Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

09/09/2021 - RELAZIONE - Cinque pezzi (non) facili: premesse per una riforma fiscale delle imposte sui redditi

argomento: Principi generali e fonti - Legislazione e prassi

PROPOSTE DI RIFORMA FISCALE - Documento presentato in Parlamento nell’ambito degli studi conoscitivi sulla riforma del sistema tributario italiano.

PAROLE CHIAVE: riforma - redditi - modifiche


di Massimo Basilavecchia

Sommario: 1. Premessa 2. Restituire chiarezza al dato normativo 3. L’ambiente nel quale collocare le imposte sui redditi rinnovate: 3.1. spese fiscali 3.2. federalismo fiscale 3.3. rapporti con altre imposte 3.4. un’analisi complessiva sui singoli settori economici 3.5. futuri tributi europei 4. L’imposta sul reddito delle persone fisiche; individuo o nucleo 4.1. Quale reddito complessivo 4.2. Le singole categorie.

  1. Premessa.

Un sentito ringraziamento ai Presidenti e alle commissioni riunite per l’opportunità di esprimere alcune considerazioni a titolo personale sulle esigenze di riforma del sistema di imposizione sui redditi. L’impegno del Parlamento, il cui ruolo è spesso sacrificato in nome delle esigenze di adozione immediata di manovre di finanza pubblica, è apprezzabile ed essenziale.

Farò riferimento, essenzialmente, a questioni di carattere metodologico nella prospettiva non di interventi manutentivi dell’imposizione sul reddito, ma nell’ottica di una grande riforma; ponendo particolare attenzione al tema delle modalità di produzione delle norme tributarie, riprendo opinioni da me espresse in un articolo pubblicato sul Sole 24 ore del 16 ottobre 2020, nel quale invocavo un impegno del Parlamento (“con un contributo importante da parte di un Parlamento incoraggiato a impegnarsi su aspetti strutturali e di ampio respiro”) del quale le audizioni in corso sono una incoraggiante dimostrazione.

Le indicazioni che seguono non hanno alla base l’analisi dei dati quantitativi di gettito, su cui si sono soffermati sia le istituzioni, sia gli studiosi di discipline economiche che mi hanno preceduto; esse non proporranno soluzioni di dettaglio, quanto piuttosto una verifica delle condizioni necessarie a raggiungere le soluzioni più idonee e, possibilmente, largamente condivise.

Non viene neanche ripreso il tema della crisi di identità dell’IRPEF, che, pure con impostazioni assai diverse, è unanimemente riconosciuta dagli addetti ai lavori e soprattutto è percepita dai contribuenti, anche da coloro che si avvantaggiano di discipline agevolate; si dà per presupposto che crisi vi sia e che essa ponga in dubbio l’identità del tributo.

In definitiva, si indicheranno alcuni punti preliminari sui quali è indispensabile che il legislatore faccia chiarezza; la terribile emergenza che stiamo vivendo impone di progettare (alla stregua di un periodo post bellico) una fiscalità che sia adeguata alle sfide del futuro: è un lavoro approfondito, lungo, complessivo, che non può risentire delle contingenze legate alle singole leggi di bilancio; come è stato detto con lapidaria chiarezza dal Presidente Draghi nel discorso di insediamento, una riforma seria non può considerare isolatamente un singolo settore impositivo e va pensata con un ampio tavolo di lavoro, come accadde, cinquant’anni fa, con la lunga gestazione della legge delega n. 825 del 1971 poi attuata dai decreti delegati che sono ancora l’ossatura del nostro sistema. Le audizioni in corso sono un buon esempio di coinvolgimento, che a livello governativo potrebbe tradursi nella costituzione di commissioni di esperti e di istituzioni (quale ad esempio il CNEL).

Peraltro, l’ultima miniriforma fiscale (legge delega n. 23 del 2014 e decreti attuativi del 2015) proprio con il contributo del Parlamento ha introdotto misure strutturali certamente positive, anche se parziali, soprattutto sotto il profilo del rapporto fisco contribuente e della fiscalità internazionale.

