Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

05/12/2022 - All’esame della corte EDU gli elenchi di evasori in rete per il controllo pubblico diffuso sul dovere tributario

argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza

Con la sentenza “L.B. contro Ungheria”, la Corte EDU ha deciso che non lede vita privata e familiare (art. 8 CEDU) la pubblicazione on line, da parte di un’amministrazione fiscale, di elenchi dei contribuenti inadempienti recanti, oltre al nome e al codice fiscale, l’indirizzo di residenza e l’importo dovuto. I giudici di Strasburgo reputano, dunque, che la pubblicazione di tali dati sul sito istituzionale dell’amministrazione rifletta un sano bilanciamento tra il diritto alla riservatezza, il diritto ad essere informati dei consociati (in specie, i potenziali “business partners”) e l’interesse economico generale alla riscossione delle entrate pubbliche attraverso un controllo diffuso con funzione deterrente. La soluzione suscita parecchie perplessità, di ordine generale, sull’efficacia degli elenchi nei sistemi tributari e sulla loro natura giuridica, e, più puntuali, sulla compatibilità della misura ungherese con i diritti alla minimizzazione dei dati, all’oblio e al risarcimento dei danni a seguito della lesione della vita privata e familiare dell’individuo. La sentenza, pronunciata dalla quarta camera e corredata da un’articolata dissenting opinion, non è divenuta definitiva ed è ora all’esame della Grande Camera.

» visualizza: il documento (Corte EDU, 12 gennaio 2021, ricorso n. 36345/16) scarica file

PAROLE CHIAVE: pubblicità - elenchi di evasori - internet - dati personali - vita privata e familiare


di Chiara Francioso

  1. Introduzione. Con la sentenza “L.B. contro Ungheria” la quarta camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sulla compatibilità con la CEDU degli elenchi di evasori pubblicati sul sito web dell’amministrazione tributaria ungherese (cfr. i commenti di VAN DER SLOOT, L.B. v. Hungary: Disclosure of Information on Individuals with Tax Debt: Important Public Information or Pillory Politics, in Eur. Data Protection L. Rev., 2021, p. 140 ss.; PURPURA, Protection of Taxpayers’ Personal Data and National Tax Interest: A Misstep by the European Court of Human Rights?, in Intertax, 2021, p. 1044; COCIANI, La pubblicazione in rete di un elenco di evasori fiscali, tra sanzioni improprie e privilegia fisci, in http://diritti-cedu.unipg.it/, 30 novembre 2021; MARINELLO, Pubblicazione di dati personali dei contribuenti e rispetto della vita privata secondo la Corte EDU: la difficile ricerca di un equilibrio tra interesse fiscale e diritto alla riservatezza, in Riv. dir. trib., 2022, IV, p. 12 ss.).

L’Ungheria, come parecchi Stati europei, pubblica in rete elenchi di persone fisiche ed entità giuridiche che non abbiano provveduto al pagamento di debiti tributari. Simili misure hanno l’obiettivo di stimolare la riscossione spontanea dei tributi facendo leva sull’effetto deterrente e sulle potenziali ricadute reputazionali della divulgazione. Si tratta dell’approccio – impiegato in svariati ambiti – c.d. “name and shame”, che, con la pubblicazione di informazioni nominative, innesca dinamiche di mutuo controllo sociale sul rispetto o la violazione di determinate disposizioni [Hey, Transparency and Publicity, in Hey-Başaran Yavaşlar (a cura di), Tax Transparency: 2018 EATLP Congress, IBFD, Amsterdam, 2019, p. 205 ss.].

In particolare, il regime portato all’attenzione della Corte prevede la pubblicazione dei dati dei contribuenti con debiti tributari superiori a dieci milioni di fiorini ungheresi (circa 30.000 euro), definitivamente accertati (L. n. XCII/2003 sull’Amministrazione fiscale, § 55). Oltre agli importi dovuti, vengono divulgati nominativi o denominazioni sociali, indirizzi di residenza o di stabilimento e numeri di identificazione fiscale. Se il debito viene saldato, è prevista la pronta rimozione del nominativo dalla lista.

