Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

07/04/2021 - Considerazioni sull’ambito di applicazione dell’esenzione Iva alle prestazioni sanitarie in seguito ai recenti sviluppi giurisprudenziali.

argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza

Con la sentenza in causa C-700/17 del 18 settembre 2019, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha superato la propria precedente giurisprudenza e ha allargato l’ambito di applicazione dell’esenzione Iva per le prestazioni mediche di cui all’art. 132, comma 1, lett. c) della Direttiva 2006/112. Infatti, non è ora più richiesta la sussistenza di un rapporto diretto tra medico e paziente per poter beneficiare dell’esenzione: ciò apre la possibilità anche a una clinica privata o a un laboratorio di analisi che si serva di professionisti abilitati di fatturare in esenzione al paziente, nonostante la prestazione non sia resa direttamente alla persona. Si può dire che stia assumendo un ruolo centrale lo scopo della prestazione, in quanto idoneo a segnare il confine tra le prestazioni mediche esenti e quelle assoggettate a imposizione.

» visualizza: il documento (CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA (Sesta Sezione) Sent.18 settembre 2019, causa C-700/17) scarica file

PAROLE CHIAVE: - esenzioni - IVA - prestazioni sanitarie


di Federica Zini

  1. La disciplina dell’Iva, forse per la connotazione europea, forse per la sua regolamentazione articolata, desta spesso dubbi interpretativi, che aumentano se si parla del regime delle esenzioni. Le norme agevolative, difatti, rappresentano una deroga al regime ordinario del tributo, in vista dei valori costituzionali che si intendono tutelare con l’applicazione dell’agevolazione, ma, non essendo pensate per favorire, in larga scala, tutti gli operatori, è frequente che sorgano nella prassi numerose incertezze in proposito (sul punto si veda Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, Torino, 2013, pp. 49-50).

Per quanto riguarda le prestazioni sanitarie (alcune tra le più importanti esenzioni a interesse pubblico) è spesso capitato che, affidandosi alla regola generale di interpretazione delle fattispecie di esenzione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, in base alla quale le norme di esenzione – in quanto deroghe all’applicazione dell’imposta – devono essere interpretate restrittivamente, sono state escluse dal regime agevolativo prestazioni mediche per formalismi eccessivamente rigorosi, rischiando di svuotare la ratio stessa della disciplina, consistente nella volontà di non far gravare sui contribuenti la fruizione di prestazioni necessarie per la tutela della salute.

Tuttavia, la recente sentenza della Corte di Giustizia UE C-700/17, discostandosi dal proprio precedente orientamento basato su un’interpretazione formalistica del dettato normativo, ha ampliato l’ambito di applicazione delle esenzioni in esame; grazie al cambio di rotta giurisprudenziale stiamo approdando a un’interpretazione che dà rilievo all’effettiva natura e allo scopo della prestazione medica.

La disciplina normativa che regola la fattispecie in esame è contenuta nella Direttiva 2006/112/CE, che ha sostituito la precedente sesta Direttiva Iva (77/388/CEE) e che all’art. 132, comma 1 ricomprende tra le operazioni esenti:

- alla lettera b) “l'ospedalizzazione e le cure mediche nonché le operazioni ad esse strettamente connesse, assicurate da enti di diritto pubblico oppure, a condizioni sociali analoghe a quelle vigenti per i medesimi, da istituti ospedalieri, centri medici e diagnostici e altri istituti della stessa natura debitamente riconosciuti dall’imposta in questione”, disposizione recepita dall’art. 10, comma 1, n. 19 del D.P.R. 633/72 che prevede l’esenzione per “le prestazioni di ricovero e cura rese da enti ospedalieri o da cliniche e case di cura convenzionate, nonché da società di mutuo soccorso con personalità giuridica e da enti del Terzo settore di natura non commerciale compresa la somministrazione di medicinali, presidi sanitari e vitto, nonché le prestazioni di cura rese da stabilimenti termali”;

- alla lettera c) “le prestazioni mediche effettuate nell'esercizio delle professioni mediche e paramediche quali sono definite dallo Stato membro interessato”, ovvero il “nostro” n. 18 dell’art. 10 D.P.R. 633/72, in base al quale sono esenti “le prestazioni sanitarie di diagnosi, cura e riabilitazione rese alla persona nell'esercizio delle professioni e arti sanitarie soggette a vigilanza, ai sensi dell'articolo 99 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modificazioni, ovvero individuate con decreto del Ministro della sanità, di concerto con il Ministro delle finanze”.

