Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

02/05/2022 - Integrazione ed illustrazione postuma della motivazione dell’avviso di accertamento

argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza

La motivazione può essere integrata anche in corso di causa qualora illustri e dimostri le ragioni esposte nell’avviso di accertamento senza pregiudicare il diritto di difesa del contribuente

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PAROLE CHIAVE: motivazione - integrazione motivazione - diritto di difesa


di Fabio Russo

  1. L’art. 3 della Legge sul procedimento amministrativo n. 241/1990 ha esplicitato l’obbligo di motivare l’atto della Pubblica Amministrazione illustrando con chiarezza le ragioni di fatto e di diritto che lo sorreggono e, contemporaneamente, lo rendono facilmente leggibile.

In ambito tributario lo Statuto del contribuente, all’art. 7, ha riproposto l’obbligo motivazionale quale requisito di validità dell’atto tributario che deve indicare i presupposti di fatto e di diritto che lo sorreggono per assolvere ad una funzione multipla.

La motivazione deve innanzitutto consentire al contribuente di comprendere le ragioni della pretesa per poi poter apprestare le sue difese e costituisce, al contempo, garanzia dell’osservanza da parte della Amministrazione finanziaria delle norme sul procedimento e sulla formazione dell’atto amministrativo (G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2005, pag. 342; C. CALIFANO, La motivazione degli atti tributari, Bologna, 2008, pag. 295; R. MICELI, La motivazione degli atti tributari, in AA.VV., Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. FANTOZZI e G. FEDELE, Milano, 2005, pag. 296).

La forza della motivazione varia, essendo più robusta ed articolata per gli atti di accertamento e più affievolita per quegli atti, tipiche le cartelle di pagamento emesse in esecuzione di un precedente avviso di accertamento ben notificato, che non rappresentano il primo atto con cui la pretesa è portata a conoscenza del contribuente (Cass. civ., Sez. trib., 7 settembre 2018, n. 21851).

L’art. 7 dello statuto, al comma 1 primo periodo, rinvia alla legge sul procedimento amministrativo che contiene disposizioni quali l’art.21septies ed octies, secondo cui è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, mentre è annullabile se adottato in violazione di legge o eccesso di potere.

Tra questi capisaldi normativi si colloca la sentenza in commento, ad oggetto l’obbligo d’iscrizione alla banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie, ovvero il VAT information exchange system, altrimenti detto VIES.

In particolare, l’art. 35 del D.P.R. 633/1972 prevede che con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate sono previste modalità di diniego o revoca dell’autorizzazione ed altresì stabiliti i criteri e le modalità di inclusione delle partite IVA nella banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie.

In attuazione della norma indicata è stato emanato il provvedimento direttoriale prot.2010/188376 del 29.12.2010 che contiene la disciplina dei presupposti per la revoca dell’autorizzazione all’effettuazione di operazioni intracomunitarie, la quale comporta l’esclusione dall’archivio dei soggetti autorizzati alle operazioni intracomunitarie con effetto dalla data di emissione. Nello specifico l’esclusione viene disposta in base a valutazioni della posizione del contribuente che denotino criticità e rischio individuati, nel caso specifico, nell’esecuzione di operazioni intracomunitarie con società polacche non iscritte al VIES e, dunque, pregiudizievoli per l’Erario.

La CTR impugnata col ricorso che ha originato il giudizio annotato aveva riformato la decisione di prime cure reputando insufficiente la motivazione originaria del provvedimento, in quanto solo nel corso del giudizio l’Agenzia aveva individuato gli elementi di rischio esplicitandoli nelle <<condotte, dettagliate negli atti del processo con dovizia di particolari, importi, date nonché documentate attualmente e finanziariamente>>.

Fondamentale, ai fini della comprensione del contenuto della pronuncia in commento, è la delimitazione dell’oggetto del giudizio, contenuta nel considerando nel quale <<Preliminarmente si osserva che non trova applicazione nella fattispecie de qua il D.P.R. n. 600 del 1973, art.42, norma che impone un significativo obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento in vista di un suo immediato controllo (in proposito, tra le altre, Cass. sez.5, Sentenza n.30039 del 21/11/2018, Rv. 651552-01), ma, piuttosto, la L. n.212 del 2000, art.7, comma 1, primo periodo (“Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente”), il quale stabilisce che “Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dalla L. 7 agosto 19990, n. 241, art.3, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione”>>.

