Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

06/11/2020 - Il contributo unificato di giustizia e l’intervento innovativo del decreto legge n. 23/2020

argomento: COVID-19 - Legislazione e prassi

Con l’art. 29, co. 2, DL. 23/2020 è stata apportata una modifica alla normativa in materia di sanzioni da omesso/tardivo versamento contributo unificato di giustizia, intervenendo sia sul luogo di notifica dell’atto sanzionatorio sia sul momento rilevante ai fini della sanzione. L’esame della norma appare d’interesse, perché consente di svolgere considerazioni in merito all’utilizzabilità a tali fini della normativa emergenziale di contrasto alle conseguenze della pandemia da COVID-19, oltre all’esame degli elementi caratterizzanti la novella e la sua efficacia temporale.

PAROLE CHIAVE: decreto liquidità - contributo unificato - sanzioni - notifica - domicilio processuale


di Diego Conte

  1. Il contributo unificato è il tributo dovuto a fronte dell’accesso al servizio di amministrazione della giustizia fornito dallo Stato e trova la sua disciplina nel Testo Unico Spese di Giustizia (“TUSG” – il D.P.R. 115/2002; per un esame generale della disciplina si rinvia a N. Sartori, Il contributo unificato quale costo fiscale di accesso alla giustizia, in Rass. Trib., n. 4, 2017, 1010 ss). Con il decreto legge 8 aprile 2020, n. 23, convertito, con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40, cd. Decreto Liquidità, il Legislatore emergenziale è intervenuto a modificare la disciplina sanzionatoria relativa all’omesso/carente versamento, parificando le modalità di notifica degli atti sanzionatori a quelli accertativi e modificando la tripartizione procedurale e temporale che caratterizzava in precedenza il pagamento spontaneo e le fasi accertative e sanzionatorie.

Ai sensi dell’art. 14 TUSG l’obbligo tributario consegue al verificarsi di diversi accadimenti processuali che, in linea generale, possono essere ricondotti a tre diverse categorie: la costituzione in giudizio; la proposizione di nuove e alcune, specifiche domande processuali (domande nuove, domande riconvenzionali ovvero chiamate in causa di terzi); e, infine, situazioni quali (i) la mancata indicazione negli atti di causa di determinati dati (es. il codice fiscale o dei recapiti fax/PEC del difensore costituito – art. 13, co. 3 bis), ovvero (ii) il rigetto per totale infondatezza o inammissibilità dell’impugnazione (art. 13, co. 1 quater).

Il successivo art. 16 TUSG prevede che, nel caso di omesso o carente versamento del contributo unificato l’ufficio giudiziario competente emette entro 30 giorni dal compimento dell’atto tassato l’invito al pagamento specificamente disciplinato dall’art. 248 TUSG. Tale atto contiene la liquidazione del contributo unificato dovuto effettuata dall’ufficio giudiziario competente e “l’invito” al suo pagamento entro 30 giorni dalla notifica con l’avvertenza che in difetto le somme non corrisposte saranno iscritte a ruolo e saranno addebitati gli interessi al saggio legale. Tale avviso, ai sensi del co. 2 dell’art. 248 TUSG, deve essere notificato alla parte, anche a mezzo PEC, presso il “domicilio eletto” per il giudizio o, nel caso di mancata elezione di domicilio, depositato presso l’ufficio giudiziario medesimo.

Per quanto riguarda, invece, il distinto aspetto sanzionatorio, come correttamente evidenziato dalla Circolare 21 settembre 2011, n. 1/DF del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dalla stessa Agenzia delle Entrate nella Circolare 22 dicembre 2017, n. 29/E, il fatto sanzionato non è, o meglio, non era il mancato/insufficiente pagamento del contributo unificato al compimento dell’atto processuale rilevante ma il mancato pagamento delle somme indicate nell’invito al pagamento. Era solo dallo spirare del 30mo giorno dalla notifica dell’invito, quindi, che poteva essere emesso apposito atto di irrogazione sanzioni ai sensi dell’art. 16, D.Lgs. 471/1997. La notifica di tale atto sanzionatorio avveniva secondo le modalità generali poste dalla L. 689/1981 e, nel caso di notifica a mezzo posta, dalla L. 890/1982. Diversamente da quanto previsto per la notifica dell’invito al pagamento, l’atto sanzionatorio doveva essere notificato presso la residenza/domicilio/sede civilistici della parte sanzionata e non, invece, presso il domicilio eventualmente eletto ai fini processuali.

Come anticipato, l’art. 29, DL 23/2020 è intervenuto sulla fase sanzionatoria della procedura impositiva inserendo all’art. 16 TUSG un ulteriore comma, il n. 1 ter, dal seguente contenuto: “la sanzione irrogata, anche attraverso la comunicazione contenuta nell’invito al pagamento di cui all’articolo 248, è notificata a cura dell’ufficio e anche tramite posta elettronica certificata, nel domicilio eletto o, nel caso di mancata elezione del domicilio, è depositata presso l’ufficio”.

La Relazione Illustrativa ha spiegato tale intervento normativo con la volontà del Legislatore emergenziale di attribuire, da un lato, agli Uffici giudiziari il potere di utilizzare lo strumento della posta elettronica certifica per la notifica degli atti sanzionatori (con, si legge, il conseguente risparmio per le casse erariali delle spese di spedizione - € 8,75 addebitate comunque al contribuente); e, dall’altro, di “valorizzare il ruolo del difensore e il relativo domicilio eletto”, ponendo in capo al difensore medesimo l’onere di garantire alla parte sanzionata la conoscenza effettiva dell’atto sanzionatorio medesimo.

Pur avendo il pregio di eliminare le differenze linguistiche esistenti tra le norme relative alle modalità di notifica degli atti sanzionatori e di quelli impositivi, l’intervento legislativo emergenziale appare criticabile sotto diversi aspetti.