 

  1. Un diffuso orientamento giurisprudenziale precedente (CGUE, 23 febbraio 1988, causa C-353/85; Id., 10 settembre 2002, causa C-141/00; Id., 8 giugno 2006, causa C-106/05; Id., 2 luglio 2015, causa C-334/14) ravvisava il criterio distintivo tra la nozione di “cure mediche” e quella di “prestazioni mediche” non tanto nella natura della prestazione, quanto nel luogo della sua erogazione, applicando la lettera b) alle prestazioni “ospedalizzate” e la lettera c) alle attività “ambulatoriali”, rese al di fuori del contesto ospedaliero. Questa classificazione ipotizzava uno scenario in cui tutte le prestazioni medico-sanitarie sarebbero state rese con due alternative:
  2. tramite un ente ospedaliero (pubblico) o cliniche, case di cura (private) operanti in convenzione con il servizio sanitario nazionale;
  3. per mezzo di un professionista abilitato (riconosciuto tale dalla legge interna), che rende la prestazione al di fuori dell’ambito ospedaliero, quindi in un ambulatorio privato o presso il domicilio del soggetto in cura, con il quale sussiste un rapporto di fiducia.

Tale rapporto intuitu personae tra medico e paziente rappresentava un ulteriore requisito considerato dalla precedente giurisprudenza come indispensabile per poter beneficiare dell’esenzione: ciò implicava dunque che la prestazione dovesse essere resa direttamente al paziente stesso, mentre l’esenzione era negata qualora la prestazione fosse stata effettuata non nei confronti della persona in cura, ma di una struttura sanitaria.

L’alternativa prospettata comportava che qualora un’attività non avesse presentato tutti i requisiti richiesti dalla lettera (b o c, che fosse), non avrebbe potuto beneficiare dell’esenzione: si pensi al caso in cui una prestazione medica fosse stata resa (e quindi fatturata) da un medico in un contesto di ricovero presso una struttura privata non convenzionata con il servizio sanitario nazionale. Secondo l’orientamento in esame sarebbe stato corretto non far operare l’esenzione proprio perché non sarebbe stata rispettata l’alternatività di cui si è detto, oltre al fatto che non sarebbe stato ravvisabile il rapporto intuitu personae tra medico e paziente: tale rapporto diretto sarebbe stato infatti “interrotto” dal fatto che il medico non fatturava direttamente al paziente, ma alla clinica privata, la quale, successivamente, fatturerà nei confronti del paziente (sull’interpretazione elaborata dalla Corte di Giustizia si vedano le considerazioni critiche di Chinellato, Sull’interpretazione delle norme UE e nazionali in materia di prestazioni di diagnosi, cura e ospedalizzazione, in Rassegna Tributaria, 2012, 5, p. 1219 e ss ).

 

È ciò che si è verificato nel caso analizzato dalla Risoluzione 87/E del 2010, in cui – proprio applicando con eccessivo rigore la disciplina in esame – l’Agenzia delle entrate ha qualificato come esenti le prestazioni di “diagnosi, cura e riabilitazione” rese ambulatorialmente da professionisti e operatori sanitari nell’ambito di una clinica privata non convenzionata (in presenza di un rapporto intuitu personae), mentre ha sottoposto a imposizione le medesime prestazioni rese ai pazienti in occasione di un ricovero presso la struttura non convenzionata, tanto in relazione alla componente relativa all’alloggio e all’assistenza, quanto a quella propriamente attinente alla “diagnosi e cura”.

Si veda dunque come l’Agenzia delle entrate abbia optato per regimi di imposizione diversi sulla base del differente status e forma giuridica del prestatore del servizio, ponendosi pertanto in contrasto sia con l’obiettivo e la ratio della disciplina di esenzione prevista dalla Direttiva comunitaria, ovvero quello di “ridurre i costi delle cure mediche e di rendere tali cure più accessibili ai cittadini” (Corte di Giustizia UE, 6 novembre 2003, causa C-45/01 Dornier, punto 43), sia con il principio di neutralità dell’Iva, che, in qualità di tributo armonizzato,  “dovrebbe portare … ad una neutralità di imposta ai fini della concorrenza nel senso che, nel territorio di ciascuno Stato membro, sui beni e sui servizi di uno stesso tipo gravi lo stesso carico fiscale”(Considerando 7 della Direttiva 2006/112/CE ).

