Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

21/12/2021 - Inscindibilità del reddito societario e società tra professionisti

argomento: IRES - Giurisprudenza

  Il reddito societario è considerato unitariamente reddito d’impresa, al fine di richiamare un sistema di norme che consente la diretta misurazione del reddito effettivamente prodotto dalla società. Non si richiede che quel reddito derivi necessariamente da un’attività d’impresa. L’interprete non può, perciò, disapplicare la disciplina di determinazione del reddito societario a seconda delle caratteristiche dell’attività sociale, che sarebbe tra l’altro difficile verificare. Anche i redditi delle società costituite tra professionisti vanno dunque determinati secondo le norme sul reddito d’impresa. Una diversa opzione normativa, che avvicini le discipline del reddito d’impresa e di lavoro autonomo, è possibile – tenendo però presente che l’uguaglianza nell’imposizione va bilanciata con la semplificazione e la certezza del rapporto tributario, che l’attuale normativa già assicura.

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PAROLE CHIAVE: societa tra professionisti - inscindibilita reddito societario - natura reddito


di Daniele Canè

  1. Non capita spesso che Amministrazione e contribuenti concordino in fatto di tributi e che la giurisprudenza riesca a scontentare entrambi. La questione relativa alla natura dei redditi conseguiti dalle società tra professionisti (stp) ne offre un curioso esempio e – cosa importante in tempi di riforme – dimostra che l’incertezza, in questa complicata materia, non è sempre addebitabile al legislatore, cui si può talvolta solo chiedere di correre ai ripari.

È una di quelle questioni “piccole” per importi e contribuenti coinvolti – benché in aumento, le stp sono comunque poche – ma “grandi” per i problemi affrontati, che toccano istituti fondamentali dell’imposta reddituale e della disciplina sostanziale tributaria, in generale. Merita per questo, e per le ripercussioni che avrebbe, se ne fossero sviluppate tutte le implicazioni, di essere commentata.

  1. Secondo la sezione civile della Corte di cassazione, le stp producono reddito di lavoro autonomo quando manchi un’attività diversa e ulteriore rispetto all’apporto intellettuale; producono invece reddito di impresa «quando l’esercizio della professione costituisca elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, con prevalenza dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale, sicché il reddito prodotto non possa essere riferito al solo lavoro del professionista ma debba ritenersi derivante dall’intera struttura imprenditoriale».

In mancanza di una disciplina special-tributaria, vale, secondo la Corte, quella civilistica e, in specie, l’art. 2238 c.c., per cui si applicano anche le disposizioni relative alle imprese commerciali, se, appunto, l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa.

Mancando la prova di questa circostanza, è stato rigettato il ricorso – proposto al giudice civile – di uno studio legale, costituito come s.t.p.-s.r.l., che aveva agito verso il proprio cliente per il rimborso di ritenute trattenutegli sul presupposto, appunto, che i compensi costituissero redditi di lavoro autonomo (e non ricavi, come sosteneva lo studio).

  1. L’esercizio delle professioni in forma societaria è acquisizione recente, essendovisi a lungo opposto il principio della personalità della prestazione e il divieto della vecchia legge professionale, superato dal d.lgs. 96/2001, e poi dalle leggi 183/2011, sulle stp, e 247/2012, art. 4-bis, sulle società tra avvocati (sta).

La questione della natura del reddito delle stp nasce dal fatto che queste società producono per legge reddito d’impresa, ma svolgono in via esclusiva, o comunque prevalente, attività che, svolte in forma individuale o associata, produrrebbero redditi di lavoro autonomo. E, per un principio di uguaglianza (o neutralità) dell’imposizione, le si vorrebbe tassate come i professionisti (cenni alla “neutralità” della forma societaria rispetto all’attività in Miceli, La natura del reddito prodotto dalle società tra professionisti: un quadro generale, in Riv. tel. dir. trib., 21 giugno 2021, p. 4).

In effetti, tra le due discipline esistono tuttora significative – benché minori che in passato – differenze.