 

  1. Alcune prime critiche appaiono potersi rivolgere già con riferimento all’opportunità politica di utilizzare lo strumento del decreto-legge per simili modifiche normative: il D.L. 23/2020, infatti, è stato emesso in un momento della storia repubblicana particolarmente grave, l’emergenza pandemica causata dal virus COVID-19, e si inserisce in una serie di atti normativi funzionali alla disciplina del momento e al contrasto delle gravi conseguenze sociali ed economiche a esso connesse.

Tale situazione contingente già a un primo sguardo genera perplessità sulla scelta del ricorso al decreto-legge: considerati, infatti, la indubbiamente scarsa rilevanza del contributo unificato sia in termini assoluti che relativi ma soprattutto la generale sospensione delle attività processuali che ha portato con sé la drastica riduzione se non la sostanziale temporanea eliminazione dei fatti impositivi, risulta davvero complicato comprendere come si sia potuto considerare necessario, anzi, straordinariamente necessario e urgente occuparsi delle sanzioni per le violazioni della normativa sul contributo unificato. Né, d’altro canto, soccorre la Relazione Illustrativa che, anzi, appare intempestiva e beffarda, laddove evidenzia un aggravio dell’attività del difensore in un momento in cui questi era gravemente limitato nella sua operatività.

A parte tali a-tecniche considerazioni, ben più gravi appunti appaiono doversi svolgere con riferimento alla legittimità formale dell’atto e al rispetto da parte sua dei presupposti costituzionali relativi all’utilizzo del decreto-legge.

Come noto, i decreti-legge sono atti aventi forza di legge emessi dal Governo senza alcuna previa delega o autorizzazione parlamentare, che in un certo senso sovvertono l’ordinario rapporto tra i poteri dello Stato e che la Costituzione repubblicana ha inteso limitare rigorosamente nei suoi presupposti: proprio per i rischi insiti nell’eccesso di poteri in capo al Governo, infatti, l’art. 77, co. 2 e 3 Cost. ha subordinato i decreti-legge alla sussistenza di “casi straordinari di necessità e d’urgenza” e alla loro approvazione (rectius conversione in legge) da parte del Parlamento entro il termine tassativo di 60 giorni dalla loro pubblicazione.

Da un punto di vista strettamente generale, si osserva che il citato presupposto di legalità è in realtà tripartito, richiedendosi (i) l’esistenza di una situazione di fatto “straordinaria”, (ii) la “necessità” del provvedere e (iii) la “urgenza” dell’applicazione del provvedimento governativo. È facile intuire, come la stessa giurisprudenza costituzionale ha più volte evidenziato, che trattasi di requisiti di difficile - se non impossibile – catalogazione, il cui elevato tasso di elasticità, tuttavia, è indispensabile al fine della corretta gestione legislativa della crisi affrontata.

Nell’ambito dell’architettura costituzionale la valutazione dell’esistenza di tali requisiti è affidata in prima battuta proprio al Governo ed è soggetta al vaglio esplicito, anche se successivo, del Parlamento nell’arco del breve termine temporale concesso per ottenere la conversione in legge del decreto. Il giudizio del Governo e del Parlamento hanno natura inevitabilmente politica, essendo espressione del potere di valutazione e contemperamento dei vari interessi, anche economici, tipico della funzione legislativa.

Lo spazio di valutazione della legittimità dell’utilizzo della decretazione d’urgenza è, quindi, particolarmente risicato e si scontra non solo con la libertà politica di Governo e Parlamento, ma anche e soprattutto con la natura e gli effetti della legge di conversione: i limiti posti dalla Costituzione alla decretazione d’urgenza, infatti, sono funzionali a tutelare le prerogative costituzionali del Parlamento ed è, quindi, difficile accettare l’idea di una loro violazione, laddove è lo stesso Parlamento a negarla attraverso la conversione in legge del decreto. Da questo punto di vista, a ben vedere, non può nemmeno essere invocato l’eventuale abuso dello “strumento della fiducia parlamentare”, nonostante ciò comporti un’inevitabile compressione del dibattito tra le forze politiche: tale strumento, infatti, rientra nella normale dialettica tra i due poteri statali e può accompagnare tanto la richiesta di conversione del decreto-legge quanto l’approvazione di un qualsiasi altro disegno di legge governativo.

Per tali ragioni, come la dottrina ha più volte evidenziato (cfr. A.Celotto, C’è sempre una prima volta… (La Corte costituzionale annulla un decreto-legge per mancanza dei presupposti), in Cass. pen., 2007, n. 10, p. 3599-3604, e la giurisprudenza ivi citata), per lunghissimo tempo la stessa Corte Costituzionale ha di fatto rinunciato a un proprio intervento in materia dichiarando inammissibili (e non semplicemente infondate) le eccezioni di violazione dell’art. 77, co. 2 Cost. fondate sulla presunta mancanza del “caso straordinario di necessità e urgenza” (interessanti sono le pronunce nn. 108/1986, n. 243/1987, nn. 808, 810, 1033, 1035 del 1988, n. 263/1994, tutte richiamate da A.Celotto, op. cit.).

Il superamento di tale approccio è avvenuto soltanto dopo un lungo e travagliato percorso.

La prima, fondamentale svolta si è avuta con la sentenza 27 gennaio 1995, n. 29 che, pur rigettando la questione proposta, ha, da un lato, riconosciuto la possibilità di valutare la legalità formale del provvedimento legislativo, ritenendo requisito di validità costituzionale la situazione eccezionale che impone la necessità e l’urgenza di provvedere tramite decreto-legge e considerando che la sua assenza realizzi un vizio che grava sulla stessa legge di conversione. Nel caso, quindi, di decreto-legge emesso in carenza dei requisiti richiesti dall’art. 77, co. 2 Cost. e convertito in legge si raffigurano due diverse violazioni: la prima relativa allo stesso decreto-legge e la seconda relativa, invece, alla legge di conversione.