 

A dire il vero questa distinzione ha sempre destato numerose perplessità, a partire dalla considerazione per cui nella realtà non vi è una classificazione così netta e rigorosa, e sicuramente non esaurisce tutte le possibili situazioni che si realizzano in ambito sanitario: basti pensare al fatto che i due requisiti appena richiamati che contraddistinguono le “prestazioni mediche” – i.e. l’ambito non ospedaliero e la sussistenza di un rapporto diretto tra medico e paziente – capita non di rado che si presentino disgiuntamente. Tanto è vero che la stessa giurisprudenza europea (CGUE, 6 novembre 2003, causa C-45/01; Id., 2 luglio 2015, causa C-334/14) ha effettivamente riconosciuto che vi possa essere sovrapposizione tra il campo di applicazione della lettera b) e quello della lettera c), anche perché se fosse mantenuta la suddetta rigorosa distinzione, si rischierebbe di restringere ingiustificatamente il campo di applicazione delle esenzioni, non solo compromettendo gli obiettivi che il legislatore intende perseguire con le esenzioni in oggetto, ma sottoponendo anche a un diverso trattamento Iva i soggetti che operano nel settore della sanità. Si deve infatti osservare che, poiché “solo le persone fisiche possono esercitare una attività medica per conto delle persone giuridiche”, anche le persone giuridiche, come le case di cura, che si servono di personale medico qualificato che agisce nell’esercizio delle sue funzioni, possono – per il loro tramite – esercitare prestazioni e attività mediche esenti.

Questa interpretazione è stata confermata nella causa C-45/01 del 2003, in cui i giudici della Corte di Giustizia Europea hanno evidenziato che “se, i trattamenti psicoterapici fossero stati eseguiti da psicoterapisti in qualità di lavoratori autonomi, a tali prestazioni avrebbe potuto essere applicata l’esenzione prevista dall’art 13, parte A, n. 1, lett c) della sesta direttiva”, e che pertanto tale esenzione “non dipende dalla forma giuridica del soggetto passivo che fornisce le prestazioni mediche o paramediche”.

È dunque ricavabile il principio per cui l’esenzione in esame spetta anche alle persone giuridiche che rendono prestazioni mediche attraverso l’impiego di persone fisiche abilitate che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni, proprio perché, qualora tali persone avessero agito come lavoratori autonomi e avessero effettuato tali prestazioni direttamente al paziente, avrebbero di certo beneficiato dell’esenzione (sul punto si veda Chinellato, cit. ).

 

Alla luce delle precedenti considerazioni, sembra dunque più corretto affermare che, ai fini del riconoscimento dell’esenzione, non siano rilevanti né la forma giuridica, né tantomeno le modalità con cui il soggetto passivo svolge la propria attività. A conferma di ciò si può osservare che la stessa Direttiva Iva all’art. 2 prevede che oggetto dell’imposizione sono le “cessioni di beni e servizi”, non i soggetti che pongono in essere le suddette attività (Chinellato, cit., p. 1219 e ss).

Ciò non significa che qualsiasi soggetto possa porre in essere prestazioni sanitarie, ma – come è stato osservato in dottrina – che la veste giuridica del prestatore “può rilevare solamente ai fini della legittimità di porre in essere la prestazione medica per la quale è necessario essere iscritti nell’apposito albo professionale” (Montanari, cit., p. 176). È pur vero che il legislatore italiano richiede la sussistenza di alcuni requisiti che il prestatore deve possedere (ovvero, ex art. 99 R.D. n. 1265/1934, è richiesto che le prestazioni siano rese nel rispetto della legge da professionisti abilitati secondo il diritto interno), ed è quindi rilevante la qualifica del professionista in ambito sanitario, ma essa rappresenta comunque un elemento che qualifica oggettivamente la prestazione medica (Montanari, cit., p. 177). Banalmente, non vi può essere una prestazione medico-sanitaria senza un medico o un professionista abilitato che la esegua.

 

 

  1. Come anticipato, con la sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia in causa C-700/17 del 2019 è stata aperta la strada al superamento del precedente orientamento che – come visto – ricercava come elemento distintivo delle due fattispecie di esenzione previste alle lettere b) e c) della Direttiva Iva, non la natura delle prestazioni, ma la forma giuridica del prestatore del servizio, richiedendo, inoltre, per le “prestazioni mediche” non ospedalizzate la sussistenza del rapporto intuitu personae tra medico e paziente, indispensabile per poter beneficiare dell’esenzione,

Nella vicenda sottoposta al vaglio della Corte un medico tedesco specialista in chimica clinica e diagnosi di laboratorio forniva prestazioni a un laboratorio di analisi, dietro pagamento di un corrispettivo; il medico specialista dunque non eseguiva le prestazioni direttamente ai pazienti, con i quali non vi era un rapporto diretto, bensì fatturava le analisi alla struttura sanitaria, sua committente.