L’occasione fornita dalla Suprema Corte è comunque propizia per affrontare il tema non nuovo, ma sempre attuale, della sufficienza motivazionale e della sua integrabilità.  

  1. La motivazione postuma. Nella pronuncia viene chiarito che l’atto impugnato non ha natura impositiva ma tributaria, sicché non operano gli stringenti limiti motivazionali di cui all’art.42 del D.P.R. 600/1973, anche se non è peregrina l’ipotesi che l’Ente impositore tenti d’integrare la motivazione in corso di causa anche nei giudizi d’impugnazione degli atti impositivi o che richiami la valenza sanante del ricorso.

Su questo doppio versante devono seguire necessarie considerazioni.

Sovente accade che, a fronte della eccezione del contribuente scritta in ricorso, nel quale eccepisca l’insufficienza motivazionale, l’Amministrazione finanziaria si precipiti a motivare meglio nelle controdeduzioni.

La possibilità di integrare la motivazione in corso di lite illustrando, solo negli atti del processo, le ragioni ampliative della parte motiva, va esclusa.

Ciò perché la motivazione è requisito di validità originaria dell’atto tributario ed il <<contribuente deve avere contezza delle ragioni dell’Amministrazione, deve essere messo in grado di valutare l’opportunità di fare o meno acquiescenza al provvedimento, e, in caso di ricorso, di approntare le proprie difese con piena consapevolezza, nonché per impedire all’Amministrazione, nel quadro di un rapporto di leale collaborazione, di addurre in un eventuale successivo contenzioso ragioni diverse rispetto a quelle enunciate>> (Cass. n. 11477/2018).

Milita in questo senso anche la struttura del processo tributario d’impugnazione merito della pretesa erariale fondata su un prospettico vizio dell’atto impugnato (Cass. civ., Sez. trib., n. 23248/2014; Cass. civ., Sez. trib., n. 28933/2017).

Prima delle modifiche introdotte nel 2005, in diritto amministrativo, si era paventato un certo favor per l’integrabilità della motivazione (G. SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, Milano, 2003, pag. 156 ss. ed in ambito amministrativo, forse all’epoca minoritario, R. VILLATA, L’atto amministrativo, in L. MAZZAROLLI e altri (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 2001, pag. 1438), con ricadute anche in materia tributaria.

Il punto merita un approfondimento anche alla luce dei più recenti orientamenti sviluppatisi nel diritto amministrativo, dove anteriormente all’approvazione della legge sul procedimento si riteneva che i vizi della motivazione rientrassero nell’eccesso di potere, con conseguente annullabilità, in quanto spie sintomatiche di una valutazione non adeguata dell’interesse pubblico, ravvisando l’eccesso di potere in presenza di motivazione obbligatoria per legge o per la natura dell’atto (P. VIRGA, Diritto amministrativo, Milano, 1987, vol. II, pag. 123). Vi era, però, anche chi distingueva tra mancanza di motivazione, intesa come causa di violazione di legge, configurabile nei casi in cui la motivazione era obbligatoria, ed eccesso di potere, viceversa riscontrabile nelle ipotesi di insufficiente o contraddittoria motivazione (R. ALESSI, Principi di diritto amministrativo, Milano, 1978, vol. I, pag. 417 ss). Con la positivizzazione, ex art. 3 della Legge n. 241/1990, dell’obbligo della motivazione, per parte della dottrina il provvedimento privo della motivazione non è più viziato da eccesso di potere bensì da violazione di legge. Con le successive modifiche, intervenute ad opera della Legge n. 15/2005, che ha inciso la legge sul procedimento introducendo gli artt. 21-septies (“Nullità del provvedimento”) e 21-octies (“Annullabilità del provvedimento”), si è aperto un vivace dibattito sul se il vizio motivazionale comporti nullità o annullabilità dell’atto.

Per parte della dottrina la motivazione è elemento essenziale del provvedimento, la cui mancanza determina la nullità dell’atto. Ciò soprattutto quando il difetto di motivazione si traduca nell’impossibilità di riconoscere la volontà espressa nel provvedimento.