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso di una persona fisica, coinvolta dalla divulgazione, che ha lamentato la lesione del diritto al rispetto della vita privata e familiare ex art. 8 CEDU. In seguito alla pubblicazione sul sito web dell’amministrazione tributaria, il ricorrente era stato incluso in una mappa interattiva dei contribuenti inadempienti, che permetteva di visualizzare nominativo, indirizzo di residenza e debito tributario di ciascuno di essi cliccando sui vari territori rappresentati.

L’articolo 8 della Convenzione tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza dell’individuo. Come noto, costituisce il fondamento più risalente del diritto alla protezione dei dati personali (che ne è il principale corollario) per gli ordinamenti, come quello italiano, che hanno tardato a dotarsi di una disciplina domestica ad hoc (Scagliarini, La riservatezza e i suoi limiti. Sul bilanciamento di un diritto preso troppo sul serio, Aracne, Roma, 2013, p. 62). Il diritto alla protezione dei dati personali è attualmente oggetto di una “tutela multilivello” che, per gli Stati aderenti al Consiglio d’Europa e all’Unione europea, promana dagli artt. 8 CEDU e 7-8 della Carta di Nizza ed è attuato dalla Convenzione n. 108/1981 del Consiglio d’Europa (aggiornata nel 2018), dal Regolamento generale europeo n. 679/2016 e dalle disposizioni domestiche integrative. Questo sistema di fonti non delinea un diritto alla riservatezza assoluta, bensì il diritto di «[…] potersi proiettare liberamente nel mondo attraverso le proprie informazioni, mantenendo però sempre il controllo sul modo in cui queste circolano e vengono utilizzate da altri» (Rodotà, Intervista su privacy e libertà, a cura di Conti, Laterza, Bari, 2005, p. 19). L’art. 8, comma 2, infatti, ammette restrizioni al rispetto della vita privata e familiare se previste per legge e necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

La Corte, pur se non all’unanimità, ha ritenuto legittimo e proporzionato il regime di pubblicazione ungherese: infatti, l’indubbia ingerenza nel diritto alla vita privata dell’autorità pubblica ungherese, oltre ad essere prevista per legge, rifletterebbe un corretto bilanciamento tra il diritto alla riservatezza, il diritto ad essere informati dei consociati (in specie, i potenziali “business partners” dei soggetti inadempienti) e l’interesse economico generale alla riscossione delle entrate pubbliche.

Tuttavia, la sentenza, corredata da un’articolata opinione dissenziente (di due giudici su sette), non è divenuta definitiva, poiché il contribuente ha richiesto ed ottenuto il rinvio della questione alla Grande Camera, superando il filtro di ricevibilità ex art. 43, comma 2, CEDU. La vicenda, lungi dall’essere risolta, solleva “gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione” o, comunque, “un’importante questione di carattere generale” e, dunque, appare opportuno soffermarsi di seguito sulle principali criticità dell’analisi di proporzionalità svolta dai giudici.

La pronuncia non è priva di rilievo per l’Italia, poiché resiste nel nostro ordinamento una risalente previsione di pubblicazione cartacea di “elenchi dei contribuenti” su base comunale, per la durata di un anno (artt. 69, D.P.R. n. 600/1973, e 66-bis, D.P.R. n. 633/1972). Tuttavia, dopo la querelle generata dalla pubblicazione on line nel 2008, da parte dell’Agenzia delle entrate, di elenchi formati in base alle dichiarazioni del periodo d’imposta 2005, il legislatore è intervenuto in senso restrittivo (art. 42, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modificazioni da L. 6 agosto 2008, n. 133), prevedendo, in luogo della libera consultabilità, la sola facoltà di domandarvi accesso secondo gli artt. 22 ss. della L. 7 agosto 1990, n. 241 [sui dubbi interpretativi suscitati da questa restrizione, cfr. compiutamente Trivellin, sub art. 69, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in F. Moschetti (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, vol. II, CEDAM, Padova, 2011, p. 353; Rasi, Pubblicazione degli elenchi dei contribuenti, in Uricchio (a cura di), L’accertamento tributario, Giappichelli, Torino, 2014, p. 427 ss.].

