argomento: IRPEF - Giurisprudenza
Con la sentenza 15 luglio 2024, n. 19363 i giudici della Corte di cassazione hanno ribadito che il trattamento fiscale della cessione di opere d’arte, ai fini dell’imposizione diretta, deve essere individuato sulla base di una tripartizione: se è effettuato da un mercante d’arte, è assoggettato alle regole in materia di reddito d’impresa; se è effettuato da uno speculatore occasionale, i proventi derivanti dalla cessione vengono qualificati come plusvalenza, ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. i) del Tuir; se è invece effettuato da un collezionista, l’eventuale guadagno non viene assoggettato ad imposizione. Nel caso di specie, si è ritenuto, sulla base di alcuni elementi fattuali (tra cui il fatto che la vendita fosse stata affidata ad una casa d’aste e l’opera d’arte fosse stata precedentemente concessa per esposizione ad un museo, l’importo della plusvalenza generata), che il corrispettivo ricavato dalla vendita dovesse essere inquadrato tra i redditi diversi. La riforma fiscale ha previsto una disposizione ad hoc in materia, che richiama espressamente, nell’ambito delle plusvalenze da redditi diversi, l’intento speculativo delle cessioni di opere d’arte effettuate da privati non esercenti attività d’impresa; ciò dovrebbe aiutare a conferire maggiore oggettività ad un quadro normativo incerto, ma non risolve completamente i casi di difficile discrimine rispetto all’intento meramente culturale, in quanto tale non tassabile.
» visualizza: il documento (Corte di cassazione, 15 luglio 2024, n. 19363)PAROLE CHIAVE: opere di arte - cessione - plusvalenza - imposte sui redditi - collezionista privato
di Maria Cecilia Fregni
1. Il mondo del collezionismo di opere d’arte presenta caratteristiche molto varie ed eterogenee al suo interno (cfr. BAGAROTTO, Regime tributario della cessione di opere d’arte, in Rass. trib., 2019, p. 305), e negli ultimi anni è stato interessato da una notevole evoluzione, con possibilità di accesso a nuove piattaforme di vendita e circolazione dei beni online, oltre che con l’espansione del concetto stesso di opera d’arte (come nel caso dei token).
Si è soliti distinguere in specie tra la figura tradizionalmente intesa di collezionista e quella del c.d. collezionista “a tempo” (SPINIELLO-BISOGNO, Compravendita di opere d’arte tra privati: il difficile confine tra speculazione e collezionismo, in Il Fisco, 2017, p. 3435). Il primo sarebbe interessato all’arte e al piacere in sé di detenere opere artistiche, oltre al piacere di essere inserito sovente nel circuito delle mostre nazionali e no; per costui la ridotta profittabilità dell’investimento in arte è più che compensata dal piacere estetico che trae dal mero possesso delle opere, il c.d. “dividendo estetico”. Alla seconda figura, invece, si possono ricollegare i soggetti che acquistano opere d’arte come status symbol e/o come investimento commerciale, come bene rifugio con aspettative di ritorno finanziario. Ma sia al primo che al secondo caso può ricollegarsi la figura del collezionista “dinamico”, ossia di colui che mira alla creazione progressiva di una collezione, che comporta la vendita delle opere non più funzionali al percorso estetico intrapreso, nonché la catalogazione e prestiti ai musei. (cfr. VOZZA, Il collezionista puro non è soggetto a tassazione, in Il Fisco, 2023, p. 1385, il quale sottolinea che si tratta di un fenomeno complesso e in continua evoluzione, per cui appare velleitario ritenere di poter decidere chi sia collezionista o meno sulla base di circostanze che non escludono l’animus del collezionista).
Il problema che si pone nel caso di specie è se le cessioni di opere d’arte operate da soggetti che si definiscono collezionisti, dalle quali si consegua un profitto, possano andare esenti da tassazione, o se invece siano tassabili, e, in quest’ultimo caso, quale sia il regime fiscale applicabile.