E’ un lavoro utile, anche al di là delle mutevolezze delle maggioranze parlamentari; delineate infatti con chiarezza le opzioni sulle quali scegliere, prevarrà l’opzione che avrà il consenso maggiore, ma sulla base di una prospettiva di ampio respiro; è forse utopistico, ma non per questo si può rinunciare ad auspicarlo, che almeno su alcune linee di fondo il consenso sia trasversale così come la crucialità del momento sembra richiedere.

 

  1. Restituire chiarezza al dato normativo.

Pur nella consapevolezza che la costruzione di un sistema tributario equo ed efficiente non può produrre una legislazione semplice e nemmeno snella, appare però prioritario restituire una centralità alla normazione di base.

Non credo che sia utile parlare di codice tributario e soprattutto non credo sia utile a proposito della disciplina delle singole imposte, che per sua natura deve adattarsi ad una realtà economico sociale che cambia rapidamente.

Però la centralità di un testo base, sulle singole imposte, è essenziale a dare, anche per il contribuente meno assistito, chiarezza e leggibilità al sistema, e in definitiva e renderlo trasparente. 

Tale opera di “semplificazione” è possibile e urgente sotto due profili: quello della tecnica legislativa – il rilievo comprende la necessità di estrarre dalle leggi di bilancio le modificazioni delle norme tributarie affidandole ad una più accurata redazione in momenti meno caotici – e quello delle regole generali sull’attuazione dei tributi (auspicio direi unanime).

Sotto questo secondo aspetto, un enorme contributo al miglioramento dei rapporti contribuente fisco, al contrasto all’evasione, al recupero di un primato del legislatore sulla prassi e sulla giurisprudenza, deriverebbe ad esempio da una legislazione di principio sulle procedure di accertamento, di riscossione, di rimborso, sanzionatorie, oltre che da una ormai ineludibile riforma dell’organizzazione degli organi della giurisdizione tributaria (per la quale sembra mostrare interesse anche il Ministro della Giustizia).

Le aspettative di risultato dalla lotta all’evasione non dovrebbero ad esempio trovare espressione nella modifica di regole procedimentali che rendano meno agevole la difesa in giudizio del contribuente.

Quanto al primo aspetto, nella legge di bilancio andrebbero quanto più possibile evitate le modifiche di sistema, quelle che si definivano norme ordinamentali, affidando i risultati in termini di gettito non ad estemporanee modifiche specifiche della tassazione, quanto a variazioni essenzialmente numeriche. Modifiche alla struttura dei singoli tributi dovrebbero, salvo casi eccezionali, star fuori dalla legislazione di “manovra”, spesso approvata ponendo la fiducia.

 

  1. L’ambiente nel quale collocare le imposte sui redditi rinnovate.

Prima di sciogliere alcuni nodi strutturali dell’attuale IRPEF, è necessario che un’opera di riforma valuti il contesto nel quale la stessa dovrebbe calarsi. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ridurre il peso dell’IRPEF rispetto al gettito complessivo delle imposte, riducendo così anche l’incidenza dell’evasione e alleviando le responsabilità di questa imposta.

3.1. Una prima operazione attiene alle spese fiscali; la miriade esistente di misure sottrattive o agevolative (anche solo per il settore imposte sui redditi), ulteriormente implementate in epoca covid, rappresentano una zavorra il cui costo va quantificato e messo a confronto con quello che deriverebbe da un generalizzato abbassamento delle aliquote; la fiscalità basata su incentivi settoriali consente flessibilità e manovre ispirate anche dagli obiettivi elettorali, ma condiziona e impedisce un discorso di più ampio respiro sulla possibilità di limitare il prelievo per tutti – nel rispetto della progressività – restituendo risorse alla collettività e riducendo le distorsioni.