 

  1. Il precedente finlandese. In precedenza, la Corte EDU aveva già deciso una causa relativa agli elenchi pubblici dei redditi e dei patrimoni dei contribuenti finlandesi (Corte EDU, 27 giugno 2017, Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia, ricorso n. 931/13).

La Finlandia adottava a quel tempo, e mantiene tuttora, un regime di pubblicazione ben più esteso di quello ungherese, ma con modalità meno impattanti per la riservatezza individuale. Nella specie, gli elenchi hanno ad oggetto non solo i contribuenti insolventi, bensì il dichiarato e/o l’accertato per ogni entità giuridica o persona fisica del Paese. Tuttavia, la pubblicazione sul sito web dell’amministrazione è riservata alle entità giuridiche, mentre gli elenchi delle persone fisiche sono consultabili solo da appositi terminali presso gli uffici tributari o con richiesta telefonica. Dalle postazioni non è possibile stamparli o scaricarli su alcun supporto portatile, ma è consentita la richiesta di estratti. L’Amministrazione finlandese, comunque, invia regolarmente ai media i dati dei contribuenti che possiedono redditi elevati, che ricevono così ampia diffusione.

Nei primi anni Duemila, i media presero ad estrarre sistematicamente dagli elenchi pubblici dati reddituali e patrimoniali delle persone fisiche per la ripubblicazione in altre forme, per la successiva cessione attraverso CD-ROM per scopi commerciali e per il loro impiego nell’ambito di un servizio di SMS che consentiva agli utilizzatori di telefoni mobili, previa comunicazione del nome e della residenza di una persona, di ricevere i suoi dati reddituali e patrimoniali.

Tali pratiche furono poste all’attenzione, dapprima, della Corte di giustizia e poi della Corte EDU alla ricerca del corretto bilanciamento fra la libertà d’espressione e di stampa ed il diritto alla protezione dei dati personali.

La Corte di Giustizia, nel 2008, decise in via pregiudiziale sull’applicabilità delle deroghe al diritto alla privacy per le attività dei media, allora previste dall’art. 9 della Direttiva n. 95/46/CE (Corte di Giustizia UE, 16 dicembre 2008, C‑73/07, Tietosuojavaltuutettu c. Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy). La sentenza si limitò a statuire che: le pratiche attuate dai media costituivano “trattamento di dati personali” ai sensi Direttiva e che sarebbe spettato al giudice nazionale verificare se tali attività costituissero trattamento di dati personali «esclusivamente a scopi giornalistici», accertando che la loro unica finalità fosse «la divulgazione al pubblico di informazioni, opinioni o idee» (§ 62). Il giudice nazionale reputò che quei servizi di divulgazione, più che contribuire al dibattito pubblico in una società democratica, avessero invece la finalità di soddisfare la mera curiosità dei consociati.

La Grande Camera della Corte EDU si espresse nei medesimi termini nell’ambito di un diverso procedimento, tra le stesse parti, avente ad oggetto nuove censure del Garante della privacy domestico ai servizi di divulgazione dei dati dei contribuenti (Corte EDU, 27 giugno 2017, Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia, ricorso n. 931/13, che al § 22 riepiloga la decisione del giudice nazionale). Essa condivise il consolidato orientamento della Corte di giustizia secondo cui la pubblicità dei dati non vale ad escluderli dalle tutele prescritte dalla Direttiva UE in caso di riutilizzo degli stessi. In particolare, furono valorizzate le modalità di pubblicazione: poiché la normativa finlandese aveva prescritto stringenti limitazioni sia per i cittadini sia per i giornalisti (consultabilità solo presso i terminali degli uffici o telefonicamente; divieto di estrarre copia; possibilità per la stampa di richiedere estratti riguardanti un numero circoscritto di persone; divieto di pubblicazione sotto forma di lista), una divulgazione incontrollata avrebbe violato il bilanciamento tra interessi contrapposti compiuto a monte dal legislatore. La sentenza tenne poi in espressa considerazione il fatto che la maggior parte dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa non garantisse il pubblico accesso alle informazioni di natura fiscale dei contribuenti. Anche quella decisione, come quella sul caso ungherese, fu accompagnata da una dissenting opinion.