Risolvendo la prima questione pregiudiziale, i giudici unionali hanno precisato che le “prestazioni mediche che non soddisfino tutti i requisiti stabiliti per beneficiare dell’esenzione dall’Iva prevista dall’art. 132, paragrafo 1, lettera b) … non sono automaticamente escluse da quella prevista all’art. 132, paragrafo 1, lettera c)” e hanno quindi confermato la sovrapponibilità dei due ambiti di applicazione, non dovendosi più ritenere operante l’alternatività di cui si è detto supra, che riconduceva l’ampio scenario delle prestazioni medico-sanitarie a sole due alternative.

A parere di chi scrive, questa possibilità non fa che delineare sempre più la valenza e il carattere oggettivo dell’esenzione delle prestazioni mediche: come è inoltre stato rilevato dagli stessi Giudici, “l’art 132, paragrafo 1, lettere b) e c), della Direttiva 2006/112 deve essere interpretato nel senso che prestazioni mediche come quelle di cui al procedimento principale … possono rientrare nell’esenzione Iva prevista all’art 132, paragrafo 1, lettera c) della suddetta Direttiva ove esse non soddisfino l’insieme delle condizioni per l’applicazione dell’esenzione di cui all’art 132, paragrafo 1, lettera b), della medesima” (cfr. la sentenza in commento, punto 30). Pertanto, una volta stabilito che si tratta di una prestazione sanitaria, poco importa se essa sia classificabile nella lettera b) (nostro n. 19) o nella lettera c) (nostro n. 18): ciò che conta è il carattere oggettivo della prestazione, e dunque lo scopo a cui questa è diretta. Del resto, ciò su cui si è sempre mostrata concorde la giurisprudenza è il fatto che sia le “cure mediche” che le “prestazioni mediche” riguardino “prestazioni che hanno lo scopo di diagnosticare, di curare e, nella misura possibile, di guarire malattie o problemi di salute” (cfr. multis Corte di Giustizia UE, 10 giugno 2010, causa C-86/09; Id., 11 gennaio 2001, causa C-76/99; Id., 2 luglio 2015, causa C-334/14). 

 

Il punto fondamentale, tuttavia, è contenuto nella decisione della seconda questione pregiudiziale, in cui, sovvertendo il precedente orientamento, i Giudici della Corte hanno opportunamente riconosciuto come la sussistenza di un “rapporto di fiducia” tra medico e paziente non sia elemento indispensabile.

Se la precedente giurisprudenza si era arroccata su un’interpretazione (eccessivamente) rigorosa della norma, la sentenza del 2019 ha deciso attenendosi al dato testuale della lettera c), che trova infatti applicazione al ricorrere di due condizioni: 

  1. la prestazione resa deve costituire una “prestazione medica”;
  2. la suddetta prestazione deve essere esercitata nell’esercizio delle professioni mediche e paramediche ai sensi della disciplina stabilita dallo Stato membro.

A ben vedere, il dettato normativo non fa alcun riferimento alla necessità che le prestazioni mediche siano rese in presenza di un rapporto di fiducia tra medico e paziente. Peraltro, se si aggiungesse tale requisito agli altri due espressamente richiesti dalla norma, l’ambito di applicazione sarebbe ulteriormente limitato, e ciò si porrebbe in contrasto con la ratio giustificatrice dell’esenzione delle prestazioni mediche (per un’approfondita analisi della sentenza in commento si veda Scifoni, Prestazioni mediche esenti da Iva anche se erogate da una struttura sanitaria, in Corriere Tributario, 2020, I, p. 75 e ss.).

 

L’approdo a cui sono giunti i Giudici unionali è di fondamentale importanza perché, non essendo più richiesto per le prestazioni mediche ex lettera c) (nostro n. 18) che vi sia un rapporto diretto tra medico e paziente, si apre la strada, anche nel panorama interno, alla possibilità per il medico o il professionista abilitato di fatturare in esenzione anche qualora la prestazione non sia “resa (e quindi fatturata) direttamente alla persona”, ma nei confronti di una clinica privata, o di un laboratorio di analisi presso cui questi opera.