Per l’opposto orientamento deve escludersi che la motivazione sia un elemento necessario dell’atto, in quanto non è indispensabile la sua ricognizione sul piano dell’esistenza giuridica. La motivazione costituisce, piuttosto, un requisito di validità dell’atto, che ne condiziona la legittimità in via generale, quale motivo di annullabilità (in questo senso, tra gli altri, S. PERONGINI, Percorsi di diritto amministrativo, in AA.VV., Torino, 2014, pag. 369, il quale motiva anche dalla possibilità che la motivazione può essere dedotta anche per relationem).

  1. Il dibattito dottrinario sull’integrazione della motivazione. In ambito pubblico la dottrina ha mostrato significative aperture verso la motivazione postuma (E. MICHETTI, La motivazione del provvedimento amministrativo impugnato. La convalida e l’integrazione, Milano, 2011). Varie sono le posizioni se si volge lo sguardo ai più recenti commentari ed alla manualistica. In senso contrario alla motivazione postuma si sottolinea che anche i meri atti vanno motivati in funzione del principio di trasparenza e del controllo sociale sulla non arbitrarietà dell’operato della Pubblica amministrazione (E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2017, pag. 577 ss. Con riferimento agli atti vincolati, sottolinea che bisogna distinguere nel concreto tra le varie tipologie di atti ed evidenzia come anche la giurisprudenza amministrativa sia in evoluzione F. CARDARELLI, “Sub. art. 3”, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, pag. 458 ss. Nello stesso senso sostanzialmente A. CIOFFI, La motivazione del provvedimento amministrativo, sub. art. 3, in A. ROMANO e altri (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, pag. 215 ss., per il quale la giurisprudenza ritiene che negli atti vincolati la motivazione non deve essere ampia, ma è sufficiente il richiamo al presupposto di fatto ed alla norma che vi corrisponde. Non ammette la motivazione postuma G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2017, pag. 284). Va ricordato che la giurisprudenza amministrativa esclude la necessità della motivazione nei casi in cui siano oggettive e immediatamente rilevabili le ragioni sottese all’operato dell’amministrazione (V. CERULLI IRELLI, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2017, pag. 394. Definisce “complesso” il tema della motivazione postuma, coinvolgendo quello della ricostruzione del processo, se giudizio di legittimità del provvedimento o accertamento del rapporto giuridico amministrato, M.C. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2015, pag. 170 ss). In senso favorevole alla motivazione postuma, infine, con riguardo agli atti vincolati si esprime parte della dottrina amministrativa (tra gli altri si veda F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2016, pag. 1430), in quanto per queste attività, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo, sarà possibile fornire in giudizio la prova dell’impossibilità di un contenuto dispositivo diverso.

A fronte dell’orientamento tradizionale, tuttora maggioritario, per il quale la Pubblica amministrazione non può modificare né integrare in corso di giudizio la motivazione stesa ab origine nel provvedimento impugnato, in quanto il giudizio amministrativo va visto come un giudizio impugnatorio sulla legittimità del provvedimento, non aperto alla verifica sostanziale della correttezza della determinazione amministrativa, si va sviluppando una prospettiva tendente a valorizzare soprattutto il merito del rapporto.

Secondo questa ultima impostazione va abbandonata la visione formalistica tradizionale ed esaltata la centralità del ruolo del giudice nello scrutinio della questione oggetto del processo. Lo stesso richiamo costituzionale al giusto processo, tale anche in ambito tributario (Sulla generale rilevanza dell’art. 111 della Costituzione nell’ambito del diritto tributario cfr. A. PODDIGHE, Giusto processo e processo tributario, Milano, 2010) deve condurre ad accertare il conflitto sostanziale che si trova alla base dell’impugnativa dell’atto.

La dottrina tributaria, invece, non sembra dare corso ad aperture sostanziose verso la motivazione postuma, perché il giudice tributario prende atto e giudica della motivazione senza poterla modificare (G. FRANSONI - P. RUSSO - L. CASTALDI, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2016, pag. 277), visto che la motivazione è elemento sostanziale dell’atto pretensivo, la cui violazione ha effetti più miti in ambito tributario (C. CALIFANO, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, pag. 253 ss.), dove la nullità è solo eccepibile, quindi non rilevabile d’ufficio, entro il primo grado di giudizio (M. BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2013, pag. 214; C. CALIFANO, Il difetto di motivazione degli atti impositivi, in Rass. trib., 2010, pag. 1212 ss.), con un regime certamente più simile all’annullabilità.