In assenza di una normativa specifica sul trattamento fiscale della cessione di opere d’arte, e, soprattutto, di zone grigie che possono frapporsi sul piano soggettivo tra la figura del mercante d’arte, del collezionista e dello speculatore occasionale, la questione è stata nuovamente oggetto di alcune, recenti decisioni da parte della Corte di cassazione, cui la pronuncia in rassegna si uniforma, consolidando un orientamento che forse meriterebbe ulteriori riflessioni (cfr. Cass., 8 marzo 2023, n. 6874, in Arte e diritto, 2023, p. 361, con nota di ALBERTINI, Profili fiscali della compravendita di opere d’arte, fra attività commerciale, speculazione occasionale e collezionismo, in GT. Riv. giur. trib., 2023, p. 681, con nota di LOCONTE, Tassazione per la cessione di opere d’arte, d’antiquariato e di beni da collezione. Nuovi orientamenti giurisprudenziali e progetti di riforma, in Dir. prat. trib., 2024, p. 1041, con nota di BORGHETTI, Un quadro normativo senza cornice: il difficile rapporto tra arte e fisco, in Dir. prat. trib., 2024, p. 239, con nota di GIANONCELLI, Tra opere d’arte e reddito imponibile: il collezionista, lo speculatore occasionale e il mercante d’arte; nonché Cass., 16 gennaio 2024, n. 1603, commentata da ALBERTINI, Osservazioni in tema di profili tributari della compravendita di opere d’arte, a margine di una recente pronuncia di legittimità, in Riv. tel. dir. trib., fasc. 2/2024).
Nella fattispecie in rassegna, i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso proposto dal contribuente, nella sua qualità di erede del dante causa, contro la sentenza di appello a lui avversa.
La controversia nasceva da un accertamento di un maggior reddito conseguito e non dichiarato dal de cuius, relativo alla cessione di un’opera d’arte di grande valore (un quadro di Monet). La cessione, rispetto al prezzo di acquisto, aveva generato un notevole guadagno, che l’Agenzia delle entrate qualificava nell’ambito dei redditi diversi, soggetti ad imposizione ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. i) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito Tuir), secondo cui sono redditi diversi, se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell'esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente, “i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente”.
Il proprietario del bene aveva sostenuto che questa cessione era stata effettuata nella sua qualità di collezionista privato, e che aveva venduto l’opera con l’intento di acquistarne un’altra, incrementando la propria collezione. Peraltro, questa era stata l’unica transazione effettuata nell’anno di imposta considerata, per cui pareva da escludersi il carattere di abitualità richiesto dalla normativa sui redditi diversi.
In primo grado si era giudicato che il compimento di un unico affare posto in essere tra soggetti privati non poteva essere considerato come attività imprenditoriale o anche solo speculazione occasionale, per carenza del requisito dell’abitualità in capo al collezionista privato, mentre il giudizio era stato ribaltato in secondo grado. I giudici dell’appello, infatti, poggiando il giudizio sul fatto che già nel processo verbale di constatazione, sottoscritto dal contribuente, era risultato che in realtà il de cuius, oltre ad aver venduto l’opera d’arte indicata nell’avviso di accertamento, aveva anche acquistato tre opere, ancora in suo possesso, da una casa d’aste di primaria importanza (Sotheby’s) e aveva permutato quattro opere dell’artista Segantini con una di Gauguin. Operazioni analoghe erano state compiute sia negli anni antecedenti che negli anni successivi, sempre per il tramite di case d’aste di prestigio mondiale, svolgenti naturalmente attività commerciale.
In specie, i giudici di seconde cure avevano riconosciuto che il contribuente non poteva essere considerato un commerciante di opere d’arte, ma avevano ritenuto che egli, pur essendo un collezionista, non si fosse dedicato al solo accumulo di opere o alla loro semplice dismissione, ma avesse svolto una serie di attività (per esempio, la concessione di esposizione di sue opere al Mart di Rovereto e in musei americani) volta alla loro valorizzazione e al loro eventuale scambio, qualora ciò fosse apparso conveniente sul piano economico. Queste concessioni avevano senz’altro contribuito all’incremento di valore delle opere esposte, che erano state poi rivendute dopo che avevano conseguito quotazioni superiori al prezzo di acquisto. Ne derivava, sempre secondo i giudici, che il dante causa, ponendo in essere compravendite e altri negozi intesi ad accrescere il valore complessivo delle opere di sua proprietà, non si era limitato a “contemplarne la bellezza o soddisfare il proprio gusto estetico o per un fine squisitamente culturale”, ma si era adoperato in attività che ben potevano essere inquadrate nell’alveo delle attività commerciali non abituali, e in particolare come “speculazione occasionale”, e, in quanto tale, suscettibile di generare redditi diversi ed assoggettabile ad imposizione ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. i) del Tuir.