 

Il revirement della Corte di Giustizia è stato recepito anche nel panorama interno: da ultimo si veda la Risposta n. 56/E del 2020.  Nel caso in esame l’Agenzia delle entrate ha ritenuto applicabile l’esenzione Iva alle prestazioni rese da una start-up innovativa operante nel campo del microbiota intestinale umano; nello specifico la società si occupava di effettuare le analisi di laboratorio su campioni di feci mediante l’interposizione di farmacie, cliniche, centri medici, ambulatori, liberi professionisti ai quali il servizio veniva fatturato. La società istante forniva al paziente un kit per raccogliere il campione fecale, che sarebbe stato analizzato da un biologo iscritto all’Ordine, il quale, sulla base dei risultati ottenuti, avrebbe elaborato suggerimenti nutrizionali personalizzati e firmato il referto. A parere dell’istante, dal momento che le prestazioni effettuate rappresentavano uno strumento sanitario per la successiva fase terapeutica demandata a gastroenterologi, medici o nutrizionisti, esse avrebbero potuto essere ricondotte alle fattispecie esenti proprio in vista dello scopo perseguito, ovvero quello di tutelare, mantenere o ristabilire la salute delle persone.

L’Agenzia delle Entrate ha condiviso l’interpretazione prospettata dalla società ed ha affermato che l’esenzione si sarebbe potuta applicare al caso di specie proprio in ragione delle finalità terapeutiche dell’esame in questione, in quanto diretto ad identificare e curare la patologia di cui i pazienti sono affetti.

Nel pervenire a tale soluzione, l’Agenzia si è allineata alla giurisprudenza comunitaria appena richiamata e, in merito alle modalità di esercizio delle prestazioni in esame, ha affermato che l’esenzione “prescinde dalla forma organizzativa della struttura che fornisce le medesime prestazioni”. Con questa soluzione si ha conferma che il requisito soggettivo, ovvero lo status del prestatore, ha perso rilevanza, e si sottolinea che – come già detto – non costituisce una deroga il fatto che sia necessaria ai fini dell’applicazione dell’esenzione la qualifica di professionista nell’ambito sanitario, che, anzi, è un elemento che caratterizza oggettivamente la prestazione medica (Chirichigno - Segre, Esenzione Iva su prestazioni mediche e cure mediche dei pazienti ricoverati, in Corriere Tributario, 2020, VI, p. 567). Ne è prova il fatto che il medico può operare tanto come libero professionista, quanto come dipendente di una struttura sanitaria: ma non si è mai messa in dubbio l’applicazione dell’esenzione alle sue prestazioni. Al contrario, ciò che assume sempre maggior centralità è il carattere oggettivo della prestazione: si deve dunque guardare quale sia lo scopo a cui essa è finalizzata.

Peraltro, tale recente interpretazione è sicuramente preferibile anche poiché, al contrario dell’orientamento precedente che ne limitava l’ambito di applicazione, essa è pienamente in linea con la ratio della disciplina dell’esenzione delle prestazioni mediche, che è quella di allargare la platea di soggetti potenzialmente destinatari delle prestazioni, con l’intento di renderle più accessibili ai singoli (Chirichigno - Segre, cit., p. 568 e ss.).

 

Naturalmente, ciò non significa estendere l’esenzione a tutte le prestazioni rese nell’esercizio delle professioni mediche: per delimitare l’ambito di applicazione dell’esenzione occorre individuare – secondo la Corte – “se una prestazione medica viene effettuata in un contesto che permette di stabilire che il suo scopo principale non è quello tutelare nonché di mantenere o di ristabilire la salute”, dando così un ruolo centrale allo scopo della prestazione stessa, che viene assunto come discrimen tra le prestazioni esenti e quelle imponibili.

A tal proposito si può ricordare il caso preso in esame dalla sentenza resa in causa C-86/09.

La controversia sottoposta al vaglio dei Giudici unionali riguardava una società inglese che svolgeva attività diverse, consistenti nell’invio di un materiale di raccolta di sangue di cordone ombelicale dei neonati, nell’analisi e nel trattamento di detto sangue e, se del caso, nella conservazione delle cellule staminali in vista di un eventuale futuro impiego terapeutico. Per effetto di un contratto stipulato con i genitori del neonato, le cellule raccolte e conservate potevano essere utilizzate solo per un impiego medico, mentre non avrebbero potuto essere usate ai fini di ricerca o di sperimentazione. Tale ultima precisazione appare doverosa, poiché – come più volte chiarito dalla Corte di Giustizia (Cfr. CGUE, 20 novembre 2003, causa C-307/01; Id., 20 novembre 2003, causa C-212/01) – le attività di ricerca e consulenza scientifica sono escluse dalle prestazioni esenti. L’esclusione trova riscontro anche nella prassi italiana, tra cui la circolare n. 4/E del 2005 e la più recente risposta n. 459/E del 2020, nella quale si è affermato che l’attività di ricerca scientifica e tecnologica, i cui risultati entrano nella titolarità del ministero committente, sono soggette a Iva. 