Per la dottrina la motivazione è elemento imprescindibilmente correlato all’esternazione dei presupposti giustificativi dell’esercizio del potere, per cui non integrabile successivamente (P. BORIA, Diritto tributario, Torino, 2016, pag. 456) e va negata l’applicazione dell’art. 21-octies alla motivazione, anche quando non è espressamente prevista la sanzione della nullità, in quanto la motivazione attiene al contenuto dell’atto.

Ciò in quanto prima della Legge n. 15/2005 si riteneva che in materia tributaria la nullità fosse da considerarsi annullabilità, ora si deve assimilare la nullità alla nullità amministrativa (F. TESAURO, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. trib., 2005, pag. 1445 ss).

L’applicazione della norma amministrativa va esclusa perché la sua ispirazione di fondo ha le proprie radici nella logica dell’“amministrazione di risultato”, che sarebbe estranea alla materia tributaria (F. RANDAZZO, In tema di applicabilità dell’art. 21-octies, 2° comma, Legge n. 241 del 1990, agli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2018, pag. 259 ss).

Se la motivazione, come pare, è elemento sostanziale, non dovrebbe considerarsi legittima la motivazione postuma, che si tradurrebbe, argomento di non poco conto, in doppia violazione costituzionale degli art.li 113 e 24, come tale lesiva del diritto di difesa (Artt. 113 e 24 della Costituzione, espressivi del giusto processo. In dottrina E.A. SEPE, La nuova giustizia tributaria: oggetto e limiti, in AA.VV, F. AMATUCCI - M. D’IPPOLITO (a cura di), Sistemi di garanzie e processo tributario, Napoli, 2005; A. PODDIGHE, Giusto processo e processo tributario, Milano, 2010; F. GALLO, Verso un giusto processo tributario, in Giust. trib., 2010; M. CANTILLO, Aspetti critici del processo tributario nella recente giurisprudenza della Corte di cassazione, in Rass. trib., n. 1/2010).

L’applicazione dell’art. 21-octies alle norme tributarie, quindi, viene frequentemente negata sulla base della specialità della disciplina tributaria dotata di un corpus normativo distinto (S. MULEO, Modifiche della Legge n. 241/1990 e procedimenti tributari: ipotesi e negazione di una lettura demolitoria delle garanzie, in Dialoghi dir. trib., 2005, pag. 535 ss. Nello stesso fascicolo sottolinea che la vincolatezza degli atti tributari è nozione diversa dalla vincolatezza intesa dagli amministrativisti. R. LUPI, Un’ipotesi limitata alle vicende “autoesplicative”, pag. 541 ss.).

Per alcuna dottrina, tuttavia, le tesi contrarie all’ammissibilità della motivazione postuma non appaiono insuperabili, muovendo dalla difficoltà a negare in ambito tributario l’applicabilità degli artt. 21-septies e 21-octies della Legge n. 241/1990.

La Legge n. 241/1990, così come novellata dalla Legge n. 15/2005, e segnatamente il nuovo regime dei vizi, si può applicare alla materia tributaria, dovendo al contempo sottolineare come il sistema tributario attuale, caratterizzato dalla prevalenza dell’interesse fiscale, dalla intensa autoritatività della potestà di imposizione, dall’esercizio di poteri impositivi entro termini decadenziali, dall’emanazione di provvedimenti suscettibili di acquisire definitiva stabilità, dalla esclusiva presenza di azioni impugnatorie, appare incompatibile con la valorizzazione del rapporto (L. DEL FEDERICO, La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, I, pag. 729 ss.).