Il sistema fiscale si è caricato, soprattutto attraverso i crediti d’imposta di carattere agevolativo, del compito di sostituire la concessione e l’erogazione di finanziamenti pubblici, incentivando un “fai da te” inizialmente appetibile per il contribuente, ma poi spesso, per effetto di interpretazioni restrittive delle agenzie con documenti di prassi o peggio in sede di controllo, destinato a trasformarsi in un boomerang dalle conseguenze pesantissime; oltretutto incorrendo nell’obbligo di notifica previsto per gli aiuti di stato e nei conseguenti rischi di valutazione negativa della misura.

Sarebbe di grande utilità se il Parlamento chiamasse a riferire, annualmente, i vertici delle Agenzie sia sulla efficienza economico sociale delle misure agevolative sia sulle problematiche emerse in sede di applicazione concreta dei crediti d’imposta.

Va compiuta una scelta: o si prosegue così, con agevolazioni ispirate di volta in volta da esigenze anche apprezzabili (si pensi all’art bonus), o si procede ad un censimento con selezione rigidissima delle sole misure effettivamente essenziali nell’ottica del bilancio pubblico, destinando il risparmio di spesa a finanziare un alleggerimento generale del carico irpef.

3.2. Un secondo punto preliminare riguarda il c.d. federalismo fiscale, caratterizzato ancor oggi da una salda (ed eccessiva, a mio avviso) direzione a livello centrale delle entrate degli enti territoriali.

Soprattutto per l’incidenza che la coesistenza di prelievi ha nel settore immobiliare, occorre una verifica dello stato dell’arte; e se si affida alla fiscalità periferica il ruolo principale nella tassazione degli immobili, sarebbe giustificato tenerne conto nel ridisegnare la fiscalità statale: oggi questo avviene solo in parte, ma le interconnessioni, come insegna la recente giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di deducibilità dell’IMU nel reddito d’impresa, sono ineludibili.

3.3. Un terzo punto riguarda le relazioni, anche numeriche, tra imposte sui redditi e altre imposte, a partire dalle imposte indirette, queste ultime in larga parte connesse a trasferimenti immobiliari e destinate a colpire, in linea di massima, gli acquirenti dei beni. Mentre l’imposta di registro ha una sua incidenza significativa, ed è abbastanza sofferta dai contribuenti, che quando possono si rifugiano nelle numerose fattispecie agevolative previste, scarsa appare l’incidenza del tributo successorio, soppresso come noto nel 2001 e reintrodotto, in forma mite, nel 2006.

Con un’importante sentenza dell’estate scorsa la Corte costituzionale, anche se a proposito di una norma agevolativa che non avrebbe meritato le critiche rivoltele, ha indirettamente segnalato la lacuna ordinamentale, in termini di mancata o inadeguata tassazione di una capacità contributiva difficilmente contestabile, derivante dalla attuale disciplina dell’imposta.

Vi è poi il rapporto con l’IRAP su imprese e autonomi, che deve essere verificato in una valutazione complessiva del prelievo gravante su autonomi (imprenditori e professionisti).

3.4. Il discorso si sposta così su un quarto punto che a me pare assolutamente centrale: quello sulla necessità di condurre un’analisi trasversale su singoli settori economici. Sia per valutare all’interno dell’IRPEF situazioni distorsive da eliminare, sia per valutare l’incidenza complessiva del prelievo fiscale.

Da questo secondo punto di vista si può ragionare o in termini di priorità dell’imposizione reddituale rispetto ad altre imposizioni, ovvero al contrario (come ad esempio accade se, sulla fiscalità degli immobili, si riconosce una naturale riserva alla fiscalità locale, che si esprime in termini patrimoniali, rispetto all’imposizione reddituale).

Quanto alle distorsioni interne all’IRPEF, occorre domandarsi ad esempio come raggiungere un’equità, nel colpire i redditi da attività ricettive, distinguendo le attività imprenditoriali vere e proprie (ancorché collegate ad ambiti familiari e all’agricoltura) da quelle riconducibili esclusivamente alla gestione di un patrimonio familiare.