Si tratta dunque di stabilire se l’insieme di queste attività, o una parte di esse, abbiano lo scopo di diagnosticare, curare e, ove possibile, guarire malattie o altri problemi di salute per poter essere ricondotte nella definizione di “cure mediche” o “prestazioni mediche”, e quindi poter essere considerate esenti. 

Ad avviso della Corte di Giustizia, le attività in esame non risultavano avere il suddetto scopo e non avrebbero perseguito quindi “la tutela, il mantenimento o il ristabilimento della salute”. Sembrava piuttosto che le prestazioni fornite dalla società mirassero unicamente a “garantire la disponibilità di una particolare risorsa in vista di un trattamento medico nell’ipotesi incerta in cui detto trattamento divenisse necessario, ma non, in quanto tali, ad evitare o a prevenire una malattia, una lesione o problemi di salute, o ad individuare patologie latenti o nascenti.” (punto 44). Per questo motivo non avrebbero potuto essere ricondotte né alla lettera b), né alla lettera c) dell’art. 132, comma 1, della Direttiva.

 

  1. La sentenza in esame affronta poi un altro tema che merita di essere evidenziato: quello delle operazioni “strettamente connesse”, alle quali lo stesso art. 132 della Direttiva 2006/112 rimanda.

Difatti, si deve osservare che la Corte, valorizzando lo scopo delle prestazioni in esame ha, si può dire, allargato il campo di applicazione della disciplina con l’intento di tutelare e salvaguardare i valori di rango costituzionale ad essa sottesi.

È dunque ormai verificabile su larga scala nella casistica giurisprudenziale che, nelle prestazioni sanitarie, sono ricomprese operazioni assolutamente eterogenee tra loro: oltre alle cure o prestazioni mediche, devono essere considerate anche le operazioni ad esse “strettamente connesse”, proprio perché, vista la stretta connessione e la propedeuticità con le operazioni principali, anch’esse possono essere necessarie per perseguire lo scopo di tutelare, mantenere o ristabilire la salute delle persone. Infatti, come è stato correttamente osservato in dottrina (cfr. Montanari, cit., p. 143), sembra che i Giudici europei – ai quali la giurisprudenza e la prassi amministrativa nel nostro Paese si sono, tendenzialmente, allineate – utilizzino più un criterio di “ragionevolezza”, che una rigida classificazione, che sarebbe peraltro impossibile, vista l’eterogeneità della casistica in esame.

Cosa si deve intendere, dunque, per “prestazioni strettamente connesse”? Non esistendo una definizione normativa, occorre ancora una volta rifarsi alla giurisprudenza, dalla quale emerge che la nozione di prestazioni connesse “non richiede un’interpretazione particolarmente restrittiva” (ex multis Corte di Giustizia UE, 15 novembre 2012, causa C-174/11). Difatti, l’esenzione delle prestazioni strettamente connesse garantisce che “il beneficio delle cure mediche e ospedaliere non divenga inaccessibile a causa dell’aumento del costo di tali cure mediche, nel caso in cui le prestazioni connesse venissero assoggettate ad Iva” (Corte di Giustizia UE, 11 gennaio 2001, causa C-76/99, punto 23). Nella citata sentenza la Corte prosegue dicendo che affinché si possano esentare le prestazioni di prelievi medici, come nel caso analizzato, “occorre considerare lo scopo in vista del quale tali prelievi vengono effettuati”. Nel caso esaminato dalla Corte, un professionista medico, per elaborare la propria diagnosi e a scopo terapeutico, prescriveva che i pazienti si sottoponessero a prelievi del sangue, che erano trasmessi a un laboratorio, il quale effettuava le analisi e fatturava direttamente ai pazienti, in regime di esenzione. Si discuteva se anche la trasmissione del campione di sangue, prelevato dal medico ed inviato al laboratorio di analisi, avesse dovuto essere considerata imponibile. Ad avviso dei giudici unionali quest’ultima prestazione, che si colloca tra l’atto del prelievo e le analisi vere e proprie, doveva essere considerata una prestazione strettamente connessa alle analisi aventi carattere e scopo terapeutico. Infatti, per il paziente è indifferente che il laboratorio che effettua il prelievo proceda anche alle analisi, ovvero demandi tale incarico ad un altro laboratorio pur restandone responsabile verso il paziente, od ancora — in relazione al tipo di analisi effettuate — trasmetta il prelievo ad un laboratorio specializzato.