È ancora da ritenere che nella peculiare materia catastale, più vicina alla materia amministrativa in senso stretto, queste caratteristiche sembrano sfumate (G. SALANITRO, La motivazione postuma del classamento, tra diritto tributario e diritto amministrativo, in Dir. prat. trib., n. 5/2018, pag. 2116, che richiama, sull’applicabilità in generale degli artt. 21-septies e 21-octies in ambito tributario, E. MARELLO, I fondamenti sistematici del sistema duale nullità - annullabilità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, I, pag. 328 ss. Per l’applicazione della Legge n. 241 alla materia tributaria si veda M. BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi; considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2006, pag. 357 ss.).

Per questi orientamenti una interpretazione preclusiva cozzerebbe con l’esplicita esclusione normativa solo di alcune norme della legge sul procedimento amministrativo e risulterebbe ancor più insoddisfacente con riferimento al catasto, che da sempre è vista come materia a cavallo tra il diritto amministrativo e quello tributario.

  1. La valenza sanante del ricorso. La proposizione di un articolato ricorso avverso ad un atto amministrativo viziato nella motivazione non dovrebbe assumere una valenza sanante.

È errato e limitante addurre che il contribuente, se in grado di entrare profusamente nel merito della ripresa, dando evidenza di averne ben compreso le ragioni, non viene automaticamente pregiudicato nell’esercizio dell’azione difensiva.

La Suprema Corte spiega, innanzitutto, che il giudice tributario, chiamato ad esprimersi sul vizio di motivazione dell’atto impugnato, non può limitarsi ad esprimere degli inspiegati giudizi di valore, qualificando la motivazione come “idonea”, “esauriente”, “sufficiente”, ovvero giustificando tale asserita “idoneità” in ragione del fatto che la difesa del contribuente, comunque, sia stata svolta “compiutamente su tutti i rilievi mossi”, senza, tuttavia, fornire alcuna spiegazione sul perché la motivazione sarebbe “esauriente” o quantomeno “sufficiente” (Cass. civ., Sez. trib., n. 8934 del 17 aprile 2014 e n. 7056 del 26 marzo 2014).

A più riprese si è dubitato della valenza sanante del ricorso, ovvero della sua attitudine salvifica dell’atto impugnato (M. NUSSI, L’attività di supplenza del giudice tributario oltre i limiti dell’atto impositivo (nuovi paradossi nell’accertamento del reddito di società di persone), in GT - Riv. giur. trib., 2011, pag. 1053 ss.; F. TESAURO, Elusione fiscale, Introduzione, in Giur. it., 2010, pag. 1724; A. FEDELE, Assetti negoziali e forme d’impresa tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, pag. 1123 ss.; S. MULEO, Sulla motivazione dell’accertamento come limite alla materia del contendere nel processo tributario, in Rass. trib., 1999, pag. 506 ss.; R. LUPI, Motivazione e prova nell’accertamento tributario, con particolare riguardo alle imposte dirette ed all’IVA, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1987, pag. 299 ss.).

Secondo gli Ermellini, la “sufficienza” della motivazione dell’atto impugnato deve essere valutata dal giudice di merito, non sulla base di un giudizio ex post, in quanto tale eseguito alla luce della “compiutezza” della difesa svolta dal contribuente desunta dal contenuto del ricorso introduttivo, bensì alla luce di un giudizio ex ante, ovvero basato esclusivamente sulla oggettiva idoneità degli elementi enunciati nella motivazione a consentire ex se l’esercizio effettivo del diritto di difesa, a prescindere, quindi, dalla compiutezza dei contenuti del ricorso proposto avverso l’atto impositivo mal motivato.

In tal senso, infatti, la Suprema Corte ribadisce che l’obbligo motivazionale dell’atto impositivo persegue il fine di far conoscere al contribuente la pretesa impositiva nella misura tale da permettergli tanto di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale, quanto di contestare efficacemente l’an ed il quantum debeatur.

La motivazione è, però, innanzitutto presidio di legittimità e correttezza dell’azione amministrativa e correlatamente deve fornire all’interessato i necessari elementi conoscitivi tempestivamente, ovvero al momento della notifica del provvedimento impositivo, ma anche con quel grado di determinatezza ed intellegibilità che permetta al medesimo un esercizio non eccessivamente difficoltoso del diritto di difesa (Cass. civ., Sez. trib., 12 luglio 2006, n. 15842; Cass. civ., Sez. trib., 27 novembre 2006, n. 25064; Cass. civ., Sez. trib., 30 ottobre 2009, n. 23009.).

