Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

21/05/2020 - Il processo tributario: note su alcuni aspetti da migliorare

argomento: Sanzioni e contenzioso - Legislazione e prassi

Nell’ambito della giustizia italiana non è certo la giurisdizione tributaria quella che soffre di più. L’impostazione snella che caratterizza il contenzioso tributario e una durata sostanzialmente contenuta della fase di merito risultano idonee a istruire adeguatamente le controversie sia per il contribuente, sia per l’Amministrazione finanziaria. Le principali criticità del sistema attengono alla durata della fase di legittimità e a eccessi nella concessione di presunzioni a favore dell’Amministrazione finanziaria. Si indicano, pertanto, alcuni interventi mirati che potrebbero migliorare l’efficienza generale ovvero sanare specifiche criticità del processo tributario.

PAROLE CHIAVE: processo - riforma processuale - efficienza - criticità


di Giuseppe Marini

1. Quando un tributarista, un penalista e un civilista si confrontano sul funzionamento del sistema giudiziario entro il quale operano, è sempre il tributarista quello che ne esce rinfrancato. Nell’ambito della giustizia italiana, infatti, non è certo la giurisdizione tributaria quella che soffre di più. Anzi, possiamo dire che l’impostazione snella che caratterizza il contenzioso tributario risulta idonea a istruire adeguatamente le controversie sia per il contribuente, sia per l’Amministrazione finanziaria; e la durata della fase di merito, pur certamente migliorabile, è tra le più brevi che il nostro ordinamento conosca.

A mio avviso, le principali criticità del sistema attengono invece alla durata della fase di legittimità e a eccessi nella concessione di presunzioni a favore dell’Amministrazione finanziaria che, però, sono aspetti estranei alle previsioni del D.Lgs. 546/1992. L’annosa questione della terzietà del giudice tributario, poi, nei fatti si ascrive più all’ambito delle disquisizioni di principio che a quello dell’effettività del giusto processo. Invero, anche nelle Commissioni periferiche, i cui uffici sono spesso posti negli stessi edifici ove ha sede l’Agenzia delle Entrate, non si percepisce una commistione tra la funzione giudicante e quella amministrativa tale da ledere i diritti di difesa del contribuente. Siccome, però, la forma non è irrilevante, laddove si ripensasse integralmente il sistema della giustizia tributaria, non potrebbe prescindersi dal riconoscere alla magistratura tributaria una dignità pari alle altre, con tutto ciò che ne conseguirebbe in termini di trattamento economico dei giudici, autonomia organizzativa, selezione concorsuale e rilievo costituzionale.

Procedo, allora, a indicare alcuni interventi mirati che, a mio avviso, potrebbero migliorare l’efficienza generale ovvero sanare specifiche criticità del processo tributario (sull’argomento Basilavecchia, 2020, La riforma del giudice e del processo tributario, in Rass. Trib., 2020, 55 e ss. ; Glendi, La riforma della giustizia tributaria, in Corr. Giur., 2019, 877 e ss.; Tesauro, Il processo tributario tra giurisdizione speciale e giurisdizione ordinaria, in Glendi C., Corasaniti G., Corrado Oliva C., dè Capitani di Vicemercate P. (eds), Per un nuovo ordinamento tributario, Wolters Kluwer, Milano, 2019, 1405 e ss.).

 

2. Il giudice tributario monocratico e le esigenze cautelari.

Restando nell’ambito di interventi che non stravolgano un impianto che funziona bene, ritengo che l’introduzione del giudice monocratico, per lo meno per alcune tipologie di controversie e per lo meno in primo grado, potrebbe liberare molte energie oggi spese in modo inefficiente. Se, infatti, non è raro percepire che la decisione non venga presa con l’effettiva partecipazione dell’intero collegio, ma solo sulla scorta dell’opinione del relatore (a volte guidata, ma più spesso sostenuta o meramente seguita dal Presidente), allora tanto varrebbe che fosse solo tale giudice a istruire e decidere la causa in completa autonomia. In tal modo, infatti, i giudici ridurrebbero drasticamente la propria partecipazione a udienze che non li coinvolgono, potendo utilizzare il tempo guadagnato in modo più proficuo, come l’aggiornamento, lo studio delle controversie e la redazione delle sentenze.

