’ultimo da intendere qui nel senso tecnico suo proprio, ossia in funzione delle regole di territorialità di cui agli articoli 7 e seguenti del decreto IVA).

Ma questa non sembra essere la prospettiva corretta o quantomeno non sono rinvenibili argomentazioni (realmente convincenti) che autorizzino ad andare in questa direzione. Il punto di partenza dovrebbe allora essere rappresentato dalla verifica dell’esistenza di un’azienda in senso oggettivo, il cui accertamento, alla luce di quanto precede, non pare influenzato dalla localizzazione degli elementi che la compongono (spesso difficoltosa e dall’esito insoddisfacente, ancor più con riferimento agli asset immateriali). La nozione di azienda, in altri termini, dovrebbe prescindere dalla collocazione “geografica” dei suoi elementi costitutivi. E ciò, non solo quando detti elementi sono ubicati in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova tutto quanto sia già considerabile – di per sé - come un’azienda o un ramo aziendale, ma anche quando tali elementi (o, all’opposto, il complesso aziendale) sono dislocati fuori del territorio dell’Unione europea.

Non si vuol negare che tale approccio possa a sua volta nascondere difficoltà non indifferenti. Basti pensare, sempre per restare ai casi delle risposte, alla necessità di acquisire documentazione probatoria che assicuri che i beni (materiali o immateriali) presenti nel territorio di un certo Stato formino effettivamente oggetto dell’unitaria operazione di cessione aziendale, al fine di accertare, coerentemente con l’insegnamento della giurisprudenza e con la stessa formulazione dell’art. 19, direttiva n. 2006/112/CE, che abbia luogo una (semplice) sostituzione soggettiva nella titolarità del compendio, sì che “il beneficiario succede al cedente” senza che si realizzi alcuna operazione nell’ottica dell’imposta.

Proprio la “successione” del cessionario al cedente, del resto, impedisce che la mancata applicazione dell’imposta sui singoli asset al momento della cessione d’azienda implichi un’evasione o un qualsiasi “salto d’imposta” (esattamente come nelle altre ipotesi di sostituzione soggettiva). L’assoggettamento a IVA dei beni allocati in un dato Stato avverrà infatti quando e se il cessionario dell’azienda porrà in essere operazioni ivi rilevanti. Per esempio, se si tratta di beni esistenti in Italia che il cessionario dell’azienda cede successivamente a soggetti privati, tale soggetto sarà tenuto ad assumere una posizione IVA nazionale per realizzare una vendita interna con applicazione del tributo (nel caso di una cessione a soggetti passivi nazionali, la vendita sarebbe parimenti soggetta a IVA, ma con applicazione del meccanismo dell’inversione contabile).

Un altro aspetto merita, infine, di essere considerato.

L’art. 19 della direttiva n. 2006/112/CE rimanda al successivo art. 29, il quale (laconicamente) prevede che “l’art. 19 si applica, alle stesse condizioni, alle prestazioni di servizi”. Riprendendo le osservazioni svolte in dottrina (cfr., ancora, P. Centore, IVA Europea, Percorsi commentati della giurisprudenza euro-unionale, 2016, pag. 187 ss.) e annotando che la materia non pare aver formato oggetto di particolari (ulteriori) approfondimenti, è da ritenere che la norma debba essere intesa come volta a escludere dall’alveo delle operazioni rilevanti IVA anche le cessioni di aziende che siano “costituite” da prestazioni di servizi, con ciò intendendosi “costituite” da beni immateriali, i quali, in linea generale, sono appunto considerati servizi ai fini dell’imposta (il fatto che la cessione di un bene immateriale sia considerato come una prestazione di servizi ai fini IVA è previsto, nella normativa comunitaria, dall’art. 25 della direttiva n. 2006/112, e nella disciplina interna dall’art. 3, comma 2, n. 2, Dpr n. 633/1972).

Vero è che tale norma (art. 29 della direttiva) non pare aver formato oggetto di esplicito recepimento nell’ordinamento interno. Tuttavia, è anche vero che, da un lato, quando nel complesso aziendale sono compresi beni immateriali unitamente a beni materiali, l’interpretazione della prassi e della giurisprudenza nazionali li include nella nozione di cessione d’azienda, e che, dall’altro lato, il recepimento della disposizione in questione non è neppure necessario, bensì necessitato. La scelta di escludere le cessioni d’azienda ai sensi dell’art. 19, direttiva n. 2006/112/CE, porta infatti con sé automaticamente anche il “corollario” dell’art. 29, il quale (senza alcuna discrezionalità) “si applica” anche all’azienda che si sostanzi in soli beni immateriali (servizi), la cui vendita non rappresenta un’operazione ai fini IVA.

È allora sufficiente “unire i puntini” per concludere che un’azienda di (ossia composta da) servizi (ossia da beni immateriali in senso ampio) è sempre esclusa dal campo applicativo dell’imposta per quegli Stati che, come l’Italia, abbiano esercitato la scelta di cui all’art. 19 della direttiva. E siccome le prestazioni di servizi non sono, per loro natura, “localizzabili” (la localizzazione - si ripete – è cosa diversa dallo stabilire dove una prestazione di servizi sia rilevante ai fini IVA in base ai criteri di territorialità previsti), è giocoforza concludere che, in assenza di qualsiasi previsione normativa in tal senso, la cessione di una siffatta azienda non implichi alcuna verifica sulla dislocazione degli elementi che la compongono.

 

  1. Alla luce delle osservazioni sin qui svolte, pare lecito concludere che l’orientamento fatto proprio dall’Agenzia delle entrate nelle recenti pronunce andrebbe forse rimeditato, visto e considerato che le questioni in discussione coinvolgono aspetti fondamentali per il funzionamento dell’imposta. Le direttrici da seguire in un’eventuale revisione della problematica dovrebbero senz’altro tener conto della normativa comunitaria e della relativa interpretazione, ma, in tutta evidenza, anche delle doverose esigenze di controllo e accertamento della reale natura delle operazioni poste in essere, al fine di evitare che possano verificarsi fenomeni distorsivi e di occultamento di materia imponibile.

In questa prospettiva, l’angolazione dalla quale osservare il fenomeno andrebbe collegata al luogo di stabilimento del cedente, accettando che il rinvio alle scelte compiute dai singoli “Stati membri”, contenuto nell’art. 19, direttiva n. 2006/112/CE, vada inteso ponendo l’enfasi sul profilo “soggettivo” (per così dire) ossia come riferimento al Paese del soggetto che realizza la cessione, indipendentemente dal luogo in cui è collocata l’azienda. Sarebbe dunque questo Stato, ossia lo Stato del cedente, a dover accertare l’effettiva esistenza di un compendio aziendale, ancorché caratterizzato da elementi di transnazionalità, al fine di stabilirne l’esclusione dalla tassazione, imponendo semmai al contribuente/cedente di fornire tutti gli elementi utili alle richiamate esigenze di controllo.

In un sistema realmente armonizzato, dovrebbe trattarsi di un’impostazione condivisa (almeno) a livello unionale, nel senso che ogni Stato dovrebbe accettare di rinunciare alla tassazione di elementi “presenti” nel proprio territorio, ove sia provato che essi sono riconducibili a un complesso aziendale riconosciuto tale (e come tale escluso dal campo applicativo IVA) nello Stato membro del cedente. Il che, presuppone che le autorità fiscali attuino uno scambio d’informazioni efficace e tempestivo in un quadro di regole comuni.