Il reddito complessivo delle società di tipo commerciale, personificate e non, è determinato unitariamente come reddito d’impresa, cioè per differenza tra ricavi e costi riferibili a tutti i cespiti appartenenti alla società (sul concetto di appartenenza, che definisce il perimetro dei beni relativi all’impresa, Pierro, Beni e servizi nel diritto tributario, Padova, 2003). Esso deriva dal conto economico, con assorbimento dei redditi derivanti dalle diverse fonti possedute dalla società, ed è quindi tassato alla maturazione e senza ritenute (che sarebbe complicato scomputare da imposte determinate per competenza).

I redditi dall’esercizio individuale o associato della professione sono invece determinati secondo le norme relative ai redditi di lavoro autonomo: sono dunque tassati alla percezione e i compensi soggetti, salvi regimi speciali, a ritenuta d’acconto dell’Irpef dovuta dal percipiente – di cui lo studio legale chiedeva appunto la restituzione (ricordiamo che si verteva in un giudizio civile).

Si aggiungono altre differenze, connesse sempre all’impiego della forma societaria ma indipendenti dalla qualificazione del reddito. I redditi prodotti in forma individuale o associata sono inclusi nel reddito complessivo soggetto all’Irpef, insieme agli altri redditi posseduti dal contribuente, mentre il reddito (complessivo) delle società di capitali sconta solo l’Ires, essendo i soci tassati sugli utili distribuiti. E anche se il prelievo su società e socio può superare l’imposizione Irpef sul professionista individuale, i soci della stp possono differire la tassazione fino alla distribuzione dell’utile, o al pagamento del compenso (se stipulano contratti di consulenza con la società). Il vero vantaggio della società di capitali tra professionisti consiste in questo, forse più che nell’eliminazione delle ritenute (che si applicano comunque ai compensi pagati dalla società al socio-professionista, che vi presti consulenza).

L’opzione normativa per la natura commerciale del reddito prodotto dalle stp/sta ha, perciò, effetti non irrilevanti per i professionisti che scelgano la forma societaria.

  1. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate aveva espresso un indirizzo uniforme, ribadito anche dopo questa decisione, a conferma del legame fra tipologia societaria – snc, sas e società di capitali – e reddito d’impresa (Ag. Entrate, risoluzioni 56/E/2006 e 35/E/2018; risp. interp. nn. 107 e 128/2018, confermate da circ. 23 luglio 2021, n. 9/E, e risp. interp. 600/2021; conf. Min. Econ. Fin. - Dip. Fin., nota 19 dicembre 2017, n. 43619). Mentre la diversa ris. 118/E/2003, che aveva concluso per il reddito di lavoro autonomo, muoveva proprio dal presupposto che la società tra avvocati exlgs. 96/01 fosse istituto atipico, perché riservato ai soli avvocati, anch’essi titolari di redditi di lavoro autonomo – a differenza delle stp e delle sta odierne, cui partecipano anche non professionisti (v. Schiavolin, Prime riflessioni sul trattamento della “neonata” società tra avvocati ai fini delle imposte sui redditi, in Riv. dir. trib., 2001, I, p. 1007; Covino, Lo strano ibrido delle società tra professionisti che svolgono attività professionale ma producono reddito d’impresa, in Tax News, 9 luglio 2020).

Questo principio discende dalle regole di determinazione del presupposto – artt. 6, comma 3, e 81, Tuir – che considerano la società centro di produzione di un reddito che si qualifica come d’impresa, «da qualsiasi fonte provenga», ed è «determinato unitariamente». I soci, professionisti e non, rilevano, in questo schema, come investitori (o compartecipi dell’attività della società di persone – non importa ora) e sono tassati sugli utili imputati o percepiti, a seconda che la stp sia una società di persone o di capitali.

L’interpretazione dell’Amministrazione era corretta e apprezzabile perché, fra l’altro, evitava il problema di distinguere, tra i redditi conseguiti dalla stp, quelli non derivanti da prestazioni professionali, non computabili nel reddito di lavoro autonomo (come i redditi di capitale, soggetti a regimi sostitutivi però previsti solo per persone fisiche ed enti non commerciali).

  1. Questa sentenza – unica sul tema – ha comprensibilmente scombussolato il mondo professionale e, in effetti, è criticabile per vari motivi, dove distingue la natura – e, quindi, determinazione e riscossione – dei redditi delle stp a seconda che vi concorrano, e in misura prevalente, fattori diversi dall’apporto intellettuale.

