Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

04/12/2020 - Destinazione a finalità estranee e comodato al socio: la Cassazione sposa una discutibile interpretazione estensiva

argomento: IRES - Giurisprudenza

La Cassazione ritiene che l’art. 86 co. 1 lett. c) T.U.I.R. (destinazione dei beni a finalità estranee all’esercizio dell’impresa) includa tra le fattispecie che danno luogo a plusvalenze patrimoniali qualsivoglia fuoriuscita del bene dalla sfera dell’impresa, anche in assenza del mutamento della titolarità del bene medesimo. Sulla scorta di tale principio di diritto la Corte ha ritenuto che l’uso dell’immobile da parte del socio, in assenza di corrispettivo, riguardando un bene strumentale, dia luogo a plusvalenza tassabile, anche qualora la società conservi la proprietà del cespite.

» visualizza: il documento (Cass. n. 15753 del 23 luglio 2020 ) scarica file

PAROLE CHIAVE: destinazione a finalità estranee - plusvalenze - beni immobili - comodato - beni strumentali


di Silvia Giorgi

  1. L’ordinanza n. 15753 del 23 luglio 2020 della Corte di Cassazione è di estremo interesse, per almeno due principi di diritto: l’uno sull’interpretazione della fattispecie della destinazione a finalità estranee ex art. 86 T.U.I.R.; l’altro sulla nozione di “beni strumentali”, in quanto, secondo la Suprema Corte, per una società immobiliare l’attività di locazione a terzi degli immobili rientra pienamente nell’oggetto dell’attività di impresa e, pertanto anche il fabbricato a destinazione abitativa non è “bene meramente patrimoniale” ma “bene strumentale”, con conseguente deducibilità delle quote di ammortamento.

In questa sede, tuttavia, ci si concentrerà esclusivamente sul primo principio evidenziato, con cui la Corte di Cassazione vira verso un’interpretazione estensiva e recisamente antiformalista della fattispecie di cui all’art. 86 co. 1 lett. c) T.U.I.R., che, com’è noto, annovera tra le ipotesi fiscalmente rilevanti ai fini dell’individuazione di plusvalenze patrimoniali (tra i contributi monografici, Falsitta, Studi sulla tassazione delle plusvalenze, Milano, 1991, p.161; Miccinesi, Le plusvalenze d’impresa. Inquadramento teorico e profili ricostruttivi, Milano, 1993) quella della “destinazione dei beni a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”. Tale fattispecie è generalmente considerata una norma di chiusura del sistema che mira a recuperare, tra le componenti positive, il valore del bene, anche in assenza di un corrispettivo, posto che il medesimo ha già concorso alla formazione del reddito, sul versante delle passività. Com’è noto, in sostituzione del corrispettivo, viene tassato il valore normale del bene all’atto della sua fuoriuscita così da rappresentare l’effettivo incremento di valore sino ad allora maturato, oltre che controbilanciare le passività (Miccinesi, Le plusvalenze d’impresa, cit., p. 158).

Secondo parte della dottrina, la norma soddisfa una esigenza distinta da quella che ispira le norme sulla “realizzazione”, senza per questo poter essere qualificata in termini “eccezionali”. Alla base, infatti, vi starebbe il principio per cui “la mancata considerazione del valore o del maggior valore dei beni “destinati” alla soddisfazione di interessi e bisogni estranei all'esercizio dell'impresa pregiudicherebbe una corretta determinazione dei risultati di quest'ultima” (A. Fedele, Riorganizzazione delle attività produttive e imposizione tributaria, in Riv. Dir. trib., 2000, p. 489).

Con riferimento all’interpretazione della generica formula legislativa, la dottrina confrontatasi sul tema è raggruppabile in tre principali orientamenti e la stessa Corte di Cassazione, nella pronuncia in commento, ne richiama espressamente due.