Per riportare le parole della Corte, “una prestazione dev'essere considerata accessoria (assimilando dunque i concetti di prestazione accessoria e strettamente connessa) ad una prestazione   principale  quando   essa  non  costituisce  per  la  clientela  un  fine  a  sé stante,  bensì  il mezzo per  fruire  nelle  migliori  condizioni  del  servizio  principale  offerto  dal  prestatore”. In definitiva, dunque, la scelta di non assoggettare a Iva la prestazione connessa ha il fine di evitare che la prestazione principale non divenga inaccessibile a causa dell’aumento di costi che si verificherebbe qualora l’analisi del campione di sangue fosse assoggettata a Iva.

Ed ecco qui la differenza con le attività prese in esame nella causa C-86/09 analizzata in precedenza, nella quale i giudici della Corte avevano ritenuto che le attività di cui alla causa principale non potessero essere considerate come “strettamente connesse”, poiché soltanto eventualmente connesse a cure mediche non ancora iniziate né tantomeno programmate, dunque potenziali e future.

 

A parere di chi scrive, vista la centralità dello scopo della prestazione che assumiamo come parametro da considerare per determinare l’applicabilità dell’esenzione, il concetto di prestazione connessa assume un’importanza centrale nella disciplina in esame.

È un tema che trova frequente riscontro nella prassi. Si veda, ad esempio, la Risoluzione 87/E del 2006, in cui l’interpellante, un centro di analisi cliniche, al fine di migliorare la gestione dell’attività svolta e per garantire livelli più alti dei servizi svolti, decise di costituire una società di servizi con altri laboratori del settore, i quali avrebbero avuto semplicemente il compito di prelevare il materiale organico da esaminare, che poi sarebbe stato inviato al centro di analisi cliniche per svolgere le analisi vere e proprie. In sostanza erano i laboratori associati che si interfacciavano direttamente con i clienti, provvedendo ai prelievi ed emettendo fattura (in esenzione), mentre il centro analisi era chiuso al pubblico ed aveva rapporti esclusivamente con i laboratori associati. Ciò che ci si chiedeva era se le prestazioni di analisi erogate dal centro fossero riconducibili all’ambito applicativo dell’esenzione Iva di cui all’art 10, n. 18) D.P.R. n. 633/1972.

A ben vedere, l’articolo precisa che le prestazioni sanitarie in argomento, per poter beneficiare dell’esenzione, devono essere “rese alla persona” (inciso inserito nel 1990 con l’art 30 L. 438/1990). Tale ultimo inciso sembrerebbe limitare l’ambito dell’esenzione alle sole prestazioni rese in favore della persona. E’ poi intervenuta la circolare n. 13 del 28 febbraio 1991 la quale, con l’intento di non circoscriverne irragionevolmente il perimetro, ha precisato che sono da ritenersi esenti anche le prestazioni che “non necessitano di un diretto rapporto con la persona”, come nel caso di prestazioni rese da odontotecnici, i quali eseguono attività che non sono “rese direttamente alla persona”, ma sono “necessariamente propedeutiche alle prestazioni sanitarie rese dai medici dentisti alle quali restano, pertanto, strettamente e funzionalmente connesse”.

Superato dunque il limite delle prestazioni rese alla persona, nel caso in esame si è ritenuto che l’attività di diagnosi e cura volta a tutelare la salute delle persone fosse resa dal laboratorio di analisi centralizzato, il quale effettuava materialmente le analisi in collaborazione con i laboratori soci che, invero, effettuavano i prelievi e fatturavano ai clienti. Pertanto, in considerazione della stretta connessione tra le due attività di prelievo e analisi cliniche, in linea con la precisazione fatta dalla Corte di Giustizia UE nella causa C-76/99 secondo cui “la prestazione di prelievo e la trasmissione del prelievo ad un laboratorio specializzato costituiscono prestazioni strettamente connesse alle analisi”, è stato correttamente ritenuto che anche le prestazioni rese dal laboratorio centralizzato devono seguire lo stesso regime di esenzione previsto per attività rese dai laboratori associati ai pazienti, proprio perché non costituiscono per clientela un fine a sé stante, ma il mezzo per fruire del servizio principale nelle migliori condizioni possibili.

 

  1. In seguito alla recente pronuncia del 2019 in causa C-700/17, non essendo più richiesto il rapporto diretto tra medico e paziente e risultando dunque allargato l’ambito di applicazione dell’esenzione, come individuare una prestazione medica esente? Alla luce delle considerazioni sin qui avanzate, si condivide quanto affermato dalla Corte di Giustizia, ovvero che “è lo scopo di una prestazione medica che determina se quest’ultima debba essere esentata da Iva. Pertanto, se una prestazione medica viene effettuata in un contesto che permette di stabilire che il suo scopo principale non è quello di tutelare, vuoi mantenendola, vuoi ristabilendola, la salute, (..), l’esenzione non si applica a tale prestazione”. Dunque il limite è presto segnato: sono escluse tutte quelle attività con finalità diverse dalla tutela alla salute.