Nonostante la grande apertura contenuta nella citata sentenza la giurisprudenza successiva è stata contraddittoria, alternandosi pronunce che confermavano i principi appena richiamati (pur non rinvenendo in concreto alcuna violazione - cfr. le sentenze 10 maggio 1995, n. 161 e 22 luglio 1996, n. 270) ad altre che confermavano, invece, la tradizionale idea dell’effetto sanante dell’intervento parlamentare di conversione. Eclatante in tal senso è la sentenza 24 ottobre 1996, n. 360 con cui la Corte ha posto fine alla precedente prassi dei decreti-legge iterati, ma ha contestualmente ribadito il limite al proprio intervento rappresentato dalla legge di conversione. Ciononostante, la sentenza n. 360 rappresenta un passaggio fondamentale nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, perché, oltre a dichiarare per la prima volta illegittimo un decreto-legge, ha chiarito come il problema centrale nella violazione dell’art. 77 Cost. sia il sovvertimento dell’ordine costituzionale, che vede il potere legislativo affidato nelle mani del Parlamento e solo eccezionalmente in quelle del Governo.

Il pieno accantonamento dell’impostazione tradizionale è avvenuto soltanto il 23 maggio 2007 con la pronuncia n. 171, con cui la Corte ha definitivamente superato le proprie remore e sanzionato con la declaratoria di illegittimità costituzionale un decreto-legge per carenza assoluta dei requisiti di “necessità e urgenza” dell’intervento normativo emergenziale, nonostante la sua conversione in legge.

L’importanza di tale sentenza ai fini delle considerazioni che si stanno svolgendo sta anche nel fatto che essa ha chiarito definitivamente quali siano il ruolo e limiti del vaglio costituzionale sul corretto e legittimo utilizzo dello strumento del decreto-legge. È importante sottolineare come la sentenza n. 171 si ponga quale completamento del processo di maturazione iniziato con la sentenza 27 gennaio 1995, n. 29, ricordando non solo che il potere legislativo del Governo ha “carattere derogatorio rispetto all’essenziale attribuzione al Parlamento della funzione di porre le norme primarie nell’ambito delle competenze dello Stato centrale”; ma, soprattutto, ribadendo che la funzione valutativa della Corte “non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione”, e, quindi, deve essere esercitata all’esclusivo fine di “preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori” costituzionali.

Conformemente a tale ruolo “secondario” e non invasivo, la valutazione concreta del rispetto dei requisiti previsti dall’art. 77, co. 2 risulta particolarmente complessa, in quanto “la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri)”, che, oltre a impedire la “[configurabilità di] rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi”, limita i casi di giudizio negativo a quelli in cui la violazione risulti “evidente” sulla base di “indici intrinseci ed estrinseci”. È interessante notare che con la sentenza 18 aprile 2019, n. 97, la Corte Costituzionale, richiamando il precedente dato dalla propria sentenza 15 maggio 2018, n. 98, ha precisato ulteriormente che “il sindacato della legittimità dell’adozione da parte del Governo di un decreto-legge va limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione” (nello stesso senso anche la successiva pronuncia del 23 dicembre 2019, n. 288). Nella successiva sentenza 12 luglio 2017, n. 170 la Corte Costituzionale ha definito esplicitamente tali indici come “molteplici”.

La sentenza n. 171, così come quelle successive (ex multis vedasi ad es. le sentenze del 30 aprile 2008, 128, 21 marzo 2011, n. 93, e 16 febbraio 2012, n. 22), non ha individuato rigorosamente tali indici. L’esame delle pronunce, tuttavia, permette di evidenziare che ciò che occorre indagare è la coerenza delle disposizioni emergenziali con le valutazioni politiche che hanno mosso prima l’attività legislativa dello stesso Governo e, poi, il Parlamento in sede di conversione del decreto-legge, le quali valutazioni, si legge nella sentenza n. 5/2018, devono essere rinvenibili in elementi “ufficiali” governativi e/o parlamentari quali “titolo, preambolo, contenuto e ratio del decreto-legge, relazione illustrativa del disegno di legge di conversione, lavori parlamentari” ovvero nella “coerenza intrinseca delle norme contenute” nel dato decreto-legge (in tal senso esplicitamente la già citata sentenza 16 febbraio 2012, n. 22 che, inoltre, chiarisce che la coerenza può essere valutata “o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico”). Se si osservano le pronunce della Corte Costituzionale sul punto si può, quindi, notare come anche quelle che sono giunte a una pronuncia di illegittimità costituzionale si sono mosse all’interno delle “motivazioni” di necessità e urgenza ricavabili da tali indici e addotte da Governo e Parlamento. La Corte, infatti, non è alla ricerca di elementi di necessità e urgenza nuovi e diversi rispetto a quelli individuati dagli organi statali preposti, ciò che rappresenterebbe un’indebita ingerenza nelle valutazioni politiche proprie di Governo e Parlamento; è, invece, interessata (i) a valutare l’esistenza e la sostenibilità costituzionale delle scelte politiche effettuate ed espresse dal legislatore governativo e parlamentare e (ii) che le norme emergenziali rispondano a tali scelte.

Ciò emerge con evidenza sin dalla menzionata sentenza n. 29 del 1995 e dalla distinzione dell’esame svolto dalla Corte rispetto a quello condotto dal Parlamento “di tipo prettamente politico sia con riguardo al contenuto della decisione, sia con riguardo agli effetti della stessa” (cfr. anche le più recenti sentenze 21 dicembre 2016, n. 287, 18 gennaio 2018, n. 5 e 4 dicembre 2019, n. 247).