Il primo, è quello che, per semplicità espositiva, si potrebbe definire restrittivo-formalista: la destinazione a finalità extra-imprenditoriali presuppone la definitiva fuoriuscita del bene dal circuito imprenditoriale e, quindi, il mutamento della titolarità del bene medesimo. Sulla scorta di tale orientamento – citato ma non accolto dalla Suprema Corte – quando i beni, non più strumentalmente impiegati nel ciclo produttivo dell’impresa, continuano ad appartenere alla società, mantengono la loro qualità di beni relativi all’impresa e, dunque, i contratti con cui di trasferisce solo temporaneamente la disponibilità del bene a terzi (locazione, comodato, affitto …) non integrano il presupposto di cui all’art. 86 co. 1° lett. c). In altri termini, è necessario che il bene perda la propria qualità di bene “relativo all’impresa”, ai sensi dell’art. 65 T.U.I.R. e, con riferimento alle società, esca dal patrimonio societario, attraverso la cessione della proprietà o di altro diritto reale che qualificava il bene come appartenente all’impresa (T. Tassani, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sul reddito, Milano, 2007, p. 217.)

Secondo un secondo orientamento – estensivo sostanzialista – sposato dalla Cassazione, deve essere valorizzato l’elemento letterale della generica “destinazione” del bene all’esercizio dell’impresa e la sua rilevanza sistematica quale fattispecie di chiusura a cui deve essere ricondotto qualsiasi caso di volontaria sottrazione del bene alla sfera dell’impresa con devoluzione ad altra finalità, a prescindere sia dal mutamento di titolarità, sia dalla definitività dell’estromissione del bene dal patrimonio d’impresa.

Vi è, poi, un terzo orientamento, cui la Cassazione non accenna, che si potrebbe definire restrittivo – speciale, in quanto volto a circoscrivere la fattispecie della destinazione extra-imprenditoriale, valorizzandone la differenza rispetto alle ipotesi della destinazione al consumo personale o familiare dell’imprenditore e dell’assegnazione ai soci (Versiglioni, Profili tributari della cessione gratuita dei beni relativi all’impresa, in Riv. Dir. fin., 1992. I, p. 481; Nussi, Ancora sul regime dei beni d’impresa: trasferimenti gratuiti d’azienda e imposte sui redditi in Riv. Dir. trib., 1997, I., p. 603). La fattispecie escluderebbe, in particolare, tutti i fenomeni traslativi, in quanto la “destinazione” si appunterebbe sulla funzione e non già sulla titolarità dei cespiti.

 

  1. Come detto, la pronuncia in commento sposa l’interpretazione che conferisce alla fattispecie la massima latitudine possibile, assegnandole il ruolo di “chiudere ogni varco alle fuoriuscite di beni dal ciclo impositivo senza applicazione del tributo sul relativo plusvalore maturato”. La Corte stessa proclama tale interpretazione come “letterale e sistematica”.

Invero, per quanto dal punto di vista meramente letterale la formula della “destinazione” si presti certamente ad un contenuto quanto mai lato, dal punto di vista sistematico non sembra del tutto condivisibile svalutare così apertamente il carattere definitivo e irreversibile del mutamento di destinazione (per tutti, insistono sull’irreversibilità dell’estromissione, Fantozzi – Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Milano, 2019, p.151).

Ciò che, infatti, accomuna le diverse fattispecie (di realizzo o estromissione) di cui all’art. 86 T.U.I.R. è la definitività e irreversibilità del passaggio del bene dal patrimonio della società a quello dei soci. Diversamente opinando e, dunque includendo anche fattispecie con effetti meramente temporanei, si chiude sì ogni varco ad un’uscita fiscalmente irrilevante dei beni dal ciclo d’impresa, ma si aprono altre falle nel sistema.

L’interpretazione accolta dalla Cassazione sembra, infatti, contraddistinta da un sostanzialismo esasperato, animato da ratio antielusiva, ma certamente distonico sia rispetto alla distinzione civilistica tra diritti reali e diritti obbligatori, sia rispetto allo stesso principio di prevalenza della sostanza sulla forma, così come declinato nel sistema del reddito d’impresa (Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, Milano, 2019). Equiparare seccamente le fattispecie che determinano un mutamento di destinazione solo temporaneo a fattispecie che, invece, si contraddistinguono per definitività e irreversibilità del mutamento di destinazione pare eccedere la stessa prevalenza della sostanza sulla forma, snaturando il sistema, con l’emersione di criticità sul piano contabile e fiscale.