Qualora il contribuente abbia eccepito il vizio per difetto di motivazione, effettivamente riconosciuto sussistente dal giudice, ne deriverà inevitabilmente la caducazione dell’atto impugnato senza possibilità di sanatoria (Per una ricostruzione della disciplina delle invalidità degli atti impositivi e per i relativi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali si veda S. ZAGA’, Le invalidità degli atti impositivi, CEDAM, 2012; Id., Il vizio di motivazione degli atti amministrativi tributari secondo la Corte di Cassazione: brevi note in merito ad alcuni corollari processuali derivanti dal riscontro di tale vizio, in Dir. prat. trib., 2014; F. PISTOLESI, Le invalidità degli atti impositivi in difetto di previsione normativa, in Riv. dir. trib., 2012, pag. 1131 ss.; F. PEPE, Contributo allo studio delle invalidità degli atti impositivi, Torino, 2012).

  1. In conclusione. Spesso ci si è imbattuti nel dibattito sui confini tra motivazione e prova che sono aspetti distinti, seppur fortemente connessi, cosicché, non di rado, vengono erroneamente mischiati e sono correlati col tema trattato. Questa confusione nasce perché il nostro linguaggio giuridico usa il termine polisemico prova per indicare fenomeni tra loro differenti (F. GALLO, La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione nel sistema della giustizia tributaria: bilancio e prospettive ad un anno dalla sua istituzione. Motivazione e prova nell’accertamento tributario: l’evoluzione del pensiero della Corte, in trib., n. 4/2001, pag. 1088.).

È apparso opportuno, per ragioni di chiarezza, scomporre la prova, intesa come dimostrazione della pretesa, dalla prova intesa quale elemento di conoscenza, e conseguentemente attrarre quest’ultima alla sfera motivazionale.

Se l’obbligo di motivazione è connesso ai doveri di imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione, ne consegue che la mera indicazione delle prove, poste a fondamento della pretesa, costituisce un requisito della motivazione non diverso dall’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto determinanti nella decisione dell’Amministrazione finanziaria.

Fermo restando che la valutazione delle prove fondanti la rettifica è questione esclusivamente processuale, la loro indicazione nell’atto di accertamento è dovuta nella misura in cui risponde alle medesime esigenze di trasparenza per le quali è resa obbligatoria l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche.

Le fonti di prova vanno solo menzionate, per rendere edotto il contribuente delle ragioni che hanno originato la ripresa nei suoi confronti. La loro omessa menzione vizia la motivazione dell’atto, mentre la loro puntuale indicazione, fruttuosamente contestata in giudizio, incide sulla pretesa di un atto che, seppur valido, cade sull’onere probatorio posto a carico dell’Ufficio.

La regola dell’onere della prova indica al giudice in quale modo decidere la controversia quando un fatto non è provato (F. TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2013, pag. 179. Sul riparto probatorio si veda G. M. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, CEDAM, 2005, pag. 12; Id., Sulla ripartizione degli oneri probatori nel processo tributario tra nuovi (quanto, forse, ormai tardivi) sviluppi giurisprudenziali e recenti modifiche normative, in Rass. trib., 2006, pag. 601; R. LUPI, L’onere della prova nella dialettica del giudizio di fatto, in A. AMATUCCI (diretto da), Trattato di diritto tributario, 1994, pag. 293).

Indicare le fonti di prova non significa, quindi, confondere l’aspetto motivazionale con l’onere probatorio.

La prova non è elemento proprio dell’avviso di accertamento, in quanto rappresenta la dimostrazione della fondatezza della pretesa impositiva, che solitamente, salvo i casi di contraddittorio anticipato, avviene in fase contenziosa (G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, CEDAM, 2005, pag. 343; R. LUPI, Motivazione e prova nell’accertamento tributario, in Riv. dir. fin., 1987, pag. 282).

Se l’atto di accertamento è viziato per difetto di motivazione, perché è insufficiente nei dati essenziali, la produzione in giudizio della prova non assume valenza sanante ma consente, al più, solo lo scrutinio del giudice tributario sul se, nell’avviso di accertamento, siano state o meno trasposte le parti necessarie alla comprensione delle ragioni della pretesa (Cass. civ., Sez. V, ord., 21 febbraio 2018, n. 4180).