Alla luce di quanto precede, quindi, appare possibile affermare che il compito della Corte Costituzionale e dell’interprete sia duplice: ricavare le ragioni delle scelte politiche a base della normativa emergenziale dagli indici suddetti e valutare la coerenza con esse delle norme concretamente poste. Solo laddove tale procedimento valutativo abbia esito chiaramente negativo sarà possibile considerare violato il disposto dell’art. 77, co. 2 e 3 Cost. (cfr. sentenza della Corte Costituzionale del 12 luglio 2017, n. 170).

Nello specifico caso oggetto di questo studio, è difficilmente revocabile in dubbio che il fatto straordinario sottostante l’intervento legislativo sia la pandemia da COVID-19; allo stesso modo, emergendo esplicitamente dallo stesso Decreto, sono facilmente rinvenibili le ragioni e le finalità di straordinaria necessità e urgenza cui il D.L. 23/2020 vuole dare seguito, ovvero porre misure temporanee di contrasto alle conseguenze sociali ed economiche causate dall’emergenza sanitaria.

A tal riguardo si consideri, innanzitutto, il titolo attribuito al D.L. 23/2020, “Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali”. Si consideri, inoltre, il preambolo del Decreto in cui sono evidenziate due situazioni di “straordinaria necessità e urgenza” e sono evidenziate altrettante e connesse “esigenze”: quanto alle prime è menzionata (i) “la straordinaria necessità e urgenza di contenere gli effetti negativi che l’emergenza epidemiologica COVID-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale, prevedendo misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di copertura di rischi di mercato particolarmente significativi” e (ii) “straordinaria necessità ed urgenza di prevedere misure in materia di continuità delle imprese, di adempimenti fiscali e contabili, di poteri speciali nei settori di rilevanza strategica, di disciplina dei termini nonché sanitarie”; quanto alle “esigenze”, invece, sono evidenziate quelle relative (i) al rafforzamento del supporto pubblico all’export e all’internalizzazione delle imprese, e (ii) il rilascio di garanzie dello Stato per operazioni di esportazione in alcuni settori specifici. La Relazione Illustrativa, dal canto suo, non aggiunge alcun elemento ulteriore, giacché non spiega il legame tra la norma in esame con le altre del Decreto, né quello esistente con la stessa pandemia in corso ovvero le varie esigenze menzionate nel titolo e nel preambolo del Decreto medesimo.

Con particolare riferimento alla necessaria coerenza intrinseca dell’art. 29, co. 2 con il resto del D.L. 23/2020 (cfr. le sentenze 23 maggio 2007, n. 171, 30 aprile 2008, 128 e 16 febbraio 2012, n. 22), si osserva, innanzitutto, che le norme da esso poste sono organizzate in sei diversi Capi e si muovono tutte senza dubbio nell’ambito dei sopra-richiamati titolo e premesse (questi i Capi di cui è formato l’intero DL. 23/2020: Capo I: misure di accesso al credito per le imprese, Capo II: misure urgenti per garantire la continuità delle imprese colpite dall’emergenza covid-19, Capo III: disposizioni urgenti in materia di esercizio di poteri speciali nei settori di rilevanza strategica, Capo IV: misure fiscali e contabili, Capo V: disposizioni in materia di termini processuali e procedimentali, Capo VI: disposizioni in materia di salute e di lavoro); in secondo luogo, non si rinvengono legami di alcun tipo tra l’art. 29, co. 2 e le altre poste dal Decreto, il quale non si occupa né di aspetti sanzionatori in generale né di procedure notificatorie; addirittura, nemmeno gli altri due commi di cui è composto l’art. 29 appaiono avere una qualche attinenza con il contributo unificato, disciplinando il co. 1 la modalità di deposito degli atti (telematico per ridurre il rischio di ulteriori contagi) e, il co. 2 la sospensione dei termini per lo svolgimento delle attività processuali degli enti impositori (per limitare le difficoltà legate alla ridotta mobilità personale).

L’appena condotto esame degli indici menzionati dalla Corte Costituzionale permette di rilevare come la norma in esame sia totalmente estranea rispetto alle ragioni di “straordinaria necessità e urgenza” che il Governo ha posto a sostegno della legiferazione d’urgenza e come la stessa sia in realtà estranea anche alle altre norme concretamente poste.

Ciò induce a ritenere che la previsione normativa non sia coerente con l’art. 77, co. 2 Cost., a nulla rilevando il fatto che il decreto sia stato regolarmente convertito in legge.

 

  1. Passando a esaminare il merito della novella, si ricorda, come anticipato, che la norma in esame contiene l’equiparazione delle modalità di notificazione dell’atto sanzionatorio a quelle già da tempo in vigore con riferimento agli avvisi di pagamento autorizzando l’utilizzo della PEC e modificando il luogo di notifica degli atti.

 

3.1. La possibilità che gli enti impositori e sanzionatori utilizzino lo strumento della posta elettronica certificata per la notificazione dei loro atti è sicuramente da valutarsi positivamente: tale modalità, infatti, ha numerosi e ben noti pregi, tanto che sta diventando il principale strumento di notifica.

Occorre, però, evidenziare che una simile modalità di notifica pare già essere stata garantita dalla normativa previgente. Gli atti sanzionatori qui in esame, infatti, risultano soggetti alla disciplina generale in materia di sanzioni amministrative contenuta nella L. 689/1981 (cfr. Cassazione civile, sez. II, 26 settembre 2018, n. 22906), la quale all’art. 14 non solo legittima la notifica diretta da parte dell’amministrazione procedente, ma soprattutto rinvia al codice di procedura civile, tra le cui norme vi è l’art. 149 bis, specificamente dedicato alla notifica a mezzo posta elettronica certificata.