3.5. Come è stato auspicato da Franco Gallo più volte, è possibile che nel quadro post emergenziale emergano tributi propri di matrice europea.

Questa tendenza dovrebbe essere sostenuta e incoraggiata dallo Stato italiano, perché potrebbe produrre un gettito aggiuntivo, da entrate nuove, con il quale compensare una mitigazione del carico gravante sulle imposte sui redditi.

Le imposte europee dovrebbero colpire settori molto importanti e centrali: sia l’economia digitale, la cui tassazione efficiente e razionale non può avvenire su base nazionale, sia quelle attività inquinanti da disincentivare, in funzione di una prossima green economy.

Anche se l’incremento del numero dei tributi è in genere considerato negativamente, occorre riflettere sulla possibilità che tipologie di entrate nuove (si pensi all’accesso alle città d’arte, ai ticket d’ingresso per veicoli inquinanti) assumano un peso crescente nella distribuzione del gettito e valutare quali categorie di contribuenti saranno colpite, anche attraverso la traslazione, da tali tributi.

 

  1. L’imposta sul reddito delle persone fisiche.

Un punto si impone a mio avviso su tutti gli altri, dato che i moniti della Corte costituzionale, a riguardo, risalgono ad almeno trent’anni fa (se non addirittura cinquanta, considerando come momento dies a quo la sentenza del 1976 sul cumulo dei redditi).

Si tratta della necessità di tener conto, senza venir meno alla riferibilità al singolo contribuente del reddito posseduto, della composizione del nucleo familiare che gode dei redditi tassabili. Intendo per nucleo familiare, per evitare ipotesi di disparità di trattamento, non solo quello tradizionale legato al matrimonio, ma anche, quanto meno, quello derivante dalle unioni civili formalizzate secondo legge.

Ci sono metodi adottati dai paesi europei a noi vicini, sui quali non mi soffermo anche perché ne hanno parlato altri studiosi: ma è certo che la considerazione del nucleo familiare è urgente e a mio avviso inevitabile, anche in una logica di coordinamento con le misure assistenziali. 

4.1. Quale reddito complessivo.

L’evoluzione delle esigenze di finanza pubblica impone che le imposte sui redditi siano in parte ridimensionate quanto a contributo al gettito tributario globale. L’orientamento prevalente, conforme alla Costituzione, non va nella direzione dell’abbandono della progressività, ma di un suo recupero su basi diverse. Questa è anche la mia opinione: la progressività si attua essenzialmente attraverso le aliquote.

Tuttavia, discutere di aliquote non pare sufficiente, se non viene ricostruita la base imponibile, sia all’interno delle categorie reddituali, sia nell’ottica della determinazione del reddito complessivo.

La scelta da compiere dovrebbe contrapporre da un lato il ritorno ad una maggiore ampiezza della base imponibile, con il recupero di buona parte dei redditi attualmente sottratti alla progressività, dall’altra la persistenza di un sistema duale, nel quale a rigore solo i redditi di lavoro – attualmente, non tutti – sono soggetti alla progressività.

Il primo stadio deve dunque stabilire quale imponibile tassare, se restituire un senso effettivo alla nozione di reddito complessivo o se lasciare nel territorio dell’imposizione sostitutiva tutti, o alcuni, dei redditi attualmente colpiti con tale modalità proporzionale (potrebbero addirittura aggiungersi altre fattispecie, come le pluvalenze immobiliari).

Ci sono ragioni pro e contro per ciascuna delle opzioni in campo, che non sono del resto nemmeno così frontalmente contrapposte; anche nell’ottica di un recupero di entrate al reddito complessivo, infatti, è difficile immaginare che i redditi di capitale (e finanziari in genere; vs. infra), ad esempio, possano abbandonare la strada della tassazione sostitutiva.