2. Nella pronuncia in rassegna i giudici prendono le mosse da una considerazione ovvia, ossia che è “fisiologico” che un collezionista privato possa vendere le opere d’arte di sua proprietà, “sia per il sostentamento dei costi di mantenimento della collezione, sia per esigenze di rinnovamento della medesima collezione in seguito al mutamento dei propri gusti estetici, indipendentemente dalle quotazioni di mercato”. In sostanza, è pacifica una concezione dinamica di una collezione di opere d’arte; anzi, in genere, il collezionista in quanto tale è portato ad accrescere la sua collezione, o comunque modificarne l’assetto, in aumento o in diminuzione, in base al mutamento di suoi gusti personali o a contingenze esterne, quali potrebbero essere anche esigenze di liquidità. E’ indubbio peraltro che le opere d’arte possono essere considerate anche come beni rifugio, o investimenti veri e propri, senza per questo assumere un carattere di commercialità, così come è indubbio che valori diversi possono essere attribuiti alla singola opera o all’intera collezione.
I giudici peraltro osservano che le operazioni economiche connesse alla compravendita di opere d’arte non sono di per sé rilevanti sul piano fiscale, in assenza di una norma espressa che regoli in modo esplicito la sorte fiscale dei guadagni eventualmente conseguiti; e l’irrilevanza fiscale permane anche quando il collezionista si avvalga dell’intermediazione di importanti case d’aste, o realizzi, con una certa assiduità, attività di valorizzazione o sfruttamento economico della propria collezione, traendone anche un guadagno monetario.
Date queste premesse, il discrimine tra collezionista puro e speculatore occasionale si colloca su un crinale delicato, che deve essere valutato di volta in volta in relazione alla particolare fattispecie.
È indubbia la difficoltà in certi casi di fornire prove atte ad attestare senza dubbio l’assenza del fine di lucro, posto che, come abbiamo testé affermato, in genere i collezionisti tendono a “movimentare” le loro collezioni con compravendite più o meno diluite nel tempo. In realtà, il fatto di rivolgersi a case d’aste come intermediari della compravendita non può essere considerato di per sé un argomento dirimente, perché è anzi normale utilizzare questi tramiti professionali, soprattutto per opere di notevole valore artistico e, in genere, anche economico, che possono raggiungere in questo modo un’ampia platea di amatori potenzialmente interessati all’acquisto e forniscono garanzie adeguate per il corretto adempimento della transazione.
Maggiore rilievo potrebbe assumere l’elemento temporale, ossia il lasso di tempo tra acquisto e vendita di un’opera. Nel caso di specie, l’opera era stata acquistata sette anni prima rispetto alla vendita, e l’aumento del suo valore sarebbe dipeso dalla notorietà dell’autore (e, aggiungiamo noi, dal fatto che il mercato degli impressionisti non conosce flessioni), più che dal fatto che l’opera fosse stata esposta una volta presso un museo americano in occasione di una mostra. Quindi, la cessione del dipinto di Monet avrebbe potuto, o dovuto, essere considerata, nel caso di specie, come una mera dismissione di parte del patrimonio artistico personale del collezionista, dovendosi escludere la rilevanza reddituale del guadagno conseguito dalla vendita.
3. Nel vigore del previgente D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, l’art. 76 – intitolato Redditi derivanti da operazioni speculative – conteneva una previsione specifica per la vendita di opere d’arte, o, meglio, una presunzione assoluta, nel senso che al numero 3 del secondo comma si consideravano “in ogni caso fatti con fini speculativi, senza possibilità di prova contraria” (omissis) “l'acquisto e la vendita di oggetti d'arte, di antiquariato e in genere da collezione, se il periodo di tempo intercorrente tra l'acquisto e la vendita non è superiore a due anni”. Ne risultava, ai sensi del primo comma, la classificazione dei guadagni derivanti dalla vendita di opere d’arte tra le plusvalenze conseguite mediante operazioni poste in essere con fini speculativi e non rientranti fra i redditi d’impresa, plusvalenze che concorrevano alla formazione del reddito complessivo per il periodo d’imposta in cui le operazioni si erano concluse.