Da questo punto di vista, quindi, la modifica introdotta dall’art. 29, co. 2 non appare avere un reale portato innovativo.

 

3.2. Discorso diverso, invece, è da farsi con riferimento al luogo della notifica, che effettivamente muta, passando dalla residenza/domicilio/sede civilistici a (esclusivamente) il domicilio processuale eletto per il processo tassato ovvero, nel caso di mancata elezione, lo stesso ufficio che ha emesso l’atto sanzionatorio.

Tale normativa è stata accompagnata immediatamente da gravi critiche, tanto da essere definita “palesemente incostituzionale” perché non idonea a garantire la conoscibilità dell’atto. Significativo è quanto scrive Cesare Glendi, secondo cui l’incostituzionalità della norma deriva dal fatto che “stabilisce, pure al di fuori di ogni presupposto di appurata irreperibilità del destinatario, l’equiparazione della notifica di un atto al suo destinatario al deposito dell’atto stesso presso il suo autore, senza nessuna, pur larvale, plausibilità che l’atto così depositato possa dirsi, o anche solo presumersi, rientrato nella sfera giuridica del destinatario. In altri più crudi termini, equiparando, sine cura, la mancata elezione di domicilio ad una “legittima” (?) omissione di notifica dell’atto sanzionatorio” (il contributo è reperibile liberamente a questo indirizzo internet: https://www.ipsoa.it/documents/fisco/contenzioso-tributario/quotidiano/2020/04/18/termini-processo-e-notifiche-cut-tempo-koronavirus).

Tali duri e condivisibili giudizi negativi evidenziano importanti criticità della normativa anche sotto il profilo sostanziale e inducono a investigare la possibilità che delle espressioni utilizzate dal legislatore emergenziale si dia una interpretazione diversa e più ampia rispetto a quella prima facie emergente dal significato letterale.

Considerato il tenore della disposizione, le considerazioni seguenti valgono anche con riferimento alla notifica dell’invito al pagamento disciplinata dall’art. 248, co. 2 TUSG. Ove richiamano la normativa del processo tassato, invece, si fa riferimento esclusivamente al processo civile e a quello tributario.

 

3.2.1. A un primo sguardo, l’interpretazione del nuovo art. 16, co. 1 ter TUSG e 248, co. 2 TUSG è semplice.

In linea generale, infatti, può osservarsi che il “domicilio eletto” è il luogo che la parte indica esplicitamente come quello in cui vuole gli siano notificati o comunicati gli atti processuali che lo riguardano. La manifestazione espressa di volontà, che caratterizza l’azione elettiva, può essere contenuta in uno qualsiasi degli atti processuali ovvero in uno dei processi verbali di causa – vd. art. 319 c.p.c., ed è distinta e privilegiata rispetto alla mera indicazione della residenza/domicilio/sede civilistici – ad es. l’art. 162 c.p.c. e gli artt. 17 e 18, D.Lgs. 546/1992.

Alla luce di ciò, parrebbe potersi sostenere (e questa è la lettura data dalla Relazione Illustrativa) che la norma debba essere interpretata nel senso che la mera mancanza dell’azione processuale dell’elezione di domicilio autorizzi il deposito presso l’ufficio notificante.

Trattasi, però, di un’interpretazione pericolosa, che, oltre ai già segnalati rilievi di incostituzionalità, nasconde difficoltà applicative significative.

Innanzitutto, si osservi che né l’art. 29, co. 2 né l’art. 248, co. 2 disciplinano il “domicilio eletto” in maniera autonoma e diversa rispetto alla normativa processuale, tant’è che non richiedono nemmeno un’elezione domiciliare specifica e ulteriore rispetto a quella eventualmente già effettuata nel processo tassato. La normativa tributaria e sanzionatoria, quindi, appare limitarsi a estendere ai fini tributari gli effetti dell’azione processuale, ciò che implica un rinvio alla normativa di quel processo.

Ciononostante, non appare possibile applicare sic et simpliciter la normativa processuale d’origine e soprattutto attribuire rilievo automatico ai fini tributario-sanzionatori alle eventuali cause di inefficacia dell’elezione di domicilio disciplinate dalla specifica normativa del processo tassato (si pensi, ad esempio, alla normativa processuale civilistica che, divergendo sul punto da quella tributaria, ritiene in determinati casi – es. art. 82, R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 – inefficace l’elezione di domicilio se effettuata con riferimento a un luogo posto in un comune diverso da quello in cui è situato l’ufficio dell’autorità giudiziaria procedente). Considerate le differenze presenti nei vari processi, infatti, questo porterebbe a una grave indeterminatezza degli artt. 16, co. 1 ter e 248 TUSG; contrasterebbe con la lettera delle due disposizioni, che chiaramente attribuiscono rilievo alla sola mancata elezione di domicilio; e violerebbe le varie rationes normative, che essendo per lo più differenti non possono che condurre a discipline differenti: mentre, infatti, nell’ambito de quo l’elezione di domicilio appare funzionale esclusivamente a semplificare il reperimento di informazioni circa il luogo della notifica, in ambito, ad esempio, processuale civilistico si mira anche e soprattutto a semplificare la concreta consegna dell’atto al suo destinatario.