 

  1. La decisione del caso ungherese. Mettendo in luce il fenomeno delle mappe interattive degli evasori, il caso ungherese – al pari di quello finlandese – è emblematico della degenerazione causata dalla ripubblicazione e rielaborazione, da parte dei media, dei dati divulgati dalle Amministrazioni. Ciononostante, la Corte – col disaccordo di due giudici su sette – esclude preliminarmente che il caso portato alla sua attenzione richieda di considerare il destino dei dati successivamente alla prima pubblicazione da parte dell’Amministrazione, riconoscendo, anzi, che «è principalmente grazie alla successiva ripubblicazione […] ed ai motori di ricerca che le informazioni sul ricorrente potevano essere facilmente reperite dagli utenti di Internet» (§ 16, traduzione non ufficiale).

I giudici sono chiamati a contemperare il diritto alla riservatezza individuale con l’interesse collettivo ad una celere riscossione dei tributi, che in ultima analisi contribuisce al benessere economico del Paese (una delle deroghe ammissibili ex art. 8, comma 2, CEDU). All’obiezione del ricorrente secondo cui la pubblicazione sul web risulta lesiva della dignità dei contribuenti, si contrappone, infatti, la tesi del Governo per cui la misura risponde agli scopi di assicurare il buon funzionamento dello Stato, affermare il principio del comune concorso alle spese pubbliche e informare i potenziali business partners sulla solvibilità degli altri attori economici.

Appurato che la pubblicazione di liste di soggetti inadempienti costituisce un’ingerenza di una autorità pubblica nel diritto alla vita privata, prevista dalla legge e rispondente ad un obiettivo legittimo, la Corte si concentra sulla necessità di tale misura, in una società democratica, per il benessere economico del Paese, e sulla sua proporzionalità allo scopo. Essa chiarisce che non si tratta di verificare se fossero ipotizzabili misure meno restrittive dei diritti per perseguire il medesimo scopo, bensì se lo Stato abbia agito entro l’ampio margine di apprezzamento riconosciutogli per le «misure generali di strategia economica o sociale», che tuttavia si restringe laddove l’attività pubblica impatti su un aspetto particolarmente importante dell’esistenza o dell’identità di un individuo (§ 49-50, traduzione non ufficiale). Si rammenta, infatti, che anche i dati di carattere prettamente patrimoniale o reddituale, se riconducibili ad una persona fisica, costituiscono “dati personali” nell’accezione tutelata in ambito europeo (Corte EDU, 7 luglio 2015, M.N. ed altri c. San Marino, ricorso n. 28005/12, § 51; Id., 1 dicembre 2015, Brito Ferrinho Bexiga Villa-Nova c. Portugal, ricorso n. 69436/10, § 42-44; Corte di Giustizia UE, 20 maggio 2003, Rechnungshof e altri c. Österreichischer Rundfunk, cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, § 73).

Pur riconoscendo che la pubblicazione su Internet è più insidiosa di quella sulla stampa tradizionale, i giudici ne valorizzano la maggior efficacia in termini di accessibilità delle informazioni e diritto ad essere informati.

Anche le restanti condizioni di pubblicazione vengono reputate proporzionate, poiché, in sintesi: (i) la scelta di pubblicare informazioni aggiuntive rispetto al nominativo (come l’indirizzo di residenza) soccorre in caso di omonimia; (ii) l’Amministrazione è tenuta a rimuovere le informazioni subito dopo aver ricevuto il pagamento; (iii) il sito web non ammette i commenti del pubblico (evitando dunque di enfatizzare il «public-shaming effect»); (iv) il ricorrente non ha dimostrato di aver subito un pregiudizio concreto dalla pubblicazione. A ciò si aggiunga che il requisito di definitività dei debiti previsto dalla disposizione ungherese impone di escludere dalla pubblicazione quanti abbiano un giudizio tributario pendente (circostanza non espressamente valorizzata dalla Corte).