Nel metodo, anche aderendo all’autorevole tesi della diretta applicabilità del diritto comune (Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, ripresa da Piantavigna, La qualificazione del reddito nelle società tra professionisti, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, I, pp. 106-111, al quale la Corte attinge largamente, senza però contestualizzarne del tutto gli spunti), è dubbia la pertinenza della disposizione da cui si vorrebbe trarre quella distinzione, l’art. 2238 c.c., che contiene una norma di disciplina, non di qualificazione della fattispecie (dispone, infatti, che «[…] si applicano le disposizioni del Titolo II»). E comunque, contrariamente a quanto afferma la Corte, una disciplina tributaria è già prevista dagli artt. 6 e 81, che considera d’impresa, appunto, il reddito complessivo delle società commerciali, senza distinzioni, difficilmente gestibili, di oggetto sociale, attività o fattori produttivi – il cui contributo è valorizzato da norme specifiche (la deduzione Ace per il rendimento del capitale proprio o le agevolazioni patent box per i beni immateriali).

Non convince, poi, il parallelo con l’imposta regionale sulle attività produttive, che, secondo la Corte, confermerebbe il rilievo dell’organizzazione, quale scriminante fra reddito d’impresa, che la presupporrebbe, e di lavoro autonomo, che ne sarebbe privo – assunto peraltro contestabile, se si ritiene che i redditi professionali siano di lavoro autonomo anche se organizzati in forma d’impresa (Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, 10a ed., Torino, 2016, p. 76; per le varie tesi in merito, Zizzo, L’imposta sul reddito delle società, in Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte in Italia, 11a ed., Milano-Padova, 2016, p. 249, che nega rilevanza all’organizzazione per la nozione di reddito d’impresa). Nulla autorizza a desumere, dalla definizione del presupposto dell’Irap, una regola di qualificazione dei redditi conseguiti da società commerciali, in deroga alla disciplina esistente. L’Irap colpisce infatti non il reddito ma il valore aggiunto prodotto da tutte le attività autonomamente organizzate e dirette alla produzione o scambio di beni e servizi, svolte sia da professionisti che da società. L’autonoma organizzazione ne integra il presupposto perché fonte del valore aggiunto prodotto, cui l’imposta è commisurata, non quale indice di un’attività d’impresa.

Ma il vero problema è dove si presuppone che il reddito (complessivo) delle società commerciali sia d’impresa se ed in quanto conseguito tramite un’attività organizzata in forma d’impresa, e si prospetta la possibilità di scomporlo nei redditi producibili dai fattori che vi concorrono.

È il rovesciamento (scorretto) dell’idea, radicata in dottrina, secondo cui l’attività delle società commerciali si considera, per presunzione assoluta, d’impresa, dunque produttiva di reddito d’impresa (con vari argomenti: Micheli, Società di persone e società di capitali di fronte alla legge tributaria, in La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Padova, 1981, p. 49; Ficari, Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 23; Tassani, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Milano, 2007).

Ma, se si accetta che la disciplina del reddito d’impresa dipende dalla sola forma societaria (Zizzo, L’imposta sul reddito, cit., p. 257), ci si avvede che dietro queste qualificazioni, unitarietà e d’impresa, vi è (solo) l’opzione – legittima e consolidata dall’uso – per una particolare disciplina di determinazione dell’imponibile e riscossione dell’imposta (come indicava la l. delega 825/1971, dove la classificazione dei redditi era funzionale all’accertamento e alla riscossione). Disciplina concepita appunto per queste società, che risponde a preminenti ragioni di semplificazione e, soprattutto, certezza del rapporto tributario (sul regime d’impresa, come disciplina finalizzata a rilevare la ricchezza prodotta dall’impresa – e si aggiunge: di ogni tipo – Tinelli, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, p. 4; Fantozzi - Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, 2a ed., Milano-Padova, 2019; sulla contabilità societaria, come supporto per la rilevazione di redditi altrimenti difficili da quantificare nella loro effettività, Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2017, p. 401).