A tale ultimo riguardo si evidenzia, che in linea generale manca nella normativa processual-civilistica un obbligo per l’avvocato difensore di indicare il proprio domicilio professionale. Tuttavia, occorre evidenziare che ex art. 82, R.D. 37/1934 è obbligo dell’avvocato eleggere un domicilio processuale esclusivamente ove non sia professionalmente assegnato alla circoscrizione dell’autorità giudiziaria procedente, non essendovi in caso contrario nemmeno l’obbligo di indicare l’indirizzo del domicilio professionale. Considerato che, come la Corte di Cassazione ha più volte e costantemente riconosciuto, l’assenza di un simile obbligo è da rinvenirsi ne “l'adeguatezza delle annotazioni nell'albo professionale a soddisfare in ambito locale le esigenze processuali di conoscenza del domicilio del procuratore” (Cassazione Sez. un. 27 gennaio 2009, n. 3818; nello stesso senso cfr. Cassazione civile, sez. III, 8 ottobre 2019, n. 25043), si ritiene che l’obbligo di elezione di domicilio nel luogo del Comune dell’autorità giudiziaria sia da rinvenirsi nella volontà legislativa di facilitare l’esecuzione materiale delle notifiche consentendo agevolando la consegna a mani dell’atto da parte dell’ufficiale giudiziario (in tal senso vd. Cassazione civile, sez. VI, 17 ottobre 2018, n. 29975)

Peraltro, occorre tenere a mente che, contrariamente a quanto lascerebbe intendere la Relazione Illustrativa, il destinatario della notifica degli atti de quibus non è il difensore ma la parte, dal che conseguono ulteriori rilevanti conseguenze.

Preliminarmente e rimanendo ai processi civili e tributari vale a tal riguardo ricordare la diversa posizione che i due soggetti ricoprono ai fini delle notificazioni degli atti e dell’elezione di domicilio. Infatti, solo nel processo civile (i) le notifiche/comunicazioni sono fatte al difensore (o alla parte, se si autodifende) e (ii) solo il difensore (o la parte, se si autodifende) ha l’obbligo di avere un “collegamento territoriale forte” con l’autorità giudicante (il richiamo principale è ovviamente all’art. 82, R.D. 37/1934), ritrovandosi, in caso contrario, ai fini processuali domiciliato ex lege presso la competente cancelleria. Nel processo tributario, invece, il ruolo del difensore è più sfumato e, non solo, non vi è l’obbligo di avere alcun “collegamento territoriale forte” con l’autorità giudiziaria, ma, salve poche eccezioni (ad esempio, la notificazione dell’impugnazione che anche nel processo tributario deve avvenire presso il difensore e mai presso la parte – cfr. Cassazione civile, sez. VI, 10 luglio 2018, n. 18104), è direttamente la parte e non il difensore il soggetto destinatario delle notificazioni/comunicazioni.

Circostanza fondamentale ai nostri fini è, tuttavia, che nella disciplina processuale civile e tributaria non vi è in capo alla parte alcun generalizzato obbligo di elezione di domicilio (in tal senso esplicitamente Cassazione civile, sez. III, 3 febbraio 2020, n. 2396). Se si guarda al processo civile, infatti, l’elezione di domicilio della parte è obbligatoria soltanto in casi particolari (es. nel processo avanti il Giudice di Pace ex art. 319, co. 2, c.p.c. ovvero nel rito del lavoro ex art. 414 c.p.c.) e, comunque, al ricorrere di peculiari condizioni ovvero, in particolare, che la parte medesima non abbia la residenza nel comune in cui si trova l’autorità giudiziaria procedente; negli altri casi, invece, l’elezione di domicilio non è affatto necessaria (vedasi l’art. 162 c.p.c. in materia di atto di citazione) o è alternativa alla mera indicazione della residenza/sede civilistici (vedasi i già citati artt. 319 e 414 c.p.c.). D’altro canto, nel processo tributario l’elezione di domicilio appare ancor meno rilevante, è del tutto svincolata dal luogo dell’autorità giudiziaria ed è alternativa rispetto alla mera indicazione della residenza/domicilio/sede civilistici (cfr. art. 18, D.Lgs. 546/1992). Sono pochissime le eccezioni a tale affermazione e si riducono di fatto al solo caso in cui il soggetto non possa indicare una residenza/domicilio nel territorio dello Stato.

Nel processo civile nessun obbligo generalizzato di eleggere domicilio sussiste nemmeno nel caso della parte che si autodifende nel processo civile ai sensi dell’art. 86 c.p.c.: in questo caso, infatti, trovano applicazione le norme ordinarie previste per i difensori (principalmente l’art. 82, R.D. 37/1934), le quali impongono l’elezione di domicilio soltanto nel caso in cui il processo sia celebrato avanti a un’autorità giudiziaria avente sede in un circondario diverso da quello cui il soggetto è professionalmente assegnato.

Quanto precede e soprattutto l’assenza di un obbligo generalizzato di elezione di domicilio processuale inducono a pensare che una lettura rigorosa del nuovo art. 16, co. 1 ter TUSG e dell’art. 248, co. 2 TUSG conduca a conseguenze irragionevoli, perché attribuirebbe valore a un’azione (l’elezione di domicilio della parte, appunto) che nella maggior parte dei casi è da considerarsi del tutto irrilevante nel processo di riferimento. La notifica presso l’ufficio procedente, in altre parole, rappresenterebbe una sanzione indiretta di un comportamento che nel processo in cui è tenuto non solo non è vietato, ma per lo più è riconosciuto come assolutamente legittimo. L’art. 18, co. 2, lett. b), D.Lgs. 546/1992 appare significativo sul punto.

Tali dubbi sono destinati ad aggravarsi se si considerano le seguenti ulteriori circostanze.

La prima è che la grave conseguenza prevista per l’omessa elezione di domicilio si verificherebbe anche laddove la finalità perseguita dal legislatore di ottenere con semplicità e rapidità informazioni circa il luogo della notifica sarebbe, comunque, garantita dalla mera indicazione negli atti di causa della residenza/domicilio/sede della parte e addirittura, più in generale, dall’ordinario sistema di pubblicità delle informazioni anagrafiche dei soggetti. La situazione è particolarmente evidente se si pensa all’universale e gratuita accessibilità dei dati essenziali delle imprese e dei professionisti mediante l’utilizzo di indirizzi internet quali www.inipec.it ovvero quelli dei vari ordini professionali.

