L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 9198 del 22 marzo 2022 riafferma l’orientamento maggioritario della giurisprudenza secondo cui, in sede accertativa, il maggior reddito rilevato nei confronti dell’impresa familiare deve essere imputato solo all’imprenditore e non anche ai collaboratori familiari. Nel quadro attuale, tuttavia, carenze e disallineamenti normativi potrebbero condurre a soluzioni interpretative di segno opposto.
Imputation of the higher established income in the family enterprise The judgment reaffirms the majority jurisprudential orientation according to which, in the assessment, the highest income should be attributed only to the entrepreneur and not also to family workers. In the current framework, however, regulatory gaps could lead to different solutions.
1. L’ordinanza 22 marzo 2022, n. 9198, della Corte di Cassazione riafferma un orientamento maggioritario della giurisprudenza che legittima l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, ad imputare i maggiori valori rilevati nell’impresa familiare al solo titolare della stessa e non anche ai suoi collaboratori, in quanto, ai fini fiscali, tali redditi sarebbero dovuti confluire nella sua dichiarazione (cfr. Logozzo, Il trattamento della famiglia nell’ordinamento tributario, in Ferrante (a cura di), Lavoro, cittadinanza, famiglia, Milano, 2016, p. 93 ss.).
Eppure, nel quadro attuale, carenze normative ed asimmetrie fra la disciplina fiscale e quella civilistica potrebbero condurre a soluzioni interpretative di segno opposto (cfr. Napoli-Villani, Impresa familiare: aspetti civilistici, fiscali e previdenziali, in il fisco, 37/2003, p. 5747 ss.; Sacchetto (a cura di), La tassazione della famiglia: aspetti nazionali e comparati, 2020, passim; D’Andrea, Impresa individuale e impresa familiare – Disciplina civilistica e regime fiscale, Pisa, 2022, passim). È noto infatti come, nel corso degli ultimi anni, l’istituto sia stato oggetto di numerose e profonde trasformazioni, legate al mutato ruolo della donna e, più in generale, all’evoluzione del nucleo domestico e dei rapporti intra-familiari. Ciò ha portato alla riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151), al superamento della praesumptio iuris tantum di gratuità della prestazione lavorativa resa dal familiare per affectionis vel benevolentiae causa, al passaggio dal principio del cumulo (che prevedeva l’imputazione al marito, inteso come capofamiglia, dei redditi prodotti da mogli e figli) a quello del decumulo, nonché, da ultimo, alla c.d. legge Cirinnà (l. 76/2016) riguardante le convivenze di fatto e le unioni civili tra persone dello stesso sesso.
2. In primis, vale la pena evidenziare come l’art. 230-bis c.c. (art. 89, l. 151/1975) si limiti a delineare i contorni dell’istituto senza fornire una definizione di impresa familiare (cfr. Prosperi, Impresa Familiare – Art. 230-bis, in Il Codice Civile. Commentario, Milano, 2006, passim): essa può essere intesa come quella in cui collaborano, in modo continuativo e non occasionale, uno o più familiari dell’imprenditore – coniuge, parenti (artt. 74 ss., c.c.) entro il terzo grado ed affini (art. 78, c.c.) entro il secondo grado – a cui spettano, salvo la sussistenza di diverso rapporto lavorativo, il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia nonché la partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda (compreso l’avviamento) in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (ciò riguarda, secondo l’art. 230-ter c.c., anche il [continua..]