Dunque, per le persone fisiche non esercenti attività d’impresa, ossia per coloro che non potevano essere considerati mercanti d’arte, si demandava ad un lasso temporale l’inclusione o meno nella tassazione ai fini dei redditi diversi. Tale lasso temporale sembrava attestare una vendita dell’opera o del bene effettuata con fini speculativi, e, in quanto tale, tassabile. Non è il caso in questa sede di porre in dubbio la legittimità costituzionale di una presunzione che non ammetteva la (pur difficile) prova contraria e che rischiava di creare problemi laddove la provenienza del bene fosse conseguenza di eredità. E’ vero però che il dato temporale, pur di per sé non pienamente soddisfacente, rappresentava un elemento di riferimento atto a qualificare con maggiore certezza l’operazione, dal momento che, una volta decorso il tempo prescritto, essa poteva essere considerata esente da imposta, e ciò anche ove il fine speculativo fosse invece palese. Questa disposizione è stata abrogata con l’entrata in vigore del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e nel Tuir attuale manca una normativa specifica sulla tassazione della compravendita di opere d’arte effettuata da privati. Si ricorre pertanto, come unico elemento di raffronto, al carattere abituale o meno dell’attività di compravendita di opere d’arte, di cui all’art. 67, comma 1, lett. i), secondo cui sono redditi diversi: “i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente”. L’attenzione si focalizza dunque su due elementi: da un lato l’attività commerciale del soggetto, e dall’altro la non abitualità, ossia l’occasionalità.
4. I giudici di legittimità riprendono la tripartizione già adottata in precedenti arresti tra mercante d’arte, speculatore occasionale e collezionista:
a) il mercante d’arte sarebbe colui che professionalmente e abitualmente esercita il commercio di opere d’arte, anche in maniera non organizzata, con il fine ultimo di trarre un profitto dall’incremento di valore delle opere offerte. Egli sottostà a tutte le regole proprie degli imprenditori, anche ai fini Iva (sotto quest’ultimo profilo cfr. da ultimo Cass., 3 dicembre 2024, n. 30895, in cui la Suprema Corte ha confermato la sentenza d’appello nella parte in cui aveva qualificato il contribuente come "mercante d'arte" e non quale "collezionista", in ragione del numero e del valore delle alienazioni di opere d'arte rilevate nel corso di un triennio e non, invece, secondo una valutazione frazionata delle singole annualità). In specie, la Corte di cassazione ha riconosciuto la qualità di imprenditore commerciale ad un mercante d’arte in presenza di una sia pur rudimentale organizzazione aziendale e di attività di acquisto, per la rivendita, di numerose opere, nonché dello svolgimento di attività promozionali (Cass., 13 agosto 2004, n. 157699; v. anche BAGAROTTO, Regime tributario della cessione di opere d’arte, in Rass. trib., 2019, p. 294, il quale richiama come elementi rilevanti la disponibilità di uffici, di una galleria, di un sito Internet, di collaboratori e mezzi di trasporto, nonché il sostenimento di costi per servizi, ecc.);
b) lo speculatore è colui che acquista opere d’arte per rivenderle allo scopo di conseguire un utile; egli potrà generare redditi diversi, tassabili ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. i) del Tuir, ma non ai fini Iva;
c) il collezionista è colui che acquista le opere d’arte per scopi culturali “con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l’opera, senza l’intento di rivenderlo generando una plusvalenza, in quanto il suo interesse è rivolto, non tanto al valore economico della res, quanto a quello estetico-culturale, “per il piacere che il possedere le opere genera, per l’interesse all’arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre””. Solo quest’ultimo non sarà soggetto ad alcuna imposizione. Il regime di imposizione o meno varia dunque significativamente a seconda del venditore (v. ALBERTINI, Profili fiscali della compravendita di opere d’arte, cit., p. 375), in una tripartizione che però avrebbe bisogno di una grana più fine, che tenga conto anche delle peculiarità di casi che si presentano in concreto (si veda ad es. la giurisprudenza di merito citata in TITO-GIUSTI, Sono tassabili le plusvalenze da cessione occasionale di opere d’arte, in Corr. trib., 2016, p. 3669). In specie, sono stati enucleati alcuni elementi su cui fondare