La seconda importante considerazione è legata all’evoluzione normativa intervenuta in materia di posta elettronica certificata e domicilio digitale che entrambe le norme in esame richiamano.

Sul punto è utile ricordare che la disciplina generale del domicilio digitale è contenuta nella L. 82/2005, la quale all’art. 1, lett. n ter) lo individua nell’indirizzo di posta elettronica certificata e, se iscritto nei registri pubblici (obbligatoriamente accessibili da web gratuitamente e senza registrazione), lo equipara al domicilio fisico, attribuendo alle notifiche/comunicazioni ivi inviate gli effetti giuridici propri delle notifiche effettuate analogicamente con le procedure ordinarie (art. 6 ss.).

Ai fini processuali, inoltre, assume particolare rilievo l’obbligo di mera (!) indicazione negli atti di causa della posta elettronica del difensore che era stato introdotto negli artt. 125 e 366 c.p.c. dall’art. 2, co. 35 ter, lett. a), D.L. 138/2011. Secondo la giurisprudenza costante (vedasi in particolare la sentenza Cassazione civile Sez. un., n. 10143/2012) tali ultime norme hanno istituito un vero e proprio domicilio processuale digitale ante litteram ed erano già idonee a impedire la notifica presso la cancelleria nei casi di violazione dell’eventuale obbligo di elezione di domicilio (fisico).

Ma vi è di più. Ai sensi dell’art. 52, co. 1, lett. b), Decreto-Legge 24 giugno 2014, n. 90, che ha introdotto l’art. 16 sexies nel Decreto-Legge 18 ottobre 2012, n. 179, il possesso (obbligatorio) di un indirizzo PEC regolarmente iscritto nel registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della Giustizia, impone al notificante la sua consultazione e autorizza la notifica mediante deposito in cancelleria soltanto nel caso in cui “non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata”.

L’introduzione del domicilio digitale e, soprattutto, l’obbligo di consultazione dei registri pubblici per il recupero dell’indirizzo PEC appaiono restringere ulteriormente le possibilità di interpretazione letterale delle norme qui in esame. Peraltro, occorre rilevare che le norme appena menzionate paiono applicabili anche alla materia in esame poiché sono esplicitazione di generalizzati obblighi di diligenza e buona fede del notificante (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 6 marzo 2019, n. 6374 e Cassazione civile, sez. I, 31 luglio 2017, 19012), in generale, e, nello specifico, dei ben noti obblighi di buona fede e buon andamento della pubblica amministrazione che, non solo, non appaiono contrastanti con lo spirito e la lettera delle norme de quibus, ma nemmeno impongono alle cancellerie/segreterie giudiziarie uno sforzo significativo. Ciò tanto più se si considera la presunta volontà governativa di valorizzare la figura del difensore al quale primariamente è rivolta la normativa sul domicilio processuale digitale.

Da quanto precede appare confermata l’idea che l’attribuzione di rilievo ai nostri fini esclusivamente all’esplicita manifestazione di volontà circa il domicilio processuale porterebbe a conseguenze paradossali, aberranti, profondamente antisistemiche e antistoriche.

Per evitare tali aporie e contestualmente superare, almeno in parte, le critiche di incostituzionalità, appare, quindi, necessario, da un lato, estendere il concetto di “domicilio eletto” fino a considerare efficace anche la sola indicazione negli atti di causa della residenza/domicilio civilistico ovvero della sede legale; dall’altro, ritenere sussistente l’obbligo di consultazione dei pubblici registri con riferimento agli indirizzi di posta elettronica certificata.

In realtà, portando alle estreme conseguenze il ragionamento poc’anzi svolto e in un’ottica di interpretazione teleologica delle norme, appare di doversi ritenere che la notifica presso la cancelleria/segreteria dell’autorità giudiziaria procedente debba ritenersi preclusa anche nel caso in cui dai medesimi registri pubblici, soprattutto se accessibili universalmente on-line, sia reperibile un indirizzo di residenza/domicilio/sede della parte: ciò, sia perché le esigenze di semplificazioni informativa risulterebbero parimenti garantite; sia perché in tal modo verrebbe garantita anche l’identità di trattamento tra quelle parti (es. gli avvocati) che hanno potuto scegliere di difendersi autonomamente (come visto, infatti, la normativa processuale attribuisce all’iscrizione della PEC negli appositi registri pubblici la funzione di elezione di domicilio processuale digitale) rispetto alle altre che, pur non potendosi difendere autonomamente, si trovano in situazioni sostanzialmente identiche quanto al possesso di residenza/domicilio (anche digitale)/sede inclusi in registri pubblici analoghi.

 

3.2.2. Con riferimento all’obbligo (residuale) che gli atti impositivi e/o sanzionatori siano notificati presso la cancelleria/segreteria dell’autorità giudiziaria procedente per il caso in cui non sia stato eletto alcun domicilio processuale, è facile osservare la natura sanzionatoria della disposizione che colpisce il comportamento omissivo della parte, letto alla stregua di una illegittima ostruzione.

In linea generale, si può ricordare che la giurisprudenza ordinaria e costituzionale già ha affrontato e convalidato norme sanzionatorie contenenti semplificazioni di procedure notificatorie nei confronti di soggetti che abbiano tenuto comportamenti “elusivi”.