Il punto non è, cioè, la qualificazione in sé dell’attività della società, se è tra l’altro vero che, scartato l’elemento organizzativo, non residuano significative differenze tra attività di lavoro autonomo e d’impresa (Zizzo, L’imposta sul reddito, cit., p. 254); quanto la disciplina di rilevazione e determinazione della base imponibile, che si collega alla forma societaria. E, nell’imposta reddituale, vale la seguente: costituita la società, l’attività prestata dai soci ai terzi-clienti, per conto della stp, diviene un fattore come altri di produzione di un reddito sociale che è determinato unitariamente in base al bilancio (e sarà un costo deducibile, cui corrispondono i ricavi imponibili fatturati ai clienti, se il rapporto socio-società è regolato come consulenza; o un attivo patrimoniale, remunerato con utili sociali, se la prestazione è esecuzione del conferimento).

La presenza della società, col suo apparato contabile, non consente, perciò, di equiparare i relativi redditi a quelli conseguiti dai professionisti, che sono determinati secondo regole in avvicinamento ma ancora diverse e soggetti a diversi obblighi documentali (il discorso non cambia per le stp/sta costituite come società di persone, modificandosi solo l’imputazione del reddito).

I princìpi civilistici non sono, del resto, sempre applicabili al diritto tributario sostanziale, che si regge su princìpi rispondenti a valori propri e funzionali al suo particolare oggetto, la determinazione della ricchezza in funzione del concorso alle spese pubbliche – non la regolazione di rapporti fra privati (Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, 10a ed., Milano-Padova, 2017, p. 8; Lupi, Diritto amministrativo, cit., p. 23, ove si mette in rilievo la funzione impositiva, come oggetto di un diritto amministrativo speciale; Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta, Bologna, 2014, pp. 7-10; per l’autonomia del diritto tributario sostanziale, che regola i presupposti impositivi, anche Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, 13a ed., Milano-Torino, 2017, p. 10). E, scartato il problema della qualificazione dell’attività societaria, restano i princìpi sulla determinazione dell’imponibile, che va fatta unitariamente e secondo le norme sul reddito d’impresa, ossia in base a contabilità, competenza e valori effettivi.

L’inscindibilità, o unitarietà, del reddito societario, portato dell’inscindibilità del bilancio da cui deriva, è regola antica quanto l’imposta sui redditi di ricchezza mobile e concilia bene la semplificazione dell’accertamento e la precisa misurazione della capacità contributiva. Esigenze nate nella pratica – bisognerebbe ricordare com’era difficile controllare i redditi effettivi prima della contabilità societaria (riferimenti in Lupi, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988) – e che sarebbero frustrate se si dovesse verificare, per ogni società, come si produce il reddito e quindi scomporlo in tanti redditi quanti sono i cespiti produttivi – sempre diversi a seconda dell’attività sociale (sulle origini dell’inscindibilità-derivazione, nata per adeguare la determinazione dell’imposta all’esercizio amministrativo delle società di capitali, non sempre corrispondente all’anno solare: Sampieri Mangano, L’imposta di ricchezza mobile e le società commerciali per azioni, vol. II, Milano, 1936, p. 628; Fantozzi, Inscindibilità del bilancio e compensabilità delle perdite di gestioni esenti con utili di gestioni non esenti, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1972, II, p. 243; di recente sulla derivazione, Grandinetti, Il principio di derivazione nell’Ires, Milano-Padova, 2016).

Tant’è che gli articoli 6 e 81, Tuir, si riferiscono al reddito complessivo, che è la base imponibile, ossia ad un parametro che comprende già le diverse categorie reddituali, rispetto alla cui quantificazione soltanto rileva la natura della fonte produttiva (e quindi un’eventuale attività d’impresa).

D’altronde, l’inscindibilità del reddito societario non viene meno quando cambia l’imputazione soggettiva del reddito: si pensi alla trasparenza delle società personali e delle srl a ristretta base sociale, o delle società controllate estere (Cfc), il cui reddito è determinato unitariamente e imputato pro quota ai soci, ma sempre con le norme sul reddito d’impresa (che lo si chiami reddito di partecipazione non ne muta la sostanza: Boria, Il principio di trasparenza nell’imposizione delle società di persone, Milano, 1996, p. 274).