La progressività, pertanto, è destinata a rimanere parziale: tuttavia, un recupero al reddito complessivo tassabile di alcune ipotesi attualmente escluse non sembra possa essere evitato, se si adotta la prima delle due opzioni. Perché il recupero alla progressività di taluni redditi possa essere effettuato, tuttavia, occorre che la incidenza del tributo, sui redditi medi, scenda in modo apprezzabile; e dunque le scelte in materia di base imponibile devono trovare uno sviluppo coerente in sede di aliquote e poi essere coordinate con le imposte sul patrimonio.

Percorrendo invece la strada della dualità, occorre interrogarsi sulla tassazione proporzionale concessa ad alcune tipologie di retribuzione del lavoro dipendente e soprattutto all’aliquota agevolata per autonomi di fatturato fino a 65.000 euro; queste due esclusioni dalla base imponibile non trovano infatti giustificazione nella derivazione del reddito da risparmio, e dunque ne va individuata la giustificazione e vanno riconsiderate, in un riassetto complessivo delle due categorie di reddito specificamente riferite al lavoro.

In ogni caso, anche la tassazione duale, per rendere meno arbitrario il sistema, richiede un intervento mitigatore sulle aliquote, soprattutto con riferimento al terzo scaglione. Avvicinando l’aliquota media a quella applicata nelle tassazioni sostitutive (che a loro volta andrebbero tendenzialmente parificate).

4.2. Le singole categorie.

Nell’ottica di una riforma strutturale, il disegno dei confini tra le categorie reddituali non può rimanere quello di cinquant’anni fa.

Le attività produttive nell’agricoltura hanno un confine molto più sfumato, in molti casi, rispetto alla attività commerciale in senso stretto; in molti casi la tassazione su base catastale non appare ragionevole né equa.

Le trasformazioni sopravvenute nei rapporti di lavoro – esperti del diritto del lavoro e della sociologia del lavoro andrebbero coinvolti in questa parte del lavoro di riforma – richiedono una riconsiderazione complessiva, sia interna alle due categorie del lavoro autonomo e del lavoro subordinato, sia nelle interrelazioni reciproche. La instabilità propria del lavoro autonomo caratterizza spesso da tempo anche il lavoro subordinato, mentre vi è una consistente fascia di rapporti di lavoro che si colloca ambiguamente a metà strada tra subordinazione e autonomia (si pensi al caso riders).

Al reddito di lavoro dipendente si applicano le stesse regole sia che si tratti di un operaio o di un impiegato esecutivo pubblico, sia che si tratti di un manager.

Nel lavoro autonomo da arti e professioni, ad una larga fascia di professionisti ancora autoorganizzati (o quasi), si contrappone la presenza di grandi studi, impostati in forma imprenditoriale. Vi sono più tratti comuni tra piccoli imprenditori e professionisti “individuali”, oppure tra grandi studi e imprese, che non all’interno della categoria.

Occorre progettare una disciplina che possa cogliere (e magari prevenire) le trasformazioni in corso della società e delle professioni.

Sui redditi di natura finanziaria, è condivisibile, anche per la semplificazione che comporterebbe, la unificazione in una sola categoria delle ipotesi attualmente divise tra redditi diversi e redditi di capitale.

Sul reddito d’impresa, andrebbero seriamente considerate le ipotesi alternative di determinazione dell’imponibile, basate sui flussi di cassa, sulle quali da tempo si sofferma la dottrina (Versiglioni). Si tratta di una tendenza esattamente opposta a quella attuale, che punta sulla derivazione rafforzata, ma che potrebbe evitare i conflitti interpretativi che continuano a caratterizzare il rapporto tra fisco e imprese. La difficoltà maggiore sta nel confronto con la fiscalità degli altri paesi, la quale però è anch’essa soggetta a processi evolutivi, confermati dalla lentezza con la quale procede il progetto di basi imponibile comune adottato a livello europeo. In alternativa, può pensarsi ad un ulteriore consolidamento e ad una estensione della derivazione rafforzata del reddito dal bilancio civile.

 

[1] 

* Il presente testo in quanto relazione presentata in Parlamento nell’ambito degli studi conoscitivi sulla riforma del sistema tributario italiano non è stato sottoposto a revisione.