Entrando maggiormente nel dettaglio di questa proposta – peraltro già ampiamente dibattuta e già condivisa da molte parti – potrebbe ipotizzarsi di riservare al giudice monocratico i ricorsi di valore più modico, individuando la misura dello stesso in coerenza con la disciplina dell’istituto del reclamo e della mediazione. In aggiunta, potrebbero riservarsi allo stesso giudice monocratico le controversie di natura catastale, quelle relative a determinati tributi che hanno gettito marginale ovvero l’adozione dei provvedimenti cautelari (per i quali la maggior parte delle Commissioni non riesce a garantire la necessaria tempestività). Proprio quest’ultimo aspetto, ovvero la gestione delle esigenze cautelari, necessita di particolare attenzione da parte della giustizia tributaria.

Negli anni, infatti, si è assistito a una sempre maggiore disintermediazione delle attività poste in essere da parte dell’Amministrazione finanziaria (penso, per esempio, al pignoramento per crediti fiscali che non necessita nemmeno dell’intervento di un giudice) nonché all’accrescimento degli effetti extratributari delle pendenze tributarie (come il blocco dei pagamenti con la P.A. e l’esclusione dalle gare pubbliche). Questa tendenza – favorevole alle esigenze di celere ed effettiva riscossione per l’Amministrazione finanziaria – avrebbe dovuto essere bilanciata con un accrescimento della capacità delle Commissioni Tributarie di intervenire in via cautelare per disinnescare la caduta del contribuente in una spirale burocratico-giudiziaria idonea a danneggiarne la solidità economica in modo non rimediabile anche in caso di successiva vittoria nel giudizio tributario.

Così, per esempio, la protezione cautelare risulta inefficace già al momento in cui il provvedimento di pignoramento è notificato al terzo (il quale avendo gli obblighi del custode non potrà svincolare le somme fino alla sentenza di merito, irrilevante restando a tal fine un eventuale provvedimento di sospensione). Peraltro, considerando che il contribuente spesso non ha immediata conoscenza del pignoramento presso il proprio conto corrente, i tempi per ottenere la sospensione sulle cartelle notificate si riducono a pochi giorni (diversamente il provvedimento di sospensione potrebbe risultare inutile; poco importa se venga pagato il Fisco o meno, le somme restano comunque vincolate).

Dunque, sarebbe certamente auspicabile se, in ogni Commissione, alcuni giudici monocratici esperti fossero dedicati alla valutazione delle richieste cautelari dei contribuenti.

3. Le sezioni specializzate.

Sempre nell’ottica di una maggiore organizzazione delle Commissioni Tributarie – e quindi, inevitabilmente, di una più celere azione della giustizia in materia fiscale – potrebbe suggerirsi l’istituzione, all’interno di ciascuna di esse, di Sezioni specializzate, distinte per materia.

Sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 2, D.Lgs. 546/1992 – che individua l’oggetto della giurisdizione tributaria – potrebbero, per esempio, istituirsi Sezioni che si occupino esclusivamente delle controversie «aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali», altre che si occupino delle controversie “catastali” («concernenti […] il classamento dei terreni […], la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale»), altre ancora che si occupino delle controversie in materia di “esecuzione tributaria”, la cui attrazione nella giurisdizione delle Commissioni Tributarie rappresenta un ulteriore possibile “riforma” del processo tributario.

 

4. Nuovi atti impugnabili: il diniego di transazione fiscale, il diniego di compensazione e gli atti dell’esecuzione tributaria.

Sebbene la Cassazione abbia più volte ribadito che l’elenco degli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni Tributarie contenuto nell’art. 19, D.Lgs. 546/1992 non sia tassativo (ex plurimis, Cass. SS.UU., sent. n. 3773 del 2014) e che, ai sensi della lettera i) del comma 1 di tale disposizione, «il ricorso può essere proposto avverso: […] i) ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie», si potrebbe valutare l’inserimento, in tale elenco, del diniego di transazione fiscale (la cui impugnabilità, peraltro, è pacificamente ammessa dalla giurisprudenza), del diniego di compensazione e degli atti dell’esecuzione tributaria (pignoramento) (su questo argomento si veda Perrone: Profili critici degli atti impugnabili nel processo tributario, in Rass. Trib., 2020: 79 e ss.; Tesauro, Manuale del processo tributario, Giappichelli, Torino, 2017, 55 e ss.; Russo, L’ampliamento della giurisdizione tributaria e del novero degli atti impugnabili: riflessi sugli organi e sull’oggetto del processo, in Rass. Trib.: 2009, 1559 e ss.; Marini, Gli atti impugnabili e l’ampliamento della giurisdizione tributaria, in della Valle E., Ficari, V., Marini G. (eds), Il processo tributario, Cedam, Padova, 2008: 115 e ss.).