La prova resa in giudizio non salva l’atto impugnato dal vizio di motivazione (per riferimenti ampliativi del suddetto tema si permetta il rinvio a F. RUSSO, Vizio di motivazione e onere della prova nell’avviso di accertamento fondato su PVC a carico di terzo, in Il Fisco, 16/19, pag.1525-1533), dato che rende ancora più interessante il tema trattato, nel quale va capito sino a che punto un’insufficienza motivazionale possa auto validarsi nel corso del processo.

Sul punto la Corte di Cassazione annotata sviluppa un ragionamento coerente e chiaro, che se ben palettato alla fattispecie dedotta non consente dubbi od oscillazioni o, peggio, aperture verso le tesi sulla integrabilità della motivazione degli atti impositivi.

Ciò in quanto non solo gli atti di accertamento delle imposte dirette impongono una ben precisa motivazione ai sensi dell’art.42 del D.P.R. 600/73, ma anche gli atti d’accertamento e rettifica dell’IVA, come dispone l’art.56 del D.P.R. 633/72. Pari obbligo vale per altri atti sostanziali quali gli avvisi di rettifica e liquidazione dell’imposta di Registro, giusta l’art.52 del D.P.R. 131/86, norma replicata all’art.34 del D.lgs. n. 346/90 per quanto riguarda l’imposta di successione e donazione.

Non mancano gli atti della riscossione che, seppur in modalità succinta, devono essere motivati ai sensi dell’art.12 del D.P.R. 602/73.   

Sul terreno suo proprio, invece, ovvero della motivazione degli atti tributari non di natura impositiva, si pone il tema della integrabilità della motivazione. Su questo profilo la pronuncia appare lineare ma non piace, nella misura in cui considera la motivazione dell’atto solamente sotto il profilo della garanzia della difesa del contribuente, trascurando il vaglio del suo ruolo primario, che è quello di garantire la legittimità e la correttezza della funzione impositiva.

La sentenza non lascia presagire buone prospettive poiché demanda al giudice del merito il compito di stabilire se la motivazione sia ab initio manchevole e, quindi, non integrabile, oppure sia solo estremamente succinta e quindi successivamente ampliabile.

Se l’Ufficio è sovente l’attore sostanziale, deve compiutamente enunciare nell’atto impugnato i fatti costitutivi della pretesa e non può integrarli successivamente e, se ciò è vero, appare ancora più difficile separare nettamente l’ipotetica integrazione motivazionale dalle mere controdeduzioni.

Se i fatti fondamentali su cui si fonda l’atto devono essere presenti da subito e possono essere argomentati, illustrati ed anche meglio approfonditi nelle controdeduzioni, diventa arduo captare la misura di idoneità minima dell’atto che, seppur non espliciti tutti i suoi presupposti, palesi almeno quelli basici per consentire l’esercizio del diritto di difesa.

Il richiamo al giudizio di percepibilità della motivazione dilata a dismisura la discrezionalità del giudice di merito, libero di determinarsi con uno scrutinio totalmente soggettivo e variabile, censurabile in cassazione solo se manifestamente irragionevole.

La Corte enuncia un principio di diritto, nel senso che deve reputarsi erronea la motivazione della sentenza, la quale ha ritenuto sempre inammissibile l’integrazione della motivazione riportata nell’atto impugnato, senza interrogarsi sulle originarie indicazioni in esso contenute a garantire l’esercizio del diritto di difesa del contribuente e sulla percepibilità delle ragioni dell’atto tributario.

Seguendo questo arresto è censurabile l’operato del giudice di merito quando non valuti accuratamente se sussista la possibilità di specificare e chiarire i presupposti del provvedimento notificato.

La sentenza annotata, in definitiva, sembra dilatare pericolosamente il potere del giudice del merito che, viceversa, dovrebbe sempre più ispirarsi a creare indirizzi chiari, lineari, certi e orientanti e pare idonea a sviluppare una maggiore conflittualità che la compliance, la proliferazione degli strumenti deflattivi e la legislazione ultima sul contraddittorio preventivo tendono a smorzare.