la diversa qualificazione, quali lo scopo dell’acquisto, la frequenza e il numero delle transazioni, la durata del possesso, le attività finalizzate a facilitare la vendita e infine l’esame delle ragioni che hanno portato all’alienazione (cfr. Cass. n. 6874 del 2024, cit.). Ad esso si possono aggiungere altri elementi, quali l’origine dei mezzi economici impiegati – ad es., ricorso a mezzi di finanziamento o utilizzo di risorse proprie –, nonché l’allestimento e la predisposizione di adeguati strumenti per la pubblicizzazione dell’opera, come, ad es., il suo inserimento in un catalogo o l’esposizione presso una mostra di prestigio nazionale o internazionale (così TITO-GIUSTI, op. cit., p. 3667, secondo i quali al di là di queste ipotesi, alla cessione di un’opera d’arte, anche effettuata nella prospettiva dell’acquisto di un’opera diversa per accrescere la propria collezione, dovrebbe riconoscersi natura di dismissione patrimoniale, escludendosene qualsiasi valenza di tipo reddituale). La questione, nel caso di specie, viene risolta nel senso dell’inquadramento del soggetto tra gli speculatori occasionali, e non tra i collezionisti, basandosi su una serie di elementi fattuali: al di là del lasso temporale effettivamente troppo ampio (sette anni tra acquisto e vendita paiono troppi per presumere un intento speculativo), sono stati considerati rilevanti non solo il fatto che la vendita fosse stata affidata all’intermediazione di una famosa casa d’aste, e fosse stata precedentemente concessa in esposizione ad un museo, ma anche, e soprattutto, l’importo della plusvalenza generata e la molteplicità di azioni similari compiute nello stesso anno d’imposta e in periodi antecedenti, le quali, pur non integrando il requisito dell’abitualità (che avrebbe fatto ricadere la fattispecie tra quelle assoggettate a reddito d’impresa conseguito da mercante d’arte) avevano indotto il giudice di secondo grado a ritenere che da essa potesse desumersi l’intento speculativo che le aveva determinate “evidentemente ravvisando nell’originario acquisto (quantomeno anche) un investimento con aspettative finanziarie”. In ultima analisi, rilevano i giudici di ultima istanza, “la valutazione del giudice di merito poggia (…) su un quadro di elementi indiziari in grado di fondare la prova presuntiva secondo i canoni degli artt. 2727 e 2729 c.c., unico meccanismo probatorio, del resto, utilizzabile per accertare l’intento speculativo”. In specie, quanto al requisito dell’attività, dovrebbe ritenersi che un singolo atto traslativo della proprietà di un bene, sia pure a titolo oneroso, di per sé non sia sufficiente ad integrare l’esercizio di un’attività commerciale, sia pure occasionale (cfr. Cass., 20 ottobre 2011, n. 21776). Bene ha precisato peraltro la dottrina che i proventi derivanti da cessioni “isolate” sfuggono alla imposta, intendendosi con questo termine che l’operazione di cessione da cui scaturisce la plusvalenza sia non l’unica conclusa dal contribuente, ma possa essere considerata estranea rispetto all’attività (BAGAROTTO, op. cit., p. 298). In altri termini la semplice vendita di un bene collezionato non può costituire “attività” commerciale occasionale: per essere rilevante ai fini Irpef il plusvalore realizzato con la vendita di oggetti d’arte o da collezione deve essere il risultato di una “attività” (così VOZZA, op.cit., p. 1385, il quale osserva inoltre: “Dunque, non un atto isolato, ma una pluralità di atti unificati sul piano funzionale dall’unicità dello scopo. In altri termini, si ha attività commerciale occasionale quando si realizzano più atti di acquisto e di vendita oppure, sebbene vi sia un solo bene acquistato e venduto, lo stesso sia stato oggetto di un’attività di valorizzazione durante il periodo di possesso”). Deve, tra l’altro, trattarsi di atti preordinati e tra loro interconnessi, ma derivanti non da una qualsiasi operazione di cessione, bensì, appunto, da attività commerciali, e, in particolare, di attività intermediarie nella circolazione dei beni (BAGAROTTO, op. cit., p. 297).In sostanza si è ribadito che l’attività commerciale abituale deve essere rappresentata da una pluralità di atti coordinati diretti alla realizzazione del medesimo scopo, ovvero una serie di atti intermedi volti ad incrementare il valore del bene in funzione della successiva vendita, per cui tali requisiti non sarebbero ravvisabili nel caso di atti isolati