 

5. Completare l’ampliamento della giurisdizione all’esecuzione forzata tributaria.

Questione assolutamente attuale è quella relativa all’ampliamento della giurisdizione tributaria nel senso di ricomprendervi anche gli atti dell’esecuzione forzata (ed in particolare i pignoramenti aventi il proprio titolo in cartelle di pagamento emesse per la riscossione di crediti di natura tributaria).

Sul punto le Sezioni Unite della Cassazione, con la recentissima ordinanza n. 7822/2020, hanno affermato che «il discrimine fra giurisdizione tributaria e giurisdizione ordinaria in ordine all’attuazione della pretesa tributaria che si sia manifestata con un atto esecutivo va fissato nei termini seguenti: a) alla giurisdizione tributaria spetta la cognizione di ogni questione [attinente] fatti incidenti sulla pretesa tributaria che si assumano verificati […] fino alla notificazione della cartella esattoriale o dell’intimazione di pagamento, se validamente avvenute, o fino al momento dell’atto esecutivo, qualora la notificazione sia mancata, sia avvenuta in modo inesistente o sia avvenuta in modo nullo […]; b) alla giurisdizione ordinaria spetta la cognizione delle questioni inerenti alla forma e dunque alla legittimità formale dell’atto esecutivo come tale […], nonché dei fatti incidenti sulla pretesa sostanziale tributaria azionata […] successivi al momento della valida notifica della cartella o dell’intimazione».

In ordinanza la Cassazione dà atto della sentenza della Corte costituzionale n. 114 del 31 maggio 2018, la quale, nel dichiarare «l’illegittimità costituzionale dell’art. 57, comma 1, lettera a), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 […] nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui all’art. 50 del D.P.R. n. 602 del 1973, sono ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 del codice di procedura civile», ha precisato che tale norma «va raccordata con l’art. 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992, che demanda alla giurisdizione del giudice tributario le contestazioni del titolo (normalmente, la cartella di pagamento) su cui si fonda la riscossione esattoriale. Se il contribuente contesta il titolo della riscossione coattiva, la controversia così introdotta appartiene alla giurisdizione del giudice tributario e l’atto processuale di impulso è il ricorso ex art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, proponibile avverso “il ruolo e la cartella di pagamento”, e non già l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ.» (sul punto cfr. Vignoli, La giurisdizione nella funzione tributaria, 2020, Milano, 132 e s.; Guidara, Il discutibile ampliamento dell’opposizione all’esecuzione in materia tributaria conseguente all’intervento della Corte Costituzionale, in Giur. It.: 2661 2018: 2661 e ss.; Melis & Rasi, Giurisdizione e processo esecutivo in materia tributaria: finalmente tutto risolto?, in Riv. es. forz., 2018, 679 e ss.).

Alla luce di tali pronunce giurisprudenziali – e al fine di rendere più agevole la tutela del contribuente (il quale, oggi, potrebbe essere costretto a impugnare un medesimo atto – pignoramento – dinanzi alla Commissione Tributaria per far valere l’omessa notifica delle cartelle di pagamento sottese, e dinanzi al Tribunale per far valere, per esempio, l’intervenuta prescrizione del credito per il quale si procede) – sarebbe auspicabile un intervento legislativo nel senso di attrarre completamente nella giurisdizione tributaria gli atti dell’esecuzione forzata per crediti di natura tributaria.

6. La revocazione.

Da valutare anche l’inserimento, nel testo del D.Lgs. 546/1992, di una disciplina ad hoc dell’istituto della revocazione.

Allo stato attuale, infatti, gli artt. 64 e 65, D.Lgs. 546/1992 si limitano sostanzialmente a rinviare al dettato dell’art. 395 c.p.c. e quindi – quanto alla c.d. “revocazione ordinaria” – a quel che è previsto dal n. 4 del comma 1 di tale disposizione: «le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: […] 4. se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».

L’intervento normativo dovrebbe, a mio giudizio, essere volto a eliminare o almeno a chiarire l’inciso conclusivo «se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».

