argomento: IRAP e tributi locali - Giurisprudenza
Nel caso di un segno distintivo dell’impresa o del prodotto, pertanto, occorre valutare la dimensione, le caratteristiche strutturali e le modalità con cui viene utilizzato per verificare se sulla mera finalità distintiva prevalga o meno la finalità pubblicitaria che legittima l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità.
» visualizza: il documento (Corte di Cassazione sentenza n. 31707/2018)PAROLE CHIAVE: Marchio misura ubicazione pubblicità
di Stefania Cianfrocca
Con la sentenza n. 31707 del 7 dicembre 2018 la Corte di Cassazione è stata chiamata a tracciare la sottile linea di confine tra l'uso del segno distintivo dell’impresa effettuato al mero fine di identificare i propri prodotti e servizi e l'uso del segno distintivo in chiave pubblicitaria (cfr. ex multis Ricolfi, Trattato dei Marchi, Diritto europeo e nazionale, Torino, 2015; VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, in Riv. dir. comm. 1961, 16 ss.).
Occorre premettere che in linea di principio il marchio di un prodotto, proprio in quanto assolve alla specifica funzione di individuarlo, è escluso dal campo di applicazione dell’imposta comunale sulla pubblicità. Vi sono, però, dei casi in cui le dimensioni del marchio possono legittimamente far ipotizzare che nel suo utilizzo prevalga lo scopo di pubblicizzare il prodotto nel quale esso è incorporato, circostanza che fa sorgere il presupposto impositivo individuato dall’art. 5 del D.Lgs. n. 507 del 1993, che assoggetta al pagamento dell’imposta comunale sulla pubblicità il messaggio pubblicitario diffuso attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile.
La fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, riguardando un cartello di notevoli dimensioni apposto su una gru indicante i dati dell’impresa costruttrice, proprio per la sua particolarità, ha offerto ai giudici l’opportunità di dettare ponderati criteri interpretativi per ricomprendere o meno la materia nell’area tributaria.
E’ indubbio, infatti, che le grandi dimensioni delle gru richiedono che il marchio di fabbrica, per assolvere alla finalità propria di contrassegnare il prodotto o i servizi resi dell’impresa, per essere distinguibile debba avere una dimensione adeguata e, quindi, evidentemente più ampia rispetto a quella utilizzata per prodotti aventi una superficie minore.
Per risolvere questa problematica, la Corte si è basata innanzitutto sulle valutazioni probatorie del giudice di merito - che non sono state scalfite dal ricorso introduttivo della società ricorrente - per poi confermare la valenza pubblicitaria del cartello apposto su una gru recante il segno distintivo dell’impresa costruttrice in ragione sia della dimensione, sia della sua ubicazione in luogo visibile al pubblico.
La decisione si allinea, dunque, al consolidato indirizzo giurisprudenziale in base al quale l’art. 5 del D.Lgs. n. 507 del 1993 trova applicazione tutte le volte in cui l'uso del segno distintivo dell'impresa o del prodotto (e cioè la ditta, la ragione sociale ed il marchio) “travalica la mera finalità distintiva” - che è quella di consentire al consumatore di riconoscere i prodotti o servizi offerti sul mercato dagli altri operatori del settore, orientandone le scelte - “per il luogo (pubblico, aperto o esposto al pubblico) ove esso è situato, per le sue caratteristiche strutturali, o per le modalità di utilizzo, in quanto oggettivamente idoneo a far conoscere ad un numero indeterminato di possibili acquirenti o utenti il nome, l'attività o il prodotto dell'impresa (tra le altre, Cass. n. 11530/2018, n. 8658/2015, e n. 9580/1994, n. 8220/1993)”.
In sostanza la Corte di Cassazione, confermando quanto sostenuto nella sentenza n. 30046 del 2018 - relativa, peraltro, alla medesima fattispecie - precisa che “quel che conta, ai fini della imposta comunale sulla pubblicità, al di là delle intenzioni soggettive, è l'oggettivo risultato conseguito con il messaggio dal soggetto interessato alla pubblicità”.
Val la pena di sottolineare come proprio allo scopo di porre fine al notevole contenzioso sviluppatosi negli anni nella materia in esame, si è registrato, nel 2012, un intervento legislativo al quale, però, la Corte non ha potuto ancorarsi, poiché la controversia sottoposta al suo vaglio traeva origine da un avviso di accertamento con cui veniva contestato l’omesso pagamento dell’imposta sulla pubblicità per l’anno 2008.
In estrema sintesi il legislatore con l’art. 3, comma 16-sexies, del d.l. n. 16 del 2012, ha demandato ad un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze il compito di disciplinare l’applicazione dell’imposta “al marchio, apposto con dimensioni proporzionali alla dimensione dei beni, sulle gru mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da cantiere”.