Così, ad esempio, la Corte ha escluso dall’esenzione le perizie mediche, la cui realizzazione “sebbene faccia appello alle competenze mediche del prestatore e possa implicare attività tipiche della professione medica”, realizza – in realtà – “lo scopo principale di soddisfare una condizione legale o contrattuale prevista nel processo decisionale altrui” (Corte di Giustizia Ue, 20 novembre 2003, causa C-307/01). E comunque più in generale sono escluse le prestazioni mediche rese ai fini di consulenza e di ricerca scientifica.

Come punto di partenza per individuare quali prestazioni possano beneficiare del regime di esenzione e quali no, può essere opportuno fare riferimento alla sentenza C-307/01 che contiene un’elencazione – poi ripresa dalla circolare n.4/E del 2005 – delle attività che possono rientrare tra quelle dirette alla tutela della salute. Tuttavia, in vista della richiamata varietà casistica che contraddistingue la materia, è comunque necessario indagare, caso per caso, lo scopo delle attività considerate, e valutare se siano dirette alla diagnosi, cura e riabilitazione dei pazienti (per una definizione che la prassi interna fornisce dei concetti qui enunciati, si consideri la risoluzione n. 184/E del 2003 che, per “diagnosi” intende l’attività diretta a identificare la patologia cui i pazienti sono affetti, per “prestazioni di cura” tutte le prestazioni di assistenza medico generica, specialistica, infermieristica, ospedaliera e farmaceutica – dove per quest’ultima si devono intendere solamente quelle a contenuto terapeutico – e per “riabilitazione” le attività rivolte al recupero funzionale e sociale del paziente): tutti gli interventi medici diretti a uno scopo diverso sono sottoposti all’imposizione ordinaria.

 

  1. Quanto invece ai possibili scenari futuri, una conseguenza derivante dalla pronuncia analizzata consiste nel fatto che anche prestazioni prima considerate imponibili e tassate con aliquota ordinaria sono oggi da considerare esenti.

A scopo esemplificativo si può fare il caso di un laboratorio di analisi che esegue esami di laboratorio per una struttura ospedaliera, la quale fatturerà ai propri pazienti in regime di esenzione. Sulla scorta dell’interpretazione precedente, le prestazioni rese dal laboratorio alla struttura sanitaria sarebbero state soggette a Iva, appunto perché non rese e fatturate direttamente ai pazienti, ma alla struttura sanitaria, che faceva da “intermediario”, spezzando dunque il rapporto diretto tra professionista abilitato (che esegue le analisi) e cliente. In seguito alla pronuncia della Corte di Giustizia del 2019 può dirsi fugato ogni dubbio in merito, e anche le suddette prestazioni – volte alla cura, diagnosi e nella misura possibile alla guarigione di malattie o altri problemi di salute – sono da considerare esenti.

Quali sono dunque le conseguenze prospettabili? Si tratta, senza dubbio, di casi di Iva erroneamente addebitata da parte del laboratorio prestatore del servizio alla clinica committente. Secondo la recente pronuncia della Corte di cassazione del 3 novembre 2020, n. 24289, nei casi di Iva non dovuta, non può operare l’art 6, comma 6 D.lgs. 471/1997 il quale fa salvo il “diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi degli articoli 19 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”, poiché tale diritto sussiste soltanto in caso di “applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva”, ovvero in caso di errore nell’applicazione dell’aliquota, non per le operazioni esenti, anche dette ad “aliquota zero”. In questi casi, essendo l’amministrazione finanziaria tenuta a non riconoscere la suddetta detrazione al cessionario, per evitare che quest’ultimo rimanga inciso da un tributo di fatto non dovuto, questi potrà rivolgersi al cedente (dinanzi al giudice ordinario, in quanto rapporto avente natura privatistica), per ottenere la restituzione della rivalsa erroneamente subita. A sua volta il cedente, avendo a suo tempo versato al Fisco l’Iva applicata in rivalsa al cessionario, potrà richiederne all’amministrazione finanziaria la restituzione.

È dunque ipotizzabile uno scenario in cui cliniche, laboratori, case di cura o soggetti “intermediari” tra professionista e paziente, vistasi disconosciuta dal fisco la detrazione dell’Iva applicata e pagata sulle fatture ricevute, chiedano la restituzione della rivalsa ai rispettivi cedenti.