Né viene meno in presenza di vincoli di destinazione afferenti a una parte del patrimonio della società, come per le società che gestiscono fondi di investimento (patrimoni appunto autonomi, appartenenti alla società, formati dai o con i valori affidatile dagli investitori, che partecipano ai risultati del fondo). La norma che eleva i fondi ad autonomi soggetti passivi Ires – art. 73, 1° comma, Tuir – si è in effetti resa necessaria (anche) per superare l’inscindibilità del reddito della società di gestione, che avrebbe comportato la confluenza, nell’imponibile di questa, del reddito rilevato nel fondo, così alterando la misurazione della capacità contributiva della società, che non può disporre di quel reddito, e degli stessi partecipanti, che ne sono invece i beneficiari ultimi (altro esempio sono i patrimoni destinati a specifici affari, ex art. 2447-bis c.c., per i redditi prodotti dai quali non è invece stata prevista alcuna separazione fiscale).

Tutto ciò conferma che il bilancio della società, di capitali come di persone, resta la base di commisurazione di un imponibile che non può scindersi nei redditi dei cespiti che le appartengono.

  1. Pur apprezzabile nell’intento di tassare le stp come i professionisti (in dottrina: Ficari, La società fra avvocati nell’imposizione sul reddito: spunti per una discussione, in trib., 2002, p. 891; Piantavigna, La qualificazione, cit., p. 88) – comunque irrealizzabile, data la presenza di regimi forfettari per i secondi – il principio stabilito dalla Cassazione innesta nell’imposta un cambiamento che ne richiederebbe molti altri, ma che il legislatore non vi ha impresso e che lui solo può decidere.

Infatti, la disciplina del reddito d’impresa si applica anche a “società senza impresa”, come quelle di comodo (Stevanato, Società di comodo, orrore senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio?, in Dial. trib., 2014, p. 143), mentre non sono mai state attuate le deleghe che impegnavano il Governo a qualificare come di lavoro autonomo i redditi prodotti dalle stp.

La scelta del legislatore privilegia la precisa rilevazione degli imponibili, dà certezza a fisco e contribuenti e non dimentica le ragioni dell’uguaglianza. In presenza di società dedite ad attività soggette a discipline fiscali particolari, è stata infatti adattata la determinazione dell’imponibile: le società agricole ex art. 1, commi 1093-4, l. 296/2006, applicano criteri para-catastali propri del reddito agrario, benché costituite come società commerciali; mentre istituti come la participation exemption non operano quando la società è costituita non per generare redditi ma per detenere patrimoni immobiliari privati (in tema, Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, Torino, 2013).

È, dunque, un’opzione non irragionevole e legittima, perché frutto di un bilanciamento effettivo tra i diversi valori sottesi alla disciplina tributaria: uguaglianza, semplicità e precisa misurazione della capacità contributiva, certezza del rapporto tributario, cautela fiscale (cfr. De Mita, Principi di diritto tributario, 7a ed., Milano, 2019, p. 93; Lupi, Fiscalità analitica e giurisprudenza costituzionale, in Perrone - Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, p. 417). Si può mettere in discussione, ma a prezzo di una forse non rinunciabile certezza e semplificazione del rapporto tributario – e comunque non a colpi di sentenze (per un recente, e più ampio, tentativo di valorizzazione dei dati sostanziali su quelli formali, Ronco, Forma commerciale e impresa nell’imposizione sui redditi, Pisa, 2021).

L’approccio della Cassazione crea, difatti, incertezza e non è coerente, confondendo il reddito complessivo coi singoli redditi che lo compongono e non tenendo conto della possibile partecipazione di soci investitori-non professionisti, che non esercitano attività professionale e conseguono redditi di capitale.

Genera, inoltre, diverse incongruenze, perché impegna a distinguere i redditi non professionali percepiti dalla stp, che non possono certo assorbirsi in un ipotetico “reddito societario di lavoro autonomo”, ma vanno determinati, e in molti casi tassati, separatamente: redditi di capitale, ad esempio, tassati per cassa e in regimi sostitutivi con aliquote diverse, che richiederebbero una contabilità apposita (peraltro, mancano previsioni sulle ritenute relative agli utili percepiti da società commerciali, che andrebbero pertanto dichiarati dal percipiente).