Ciò in quanto, attesa la natura prettamente “documentale” del giudizio tributario e in considerazione della natura del processo tributario formalmente impugnatorio, tale previsione rende praticamente impossibile (salvo rarissimi casi) il ricorso a tale strumento di impugnazione (che è e deve restare comunque di natura straordinaria rispetto agli ordinari mezzi di impugnazione), nonostante le ipotesi di “errore di fatto revocatorio” siano, purtroppo, abbastanza frequenti.

L’eliminazione e/o comunque la modifica dell’inciso «se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare» non inciderebbe sulla nozione di errore di fatto.

Detto errore, come più volte chiarito dalla Cassazione, «consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa» (ex multis, Cass., sent. n. 26890 del 2019).

La modifica ipotizzata consentirebbe al giudice della revocazione di riformare in ogni caso la propria decisione, ovviamente qualora viziata da errore di fatto.

Proprio in considerazione della natura prettamente “documentale” del giudizio tributario, infatti, si potrebbe ammettere il ricorso al mezzo della revocazione anche nel caso in cui la realtà desumibile dalla sentenza errata sia frutto di un giudizio e non di una mera supposizione.

Tale intervento troverebbe, peraltro, giustificazione anche alla luce della riforma del codice di rito (ed in particolare, della modifica dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. – rubricato “omesso [e non anche errato] esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” – e della introduzione del divieto di censura ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. nei casi di c.d. “doppia conforme”), per effetto della quale un eventuale motivo di ricorso volto a far rilevare, nel giudizio di legittimità, l’errore di fatto potrebbe essere dichiarato inammissibile (salvo, probabilmente, il caso in cui la sentenza impugnata non sia, sul punto, anche viziata per motivazione apparente o totalmente omessa o manifestamente contraddittoria).

 

7. I motivi aggiunti in appello.

Il comma 2 dell’art. 58, D.Lgs. 546/1992 consente di produrre documenti nuovi anche in appello e ciò può comportare che, in tale grado di giudizio, l’Amministrazione finanziaria produca documenti non conosciuti dalla parte che richiedano l’integrazione dei motivi di ricorso (sull’argomento vedi per tutti Pistolesi, Commento all’art. 58, in Baglione T., Menchini S., Miccinesi M. (eds), Il nuovo processo tributario, Giuffré, Milano, 2004).

Tuttavia, l’inserimento dell’art. 24 – rubricato produzione di documenti e motivi aggiunti – tra quelli che regolano il ricorso e la mancanza di un richiamo dello stesso articolo nella parte del D.Lgs. 546/1992 dedicata all’appello inducono a ritenere che non possano essere proposti motivi aggiunti in appello, anche se conseguenti a una produzione documentale non avvenuta in primo grado.

Si tratta di un elemento di incoerenza del sistema, che meriterebbe di essere sanato consentendo l’integrazione dei motivi anche nel caso in cui tale necessità discenda dalla produzione di documenti nuovi in appello.

8. Reclamo e mediazione: chiarire come si determina il valore della controversia.

Un’altra innovazione che mi sento di proporre al fine di tutelare i contribuenti attiene all’istituto del reclamo e della mediazione di cui all’art. 17-bis, D.Lgs. 546/1992.

Invero, ritengo che la stesura della norma non sia felice nella parte relativa al valore della controversia, ossia dove il legislatore ha fatto riferimento alle «controversie di valore non superiore a cinquantamila euro». Si tratta di una formulazione troppo vaga, poiché non si comprende come debba essere calcolato il valore della controversia in casi come quelli di cause scindibili o del giudizio con più soggetti.

Ciò con il rischio per il contribuente di attribuire al ricorso un valore più basso di quello effettivo e, conseguentemente, applicare la disciplina dell’istituto di cui all’art. 17-bis a controversie che ne sarebbero escluse per valore. In tale ipotesi il contribuente rischierebbe di depositare il ricorso nel più lungo termine di 120 giorni invece degli ordinari 30, determinandone così l’inammissibilità.

Sicché, suggerisco una formulazione più dettagliata dell’incipit della norma su reclamo e mediazione o quanto meno un’esplicita indicazione, all’interno degli atti impositivi, circa il procedimento che deve essere applicato per l’impugnazione, in modo che all’eventuale erroneità di tale indicazione corrisponda in ogni caso una rimessione in termini per il contribuente (sulle problematiche legate all’istituto del reclamo-mediazione sia consentito rinviare a Marini, Profili costituzionali del reclamo e della mediazione, in Corr. trib., 2012, 853 e ss).