di commercio (LOCONTE, op. cit., p. 688), anche se non va sottaciuto che la giurisprudenza ha ritenuto la sussistenza di un’attività imprenditoriale anche nel caso di compimento di un unico affare, di non trascurabile rilevanza economica, quando essa venga effettuata a seguito di un’attività che abbia richiesto una pluralità di operazioni (Cass., 13 dicembre 2022, n. 36502). Per quanto concerne l’abitualità – profilo di complesso accertamento (così ALBERTINI, op. ult. cit., p. 378 s.) –, la Suprema Corte in passato, in una pronuncia riguardante la qualificazione del reddito come reddito d’impresa prodotto da un mercante d’arte, ha statuito che l’abitualità si correla ad elementi significativi idonei a dimostrare la sistematicità e la professionalità dell’attività d’impresa, quali il numero delle transazioni effettuate, gli importi elevati, la varietà della tipologia di beni alienati, senza che rilevi, ai fini impositivi, che il profitto conseguito venga capitalizzato in beni e non in denaro, in quanto porterebbe sempre intrinsecamente un arricchimento del patrimonio personale del soggetto (Cass., 31 marzo 2008, n. 8196). È comunque da sottolineare, come rilevato in dottrina, che “il confine tra ciò che è professione abituale e ciò che non lo è (…) risulta inevitabilmente caratterizzato da una zona grigia e deve essere individuato mediante un’analisi caso per caso, incentrata sulla valutazione di una serie di fattori, tra cui è possibile richiamare il numero di operazioni concluse, la distribuzione delle stesse nel tempo, i valori movimentati, i “margini” realizzati, la tipologia di contribuente, nonché l’analisi dei beni strumentali eventualmente impiegati” (così BAGAROTTO, op. cit., p. 293; v. anche ALBERTINI, op. ult. cit., p. 385), ma anche la frequenza delle operazioni concluse, la circostanza che le opere cedute siano state ricevute o meno per effetto di successione o donazione, il fatto che la cessione sia stata fatta a prezzo inferiore rispetto a quello di mercato o “in blocco” a favore di un unico soggetto, la circostanza che la vendita sia stata posta in essere per far fronte ad una situazione di improvviso bisogno finanziario del venditore, la tipologia di beni compravenduti e la destinazione data ai beni tra il momento dell’acquisto e quello della cessione (ancora BAGAROTTO, op. cit., p. 306).
5. Alla luce dell’attuale orientamento giurisprudenziale, non v’è chi non veda come al semplice collezionista possa facilmente essere contestata la imponibilità di un’operazione di cessione di opere d’arte, con tutto quello che ne consegue non solo ai fini del recupero dell’imposta e delle sanzioni, ma anche per i profili collegati ad adempimenti formali, quali tenuta della contabilità, presentazione della dichiarazione, ecc. Di fatto, praticamente tutte le attività e transazioni, anche se eseguite al solo scopo di migliorare la qualità della propria collezione, aumentandone anche il valore, rischiano di essere riqualificate come attività commerciali (abituali od occasionali) (cfr. LOCONTE, op. cit., p. 689), restando fuori dall’applicazione della imposizione solo i casi conclamati di dismissione patrimoniale derivante da cessione di opere acquisite in seguito ad atti di liberalità (v. STEVANATO, La vendita frazionata di una collezione d’arte configura “attività commerciale occasionale”? in Dialoghi trib., 2004, p. 67 s., secondo cui l’imponibilità dovrebbe escludersi, più in generale, ogniqualvolta non possa ravvisarsi la sussistenza di un nesso teleologico tra l’acquisto e la successiva cessione, in grado di disvelarne una “preordinazione” all’alienazione). Invece, si dovrebbe verificare caso per caso, se, ai fini dell’applicazione dell’art. 67 Tuir, i redditi che derivano da cessioni non effettuate abitualmente siano o meno inseriti all’interno di un’attività (occasionale) di intermediazione nella circolazione dei beni, e le cessioni facciano seguito ad atti (di acquisto, o successive attività di valorizzazione) ad esse funzionalmente collegati (BAGAROTTO, op. cit., p. 300).
Tutto ciò senza contare che vari elementi ritenuti indizio di un intento speculativo possono essere ben presenti anche nell’operato di un collezionista “puro”; basti pensare all’adozione di misure cautelari quali l’assicurazione dei beni, o i costi (a volte rilevanti) per il restauro degli stessi, o, ancora, l’esposizione in mostre (cfr. VOZZA, op. cit., p. 1385).