 

  1. Notazioni critiche e rinvio alla Grande Camera. L’analisi di proporzionalità svolta dai giudici suscita alcune perplessità. Le prime due, di ordine generale, attengono all’efficacia degli elenchi pubblici nei sistemi tributari e alla loro natura giuridica. Altre, più puntuali, riguardano l’apparente contrasto dell’elenco ungherese con i diritti alla minimizzazione dei dati, all’oblio e al risarcimento dei danni a seguito della lesione della vita privata e familiare dell’individuo.

Il principale scopo degli elenchi pubblici ungheresi è quello di fornire un impulso allo spontaneo assolvimento dei tributi attraverso un meccanismo deterrente basato sulle ricadute reputazionali della pubblicazione. Orbene, quanto all’efficacia, non è affatto semplice misurare l’eventuale beneficio per il gettito delle politiche di “public shaming”, poiché rendono note al pubblico informazioni che le amministrazioni tributarie hanno già utilizzato per fini istruttori e accertativi. La Corte, nella sentenza “L.B. c. Ungheria” pare esserne ben conscia laddove «riconosce le difficoltà nello stabilire se la pubblicazione dei dati dei contribuenti inadempienti abbia realmente contrastato l’evasione fiscale e la perdita di gettito» (§ 52, traduzione non ufficiale). Tale considerazione – isolata – non vale però ad instillare alcun dubbio nei giudici circa la proporzionalità della lista ungherese. Pur ammettendo la legittimità dell’obiettivo, ci chiediamo se possa giustificarsi la massiva lesione di un diritto fondamentale quale quello alla vita privata e familiare in assenza di dati univoci sull’efficacia della pubblicazione [sugli esiti variabili dell’analisi economica di vari regimi di “public shaming”, cfr. Hasegawa-Hoopes-Ishida-Slemrod, The Effect of Public Disclosure on Reported Taxable Income: Evidence from Individuals and Corporations in Japan, in National Tax J., 2013, p. 571 ss.; Bø-Slemrod-Thoresen, Taxes on the Internet: Deterrence Effects of Public Disclosure, in American Economic J., 2015, p. 39; Blaufus-Bob-Otto-Wolf, The Effect of Tax Privacy on Tax Compliance – An Experimental Investigation, in Eur. Accounting Rev., 2017, p. 561 ss. Sul rischio che la disclosure agevoli comportamenti delittuosi (furti o rapimenti) o comunque lesivi della dignità (bullismo nei confronti dei familiari della persona interessata dalla pubblicazione), cfr. altresì Matsubara, Japan – National Report, in Hey-Başaran Yavaşlar (a cura di), Tax Transparency: 2018 EATLP Congress, IBFD, Amsterdam, 2019, p. 710. Tale rischio è evidenziato anche da una recente sentenza della Corte di giustizia (Grande sezione, 22 novembre 2022, cause riunite C‑37/20 e C‑601/20, WM e Sovim c. Luxembourg Business Registers), concernente l’accessibilità al pubblico, anche via Internet, delle informazioni sulla titolarità effettiva delle società costituite nel territorio degli Stati membri, in conformità alla c.d. “Direttiva antiricilaggio” n. 2015/849/UE].