 

9. La testimonianza scritta.

All’inizio di questo mio breve intervento ho citato il fatto che, nel processo tributario, si assiste a uno sbilanciamento in favore dell’Agenzia delle Entrate determinato dall’eccessivo ricorso allo strumento della presunzione. Specialmente oggi, con l’enorme flusso di dati che è a disposizione dell’Amministrazione finanziaria, credo che sia giunto il momento di ridurre significativamente l’utilizzo delle presunzioni chiedendo invece all’Agenzia delle Entrate un maggiore impegno nel supportare le proprie contestazioni con elementi concreti e non solo presuntivi. Finché non si prederà atto di questa evoluzione nella circolazione delle informazioni, sarebbe opportuno controbilanciare il vantaggio dell’Agenzia delle Entrate, per esempio, con presunzioni in favore dei contribuenti ovvero, nel processo, con l’ammissione della testimonianza.

L’introduzione della testimonianza nel processo tributario, anzitutto, lo adeguerebbe ai principi della Carta dei diritti dell’Uomo dell’Unione Europea che, anche in base alla lettura offerta dalla Corte europea (cfr. Jussila vs. Finland, n. 73053/2001 e Chap vs. Armenia, n. 15485/09 CEDU), prevedono che non possa essere a priori esclusa la testimonianza, specie nei procedimenti che hanno per oggetto la comminazione di sanzioni (il che avviene pressoché sempre nell’ordinamento tributario). È vero che la stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di osservare che l’esclusione della testimonianza si giustifica con la particolarità del processo tributario e con il fatto che lo stesso attiene a valutazioni prettamente tecniche. Tuttavia, i giudizi tributari hanno subito una forte evoluzione in questi ultimi anni. Attraverso l’introduzione di istituti come l’abuso del diritto o le contestazioni relative alle operazioni inesistenti, l’elemento soggettivo ha assunto una valenza sempre più significativa nell’integrazione della violazione tributaria e il giudice è stato chiamato a pronunciarsi sulla sostanza delle vicende più che sulla forma.In siffatta prospettiva non può più dirsi che il giudizio tributario sia meramente tecnico e d’interpretazione delle norme, bensì fattuale e d’interpretazione della realtà. Cosicché, l’apertura alla prova testimoniale, almeno per una certa tipologia di contestazioni e di relative controversie, non è illogica.

D’altra parte, deve osservarsi che le ragioni di celerità e di semplificazione che erano poste alla base del divieto della testimonianza nel processo tributario possono dirsi superate dalla considerazione del fatto che la prova testimoniale, un tempo solo orale, con l’art. 257-bis c.p.c. può essere anche raccolta per iscritto (sul punto v. Marcheselli, Riforma del rito civile, testimonianza scritta e giusto processo tributario, in Giust. Trib., 17 e ss.; Tosi, Testimonianza orale” e “testimonianza scritta” nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 2010, 761 e ss.).

Proprio la modalità scritta, a mio avviso, potrebbe essere adottata nell’ordinamento tributario.

 

10. La condanna alle spese.

Chiudo richiamando ancora quanto scritto all’inizio delle presenti note, sul tema della terzietà del giudice tributario. Come ho detto, generalmente, non si rimprovera alle Commissioni di essere faziose perché organiche al Ministero dell’Economia. Tuttavia, una cosa lascia veramente perplessi e riguarda un atteggiamento frequentemente pro fisco in tema di condanna alla rifusione delle spese di giudizio (sia consentito rinviare a Marini, La condanna alle spese nel processo tributario. Compensazione delle spese in caso di soccombenza dell’erario, in Riv. trim. dir. trib.., 2019).

Infatti, nonostante i tanti interventi legislativi sempre chiaramente volti a dare effettività al principio per cui “chi perde paga il giudizio”, continuiamo ad assistere a un atteggiamento di riguardo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che nuoce alla funzione ripristinatoria della giustizia (specie nelle controversie di modico valore che spesso riguardano i contribuenti più deboli), alla celerità del contenzioso (perché riduce l’appetibilità degli strumenti deflattivi) e, infine, alla stessa Amministrazione finanziaria la quale, non trovando vantaggi nell’abbandonare controversie perdenti, porta avanti un numero eccessivo di giudizi a discapito della qualità delle singole difese.