Di fatto, l’assenza di regole fiscali certe non solo determina disorientamenti negli operatori, ma anche rischia di innescare un potenziale duplice effetto negativo (v. SPINIELLO-BISOGNO, op. cit., p. 3436): da un lato alcuni collezionisti, a fronte di un avviso di accertamento, potrebbero trovarsi nella difficoltà di reperire la documentazione necessaria a giustificare le originarie intenzioni culturali e non speculative; dall’altro alcuni soggetti, sfruttando le incertezze normative, potrebbero cercare di mascherare il proprio intento speculativo, precostituendosi la prova del fine collezionistico delle transazioni compiute.
È dunque più che mai opportuno che la questione venga disciplinata nell’ambito della delega fiscale per la riforma tributaria, proprio al fine di porre alcuni punti fermi in una situazione foriera di incertezze e contestazioni. Infatti, la legge delega n. 9 agosto 2023, n. 111, ha previsto, tra l’altro, l’introduzione di disposizioni volte a porre rimedio alla attuale situazione di incertezza (si vedano peraltro le osservazioni di LEO, La necessità di regole più chiare per la tassazione del mondo dell’arte, in Corr. trib., 2021, p. 830). L’art. 5, comma 1, lett. b), per quanto riguarda i redditi diversi, prevede “l’introduzione di una disciplina sulle plusvalenze conseguite, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, dai collezionisti di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione nonché, in generale, di opere dell’ingegno creativo appartenenti alle arti figurative, escludendo i casi in cui è assente l’intento speculativo” (sull’equiparazione tra oggetti d’arte ed opere d’arte v. ALBERTINI, Osservazioni in tema di profili tributari della compravendita di opere d’arte, a margine di una recente pronuncia di legittimità, cit., par. 2). Questa proposta sembra per molti versi un ritorno all’antico, nel senso che la riforma prospettata sembra ricalcare quanto già richiamato dall’art. 76, comma 1, D.P.R. n. 597/1973, ossia quell’intento speculativo che farebbe sorgere plusvalenze tassabili come redditi diversi, se conseguite da soggetti non inquadrabili nel genus degli imprenditori.
L’obiettivo della riforma è dunque di (contribuire a) dare maggiore certezza e parametri oggettivi al trattamento tributario ai fini delle imposte sui redditi della cessione di opere d’arte (ma si veda anche l’art. 7 della l. delega, ove è prevista al comma 1, lett. e) la riduzione dell’aliquota dell’Iva all’importazione di opere d’arte, in recepimento della Direttiva UE 2022/542 del Consiglio del 5 aprile 2022, con estensione dell’aliquota ridotta anche alle cessioni di oggetti d’arte, antiquariato e da collezione), introducendo, nell’ambito dei redditi diversi, una disciplina sulle plusvalenze conseguite per la cessione di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione nonché più in generale di opere dell’ingegno di carattere figurativo appartenenti alle arti figurative (al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa), con esclusione da tassazione per le fattispecie in cui manchi l’intento speculativo.
In ultima analisi, emergerà allora con ancora più evidenza la questione della dimostrazione (da parte degli uffici) dell’intento speculativo, che deve essere preordinato (cfr. SPINIELLO-BISOGNO, op. cit., p. 3435; STEVANATO, La vendita frazionata di una collezione d’arte configura “attività commerciale occasionale”? in Dialoghi trib., 2004, p. 65), ma che continuerà a rappresentare un punto di frizione, per la difficoltà in molti casi di distinguerlo dall’intento meramente culturale, dovendosi dunque valutare caso per caso quando una cessione possa ragionevolmente ritenersi connotata da intento speculativo. Concordiamo con chi ritiene che, anche alla luce della recente riforma del sistema probatorio nel processo tributario, il più rigoroso onere della prova previsto a carico dell’Amministrazione finanziaria dovrà comportare un esame più accurato del quadro indiziario da cui dedurre l’esistenza dell’intento speculativo e che, in mancanza di dichiarazioni provenienti dalla parte privata (anche in sede di testimonianza scritta), esso potrà essere ricostruito soltanto con mezzi di prova indiretta, ossia, mediante la dimostrazione di fatti materiali da cui argomentare l’intento speculativo del cedente: “una prova, dunque, per presunzioni, nella quale il fatto da dimostrare (intento speculativo) discende da un procedimento inferenziale a partire dalla prova dell’esistenza di fatti materiali (elementi sintomatici di un obiettivo di profitto)” (VOZZA, op. cit., p. 1386).