Vero è che un’eventuale riqualificazione sostanzialista potrebbe indurre a qualificare come “definitive” fattispecie che, accedendo ad un’impostazione meramente formale, consentirebbero il mero godimento temporaneo del bene. Ma, per quanto la pronuncia non offra apprezzabili elementi in fatto, come fisiologico nel giudizio di legittimità, già dai pochi tratti della ricostruzione non sembrano emergere solidi appigli per una riqualificazione del “comodato” in “cessione”: sembra, infatti, che l’immobile sia sempre rimasto nella disponibilità della società, senza essere assegnato al socio in modo definitivo. Peraltro è la stessa Suprema Corte a confermare implicitamente che l’operazione ermeneutica non consiste in una riqualificazione del comodato in cessione, bensì in un’accezione quanto mai estesa (ma a detta della Corte “letterale” e “sistematica”) della “destinazione a finalità estranee” che ricomprenderebbe anche il godimento a titolo gratuito del bene in quanto il socio “ne ha acquistato la disponibilità materiale in via esclusiva, utilizzandolo come abitazione”. E ciò anche “se non è in contestazione che la società abbia conservato la proprietà del bene immobile”.

Non sembra, dunque, che il principio di diritto affermato sia sorretto da una (corretta) applicazione del principio di prevalenza della sostanza sulla forma, quanto, piuttosto da un cieco spirito antielusivo (invero, autorevole dottrina assegna effettivamente alla fattispecie della destinazione a finalità estranee una funzione ex se antielusiva, e non già strutturale, desumibile dalla sua operatività “a senso unico”, producendo soltanto plusvalenze e non anche minusvalenze, Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2018, p. 486). A prevalere, dunque, non è la “sostanza” della vicenda, bensì il mero interesse fiscale (per la ricostruzione sistematica, le diverse accezioni anche sul piano europeo Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002), da intendersi come “gretto interesse al gettito immediato”  e non come interesse alla specificazione della capacità economica (sulla distinzione Lupi, Fiscalità analitica e giurisprudenza costituzionale, in AA.VV., Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, p. 421).

 

  1. In secondo luogo, detta opzione ermeneutica, pur riguardante un caso di utilizzo da parte del socio del bene sociale, stride con il criterio tipicamente formale di identificazione dei beni relativi all’impresa, nel caso di applicazione all’imprenditore individuale. È noto, infatti, che in tal caso, nonostante l’utilizzo personale o familiare, se il bene rimane registrato nell’inventario, continua ad essere identificabile come bene relativo all’impresa, ponendosi, semmai, un problema di deducibilità dei relativi componenti negativi per difetto di inerenza.

In terza battuta, si apre la via ad una sorta di estromissione anticipata dal circuito imprenditoriale. La riqualificazione del comodato in cessione sembrerebbe, infatti, operare ai soli fine dell’emersione della plusvalenza ma l’impresa comodante rimane titolare del bene anche in seguito a tale riqualificazione. Può, quindi, decidere, in un secondo momento, di cedere il cespite o assegnarlo definitivamente al socio. In tal caso, la successiva definitiva estromissione dovrebbe essere considerata fiscalmente irrilevante, quand’anche il corrispettivo o il valore di mercato del bene sia superiore a quello individuato al momento di perfezionamento della plusvalenza “anticipata” sulla base del mero godimento. Tassare, infatti, anche l’ulteriore e definitiva estromissione – con una sorta di “plusvalenza spezzatino” – pare infatti eccedere anche le più conclamate forzature.

Da ultimo, si può altresì rammentare che lo stesso Legislatore – con il D.L. n. 138 del 13 agosto 2011, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 148 del 14 settembre 2011, ha, da un lato, introdotto, nell’ambito del T.U.I.R. una nuova fattispecie produttiva di redditi diversi concernente l’utilizzo dei beni aziendali da parte dei soci o dei familiari dell’imprenditore, qualora lo stesso avvenga a titolo gratuito, ovvero a fronte di un corrispettivo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento (art. 2 co. 36-terdecies ss.); dall’altro ha stabilito che i costi relativi ai beni dell’impresa concessi in godimento a soci o familiari dell’imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile (art. 2 co. 36-quaterdecies). Alla fattispecie esaminata dalla Corte non era ratione temporis applicabile tale disciplina; tuttavia, se ne possono comunque trarre indicazioni significative.