Sempre ai fini del giudizio di proporzionalità, la seconda perplessità concerne la possibile natura sanzionatoria degli elenchi, sulla quale la Corte non si è espressa. Se la pubblicazione ha il merito di stimolare un dibattito pubblico sull’equo concorso alle spese pubbliche, di riflesso, si può scorgere un netto intento deterrente/afflittivo nel meccanismo reputazionale alla sua base. La pubblicazione – amplificata dalle caratteristiche del web – dei debiti non saldati o degli importi accertati può, infatti, peggiorare la percezione che i terzi hanno del contribuente coinvolto. L’effetto reputazionale, a sua volta, può ripercuotersi negativamente sulla sua sfera economica, poiché la sua affidabilità è messa in discussione dal contenuto pubblicato. Come evidenziato da più parti, il meccanismo reputazionale si risolve sostanzialmente in una sanzione aggiuntiva (a quelle amministrative e/o penali ordinariamente previste) per il contribuente inadempiente (Tomo, Liste di evasori e CEDU: riflessioni in merito alla (dubbia) proporzionalità delle misure di public shame, in Riv. tel. dir. trib., 17 settembre 2021; Cociani, La pubblicazione in rete di un elenco di evasori fiscali, tra sanzioni improprie e privilegia fisci, in diritti-cedu.unipg.it, 30 novembre 2021; Weffe, Highlights and Trends in Global Taxpayers’ Rights 2020, in Bull. for Int’l Tax., 2021, p. 312). L’efficacia sostanzialmente sanzionatoria degli “elenchi di evasori” si coglie, del resto, se si paragona questa ad altre forme di pubblicazione annoverate invece tra le sanzioni tipiche. Nel nostro ordinamento penal-tributario, è il caso della pubblicazione della sentenza di condanna (a norma dell’art. 36 c.p.) per i delitti di cui al D. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, prevista fra le “pene accessorie” ex art. 12, comma primo, lett. e) del medesimo Decreto [Cfr. Puccetti, sub art. 36 c.p., aggiornato da Lombardo, in Codice penale commentato, in Leggi d’Italia, § 1-2 (ed i riferimenti dottrinali ivi contenuti), che segnala come lo scopo di questa pena accessoria risulti ancora controverso, discutendosi se possa differire in base al tipo di reato accertato. In particolare, è stata prospettata una funzione generalpreventiva per i delitti puniti con l’ergastolo (poiché la pubblicazione parrebbe accentuare l’efficacia esemplare ed intimidatoria della pena principale) ed una funzione informativa dei terzi rispetto alla commissione di reati con mezzi fraudolenti. Non sono mancate voci critiche di questa misura quando non risponda ad una finalità di prevenzione, ma abbia il solo scopo di attribuire un marchio d’infamia alla persona condannata].

Sebbene l’inclusione nelle liste non sia generalmente censita tra le sanzioni tipiche degli ordinamenti, occorre nondimeno valutare che essa concorre alla complessiva reazione punitiva di una violazione tributaria, già sanzionata amministrativamente e/o penalmente. Di ciò – indipendentemente dalla compatibilità di tale assetto col ne bis in idem – il test di proporzionalità degli elenchi pubblici dovrebbe tenere conto (sulle sanzioni improprie, categoria, controversa in dottrina, alla quale sembrano riconducibili le misure di “name and shame”, cfr., senza pretesa di esaustività, De Mita, La legalità tributaria, Giuffrè, Milano, 1993, p. 81 ss.; Coppa-Sammartino, Sanzioni tributarie, in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 1989, p. 425-426; Del Federico-Montanari, Decriminalization on Tax Law by Administrative Penalieties on Tax Duties, in Seer-Wilms, Surcharges and Penalties in Tax Law: 2015 EATLP Congress, IBFD, Amsterdam, 2016, p. 105 ss.; Del Federico, Sanzioni proprie e sanzioni improprie, in Giovannini-Di Martino-Marzaduri (a cura di), Trattato di diritto sanzionatorio tributario, diretto da Giovannini, vol. II, Giuffrè, Milano, 2016, p. 1317 ss.; Alfano, Sanzioni amministrative tributarie e tutela del contribuente, Editoriale scientifica, Napoli, 2020, p. 289 ss.).