In attuazione a tale disposizione è stato adottato il decreto 26 luglio 2012 che determina la superficie esente articolandola in una specifica progressione: la superficie complessiva del marchio apposto sulle gru e le macchine da cantiere, infatti, non deve eccedere il limite di 2 metri quadrati se i mezzi in questione hanno uno sviluppo potenziale in altezza fino a 10 metri lineari ed il limite di 4 metri quadrati se i suddetti mezzi hanno uno sviluppo potenziale in altezza oltre i 10 e fino a 40 metri lineari. Se lo sviluppo potenziale in altezza è superiore a 40 metri lineari, il limite diventa di 6 metri quadrati.
Nell’ipotesi in cui la superficie complessiva del marchio superi i suddetti limiti dimensionali scatta, quindi, il meccanismo impositivo, per cui l’imposta deve essere calcolata in base alla superficie complessiva dei marchi installati sulle gru e le macchine da cantiere, nella misura e con le modalità previste dall'art. 12, comma 1, del D.Lgs. n. 507 del 1993.
Un altro aspetto indagato dalla Corte che si ritiene opportuno segnalare attiene alla sottoscrizione con firma a stampa del responsabile del procedimento dell’atto impositivo emesso dal concessionario del servizio di accertamento e riscossione del tributo.
La materia è regolata dall’art. 1, comma 87, della legge n. 549 del 1995, che consente la sostituzione della firma autografa prevista dalle norme che disciplinano i tributi regionali e locali sugli atti di accertamento con l'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, nel caso in cui detti atti siano prodotti da sistemi informativi automatizzati. La norma precisa che il nominativo del funzionario responsabile per l'emanazione degli atti in questione, nonché la fonte dei dati, devono essere indicati in un “apposito provvedimento di livello dirigenziale”, adempimento fissato “a garanzia del contribuente e della trasparenza della azione amministrativa” (Cass. n. 20628/2017, n. 15447/2010).
Detta norma mal si attaglia all’ipotesi in cui sia un concessionario a gestire il tributo; è questi, infatti, o un suo rappresentante a dover sottoscrivere l'avviso di accertamento non vi è spazio, quindi, per l’adozione di un provvedimento di livello dirigenziale, tipico dell’ente pubblico impositore.
La Corte di Cassazione ha, invero, offerto un’interpretazione teleologica della norma nella sentenza n. 9627/2012, nella quale ha individuato in un “apposito atto sottoscritto dal concessionario” contenente l’indicazione del responsabile dell'emanazione degli atti di accertamento del tributo, come il documento destinato ad assolvere alla stessa funzione svolta, nell'ipotesi di gestione diretta dell'imposta da parte del comune, dal provvedimento di livello dirigenziale. La Corte ha precisato poi, che qualora, invece, il concessionario non proceda alla nomina di un soggetto responsabile, ma mantenga tale responsabilità direttamente su di sè, è comunque necessaria una “scrittura di data certa anteriore all'emissione dell'atto impositivo” nella quale abbia indicato se stesso come responsabile dell'emanazione degli atti di accertamento del tributo.
Per la società ricorrente - che rivestiva tale veste nel giudizio da ultimo richiamato avente, peraltro, ad oggetto una controversia analoga a quella in commento – è stato agevole contestare la legittimità dell’avviso di accertamento per carenza della prescritta scrittura.
Questa volta, però, la Corte, ha rivisto decisamente la sua posizione, sostenendo che la necessità di una scrittura privata di data certa anteriore alla emissione dell'atto impositivo “non può farsi discendere dalla "interpretazione teleologica" della citata L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87, stante la diversità delle situazioni considerate”.
Da un lato, infatti, si assiste ad una delega dei poteri - che la legge attribuisce al dirigente dell'ente pubblico - al funzionario responsabile che, deve, pertanto, essere individuato all'interno della propria organizzazione mediante l’emanazione di un provvedimento dirigenziale. Dall’altro, invece, è ravvisabile un esercizio diretto di poteri che discendono dalla carica ricoperta nell'ambito dell'organigramma della società concessionaria del servizio di accertamento e riscossione del tributo, nella specie, quella di Amministratore Unico. Ciò è, quindi, sufficiente a ritenere valido l’avviso di accertamento, pur se privo della sottoscrizione autografa del legale rappresentante della società concessionaria, ”la cui verifica non richiede provvedimenti di sorta, ma è agevolmente effettuabile tramite il Registro delle Imprese, previsto dall'art. 2188 c.c., e tenuto da apposito ufficio istituito presso le Camere di Commercio”.
Un deciso cambio di rotta, dunque, a tutto vantaggio della speditezza procedurale. Con questa nuova e più ragionevole impostazione, infatti, il contribuente è posto in condizioni di verificare più agevolmente se il nominativo indicato a stampa in calce all'atto impositivo emesso dalla società concessionaria corrisponda a quello della persona fisica che la rappresenta, essendo senz’altro più macchinosa l’acquisizione di una “scrittura di data certa anteriore all'emissione dell'atto impositivo” dalla quale poter individuare la persona investita, in base alle scelte organizzative adottate società concessionaria, della responsabilità dell'emanazione degli atti impositivi.