Lo stesso Legislatore ha, infatti, introdotto una fattispecie ad hoc, di natura antielusiva, per “chiudere” effettivamente il sistema, così intercettando anche le forme di concessione a soci e familiari di beni in mero godimento. Ed ha chiuso il sistema non dilatando l’ipotesi di destinazione a finalità estranee ma tassando il soggetto che effettivamente gode del bene d’impresa, pur senza sottrarlo irreversibilmente alla medesima. Specularmente, è stata prevista un’ipotesi specifica di non inerenza e dunque indeducibilità per l’impresa dei costi relativi al bene, rimasto nella titolarità, ma temporaneamente sottratto al circuito aziendale.

Se ne può evincere che, quanto meno nell’intentio legis, la fattispecie della destinazione a finalità estranee non include la concessione in mero godimento, ricondotta a tassazione per altra via. E che, in definitiva, si conferma l’aderenza legislativa alla netta distinzione tra estromissioni reversibili – da ricondurre al sistema sulla base di norme ad hoc volte a tassare il beneficiario del godimento ed, eventualmente, disconoscere alla società la deducibilità dei costi sostenuti – e irreversibili; quest’ultime sì riconducibili alla previsione di cui all’art. 86 co. 1 lett. c) T.U.I.R..

 

  1. Riepilogate brevemente le ragioni per le quali non si condivide la statuizione del Supremo Collegio, si può ipotizzare un diverso percorso ricostruttivo. Pur, infatti, ritenendo che il comodato, quale godimento temporaneo, difficilmente si presti a rientrare nella fattispecie della destinazione a finalità estranee - contraddistinta dalla definitività dell’estromissione – si possono prospettare dei casi i cui, in applicazione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma, la “forma” del comodato disveli la “sostanza” della cessione. Il che potrebbe avvenire in presenza di plurimi indici sintomatici di una diversa sostanza contrattuale: un comodato cui non è apposto alcun termine o, pur in presenza di un termine, questo copra, di fatto, tutta la vita utile del cespite, rimanendo in modo pressoché definitivo nella disponibilità esclusiva del comodatario. Ancora, potrebbero - in ragione di una disamina complessiva dei rapporti tra le parti – essere sintomatici della definitività della cessione clausole che prevedono l’acquisto del comodatario dopo un certo lasso di tempo o una regolamentazione dei “rischi e benefici” derivante dal cespite distonica rispetto alla disciplina ex art. 1803 ss. cc. (es. responsabilità per il perimento del bene gravante sul comodatario oltre le ipotesi di cui all’art. 1805 c.c., spese straordinarie a carico del comodatario ..).

È chiaro che non possa essere il singolo elemento a rivelare la sostanza di una cessione ma una valutazione complessiva dei diritti e delle obbligazioni gravanti sulle parti e tali da rivelare che, dietro le sembianze di una fattispecie di godimento temporaneo, si celi la sostanza di un mutamento di titolarità. Per quanto, l’ingresso del principio della prevalenza della sostanza sulla forma del sistema d’impresa debba essere circondato da particolari cautele (Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma, cit., p. 412, secondo cui ancora oggi, nella fiscalità d’impresa, prevarrebbe la forma sulla sostanza), la “nuova” prevalenza del diritto contabile su quello tributario, introdotta dall’art. 13-bis, comma 2, lett. a), del D.L. 30 dicembre 2016, n. 244, intervenuto sull’art. 83 T.U.I.R., dovrebbe condurre a “ritarare” le fattispecie tributarie alla luce dei criteri di qualificazione contabile, ivi inclusa la prevalenza della sostanza sulla forma. In quest’ottica, pertanto, potrebbe essere riletta anche la fattispecie della destinazione a finalità estranee, rilevante sia per l’individuazione delle plusvalenze (oggetto della pronuncia in commento), sia dei ricavi (da qui, anche gli effetti doppiamente “dirompenti” della sentenza della Corte, in quanto la rilevanza del comodato dovrebbe estendersi anche ai ricavi, a fronte dell’identità della fattispecie).

Si tratta, come si è cercato di dimostrare in queste righe, di un percorso diverso da quello seguito dalla Corte di Cassazione, ma forse più in linea non solo con un’interpretazione “sostanzialista” correttamente intesa, ma anche con un’accezione di interesse fiscale maggiormente aderente al dettato costituzionale.