Venendo a profili critici più puntuali, non si concorda con l’osservazione della Corte secondo cui la proporzionalità della pubblicazione sarebbe garantita, fra l’altro, dalla pronta cancellazione dei dati a fronte del pagamento. È ben noto, specie per gli esperti di informatica giuridica, che “la rete non dimentica”, poiché qualsiasi contenuto inserito su una pagina web può essere ripubblicato e rielaborato su altre, rendendo la sua rimozione dispendiosa se non, alle volte, impossibile. Del resto, il rischio sussisteva anche nel caso in questione, poiché il ricorrente aveva portato all’attenzione della Corte la ripubblicazione dei propri dati nella menzionata mappa interattiva degli evasori elaborata dalla stampa. La legislazione ungherese riepilogata in sentenza, infatti, non pare aver adottato particolari accorgimenti tecnici o giuridici volti a limitare il riutilizzo dei dati da parte di terzi (quali un’interfaccia che precluda il download o l’estrazione di copia; il divieto di indicizzazione dei risultati sui motori di ricerca o il divieto di divulgazione su portali diversi da quello ufficiale). In assenza di qualsiasi restrizione, non si può escludere che gli stessi dati possano essere reimpiegati a fini commerciali, ad esempio, nell’ambito di servizi di profilazione sull’affidabilità della clientela di istituti finanziari.

Tenendo a mente quest’eventualità, non si condivide neppure la considerazione dei giudici secondo cui la pubblicazione sarebbe proporzionata (anche) perché non comportante un danno concreto per il ricorrente. Infatti, oltre alla difficoltà di misurare il pregiudizio reputazionale patito nella sua ristretta comunità, l’inclusione nell’elenco pubblicato potrebbe avere un impatto pregiudizievole più a lungo termine la cui prova in giudizio potrebbe rivelarsi diabolica (si pensi alla difficoltà di collegare causalmente l’inclusione nella lista con il successivo reiterato rifiuto di finanziamenti).

L’ultimo rilievo critico riguarda il mancato rispetto del diritto alla minimizzazione dei dati, affermatosi nell’UE, ma espressione del più generale principio di proporzionalità.  Anche tralasciando le perplessità di ordine generale sulle politiche di “public shaming” già espresse, può essere ragionevole corredare il nominativo e il debito con un elemento ulteriore che soccorra in caso di omonimie, ma non si coglie la necessità di inserire due elementi a questo scopo (numero di identificazione fiscale ed indirizzo di residenza).

L’opinione dissenziente è motivata proprio in riferimento al mancato rispetto del criterio di minimizzazione e del diritto all’oblio. Inoltre, i giudici dissenzienti ritengono che sia estremamente difficile dimostrare di aver subito un danno dovuto alla pubblicazione poiché esso «di solito rimane nella sfera morale, dove il [suo] concreto impatto […] è semplicemente impossibile da misurare oggettivamente» e che la constatazione di una violazione dell’art. 8 CEDU sarebbe stata sufficiente ai fini di un risarcimento [§ 9-14 della dissenting opinion, traduzione non ufficiale. Con riguardo all’ultima affermazione, tuttavia, l’art. 41 CEDU, la giurisprudenza e la prassi della Corte EDU fanno propendere per la non configurabilità di un danno “in re ipsa” e, dunque, per la necessità che il danneggiato ne dia dimostrazione, talora col ricorso a presunzioni. In mancanza di tale dimostrazione, la Corte «può disporre che l’accertamento della violazione costituisca di per sé una adeguata equa soddisfazione e che non sia necessario accordare un risarcimento pecuniario» (Istruzioni pratiche sulle domande di equa soddisfazione emanate dal Presidente della Corte ai sensi dell’art. 32 del Regolamento della Corte, 28 marzo 2007, p. 1. Si vedano anche Corte EDU, 17 marzo 2016, Kahn c. Germania, ricorso n. 16313/10, § 75; Id., 17 luglio 2018, Egill Einarsson c. Islanda, ricorso n. 31221/15, § 39; e, infine, Cancelleria della Corte EDU, Guide on Article 8 of the European Convention on Human Rights, aggiornata al 31 agosto 2021, § 179)].

In definitiva, nel caso ungherese, la Corte EDU non ha posto argini incisivi alla pubblicazione on line di dati personali da parte di un’amministrazione tributaria, neppure se vengano divulgati dati ulteriori rispetto a quelli indispensabili per l’identificazione e siano riutilizzati dai media per accentuare lo stigma della violazione.

Auspicabilmente, la Grande Camera potrà meglio ponderare questi aspetti nel riesaminare, in sede di rinvio ex art. 43 CEDU, la proporzionalità della normativa ungherese.