Per non dire della difficoltà di adattare a società che non producono reddito d’impresa le norme sulla neutralità delle operazioni straordinarie, che presuppongono una corrispondenza tra questo e forma societaria, (forse) recuperabile solo in via interpretativa: prospettando, ad es., l’estensione al reddito di lavoro autonomo dei princìpi di neutralità e continuità del valore fiscalmente riconosciuto dei beni relativi all’impresa, che sembra comunque sostenibile in presenza di una contabilità adeguata (per un’introduzione a queste riflessioni, Lupi, Profili tributari della fusione di società, Padova, 1989, mentre in senso negativo: Ag. Entrate, risp. interp. n. 107/2018, e A.M. Gaffuri, Le società tra professionisti. Aspetti tributari, in Soc., 2019, p. 1210). Mancano, inoltre, criteri positivi per stabilire la prevalenza dell’organizzazione rispetto alla prestazione intellettuale.

D’altro canto, non sembra necessario l’intervento del legislatore, invocato da molti (CNDCEC, circ. 19 settembre 2013, n. 34/IR, p. 6; Miconi, Società tra avvocati. Reddito di impresa o reddito di lavoro autonomo?, in Riv. trim. dir. trib., 2018, p. 152; Gavelli, Le società tra avvocati realizzano reddito di impresa, in Corr. trib., 2018, p. 1941; A. La Rosa, I redditi delle società tra avvocati, ivi, p. 910), che qualifichi tout court come di lavoro autonomo i redditi delle stp. La disciplina del reddito d’impresa pare in effetti consentire una maggior precisione rispetto a quella sul reddito di lavoro autonomo, perché misura valori che sfuggono alla seconda: si pensi ai lavori in corso di esecuzione, relativi ai mandati non terminati, o alle rimanenze riferibili a un ipotetico “magazzino mandati”, che non assumono rilievo nel reddito di lavoro autonomo, se non al pagamento.

  1. Meglio, per ora, lasciare ogni norma “al suo posto” e limitarsi a coordinare la disciplina previdenziale, o ad aggiustamenti marginali, che attenuino gli svantaggi del criterio di competenza, connesso al regime d’impresa, e, più in generale, avvicinino quest’ultimo al regime dei professionisti. Finché le due discipline non saranno unificate, si potrebbe cioè, da un lato, consentire l’accesso alla contabilità semplificata, e al regime misto di cassa-competenza che ne deriva, alle stp costituite come società di capitali; dall’altro, eliminare l’incompatibilità tra partecipazione alle stp e regime forfettario – forse opportuna per evitare salti d’imposta ma non ragionevole, trattandosi di un regime naturale per chi ne possieda i requisiti (pare questa la soluzione più opportuna, non potendosi avvicinare norme di determinazione dell’imponibile profondamente diverse).

Si eviterebbero cortocircuiti come questo, in cui a rimetterci è solo il contribuente: lo studio legale dovrà pagare le imposte anche sulle somme ritenute, che non potrà però recuperare né dal cliente-sostituto, ostandovi questa sentenza, né direttamente in dichiarazione, senza rischiare una sanzione che, visto l’attuale orientamento amministrativo, pare inevitabile (resta solo la procedura di rimborso ex art. 38, d.p.r. 602/73, con le lungaggini che comporta). Si potrebbe dire che l’affidamento nell’interpretazione amministrativa gioca qui contro il contribuente, o che il diritto, se distorto, “si vendica” e si ritorce contro l’interprete (come scrive Giovannini, Il diritto tributario per princìpi, Milano, 2014, p. XIV).

Ringraziano i clienti-sostituti d’imposta che, fino a possibili revirement, si finanzieranno “a costo zero” con ritenute che non devono, secondo l’Amministrazione, versare – ma di cui potrebbero a loro volta dover chiedere la restituzione, secondo l’esito dei giudizi instaurabili, in sede civile, dalle stp/sta-sostituite.

Con buona pace della certezza del diritto tributario, oltre che di un istituto che “ingranava” proprio ora – si registrava, nell’ultimo biennio, un aumento dell’ottanta per cento delle stp – ma che questa decisione potrebbe affossare definitivamente. A meno di modifiche normative stavolta sì, visto l’impasse, forse desiderabili.