Eclatante in tal senso è la giurisprudenza della Suprema Corte e della Corte Costituzionale con riferimento all’art. 15, Legge 16 marzo 1942, n. 247, che pone una procedura semplificata per la notifica del ricorso per fallimento e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza camerale, autorizzando la notifica per deposito in cancelleria nel caso in cui non sia stata possibile a mezzo PEC all’indirizzo risultante nei pubblici registri e il debitore non sia stato trovato presso il suo domicilio professionale.

Tale semplificazione ha fatto sorgere anche dubbi di legittimità costituzionale, in quanto, in una logica sanzionatoria in astratto simile a quella che caratterizza le norme de quibus, sono escluse le ulteriori cautele previste dall’art. 145 c.p.c. e, in particolare, l’invio di una comunicazione di avvenuto deposito e la ricerca del debitore presso la residenza o domicilio personale sua o del suo legale rappresentante (ove società). La giurisprudenza ha negato la violazione dei precetti costituzionali valorizzando il comportamento elusivo del debitore e ritenendo, quindi, lecito comminare siffatte sanzioni indirette “allorquando la situazione di irreperibilità dell’imprenditore debba imputarsi alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico” (Corte Cost. 16 giugno 2016, n. 146).

A differenza di quanto accade in ambito fallimentare, tuttavia, nella materia in esame risulta particolarmente complicato vedere un analogo comportamento ostruzionistico o anche solo un’analoga scorrettezza in chi si è normativa regolatrice; né ciò appare sussistere in chi abbia, comunque, reso pubbliche tali informazioni nei modi ordinariamente previsti dalla legge e sia ivi effettivamente reperibile. Soprattutto se tali informazioni sono facilmente reperibili online (cfr. Cassazione civile, sez. III, 6 settembre 2012, n. 14934, che impone al notificante l’onere di ricercare il nuovo indirizzo dell’avvocato che abbia cambiato il proprio domicilio professionale regolarmente comunicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza).

Sotto questo profilo la questione del luogo della notifica appare rafforzare ulteriormente l’interpretazione estensiva dell’espressione “domicilio eletto” proposta al paragrafo che precede e induce a ritenere che la notifica per mero deposito presso l’ufficio debba essere intesa come meramente sostitutiva del deposito presso la casa comunale nei casi di irreperibilità assoluta. Ciò tanto più se si considera che, in realtà, i comportamenti “scorretti” sanzionati sono commessi non dal soggetto sanzionato (la parte) ma da un soggetto diverso cui lo stesso ordinamento garantisce un’autonomia molto ampia e con riguardo al quale per questa specifica materia potrebbe persino risultare difficile ipotizzare una reale culpa in eligendo.

 

3.3. Un ulteriore punto meritevole di indagine è l’inciso relativo alla possibilità di notificare l’atto “anche attraverso la comunicazione contenuta nell’invito al pagamento di cui all’articolo 248” del D.Lgs. 115/2002.

Nonostante l’inspiegabile silenzio tenuto dalla Relazione Illustrativa sul punto, l’inciso appare gravido di conseguenze, essendo idoneo a incidere sulla fattispecie sanzionatoria, oltre che sulla scansione temporale dei due atti (invito al pagamento e atto sanzionatorio).

Vale, quindi, ricordare che in precedenza l’irrogazione della sanzione conseguiva esclusivamente al mancato pagamento entro trenta giorni dalla notifica dell’invito al pagamento (vedasi ad es. le già richiamate Circ. 1/DF/2011 del Ministero dell’Economia e delle Finanze e Circ. n. 29/E/2017 dell’Agenzia delle Entrate), e ciò nonostante appaia innegabile che il fatto generatore del tributo sia rappresentato dalla costituzione in giudizio ovvero da uno degli ulteriori fatti previsti dall’art. 14 TUSG.

Il nuovo art. 16, c. 1 ter TUSG, invece, ammettendo la notifica dell’atto sanzionatorio contestualmente ovvero unitariamente all’invito al pagamento, modifica il fatto sanzionato ponendo rilievo, invece, sull’originaria omissione/carenza del soggetto attivo, al fine di ulteriormente indurre al tempestivo adempimento dell’obbligo tributario.

Sorprende allora che con la modifica il Legislatore emergenziale non abbia reso ancor più efficacie la novella mediante l’adozione delle norme sugli accertamenti esecutivi, trend che pare ormai inarrestabile e che ha coinvolto, da ultimo, anche i tributi locali.

3.4. Un ultimo aspetto da valutare è quello dell’efficacia temporale della normativa, che dalla Relazione Informativa parrebbe condizionare tutti gli atti sanzionatori emessi e notificati dalla sua entrata in vigore.

In realtà, ciò non pare possibile per una serie di ragioni.

Considerata la generale assenza dell’obbligo di elezione di domicilio nei processi tassati, un primo ordine di problemi è dato dal coordinamento con le altre norme emergenziali emesse per la gestione della pandemia da COVID-19 (soprattutto il D.L. 18/2020). Occorre, infatti, ricordare che tali norme hanno posto limiti significativi alla circolazione delle persone e allo svolgimento dell’attività processuale. Conseguentemente, non si può non osservare come l’obbligo di immediato deposito presso l’ufficio procedente dell’atto sanzionatorio a causa dell’omessa elezione di domicilio processuale avrebbe l’effetto di sanzionare un comportamento, che, non solo del tutto legittimo nel momento in cui è stato realizzato, ma soprattutto che potrebbe di fatto essere non immediatamente modificabile a causa delle numerose concomitanti norme emergenziali.

Un secondo ordine di problemi, invece, è legato alla modificazione della fattispecie sanzionata. A tal proposito si osserva che l’applicazione della nuova normativa con riferimento ad atti depositati prima della sua entrata in vigore contrasterebbe con il generale divieto di applicazione retroattiva delle norme sanzionatorie amministrative, tanto più oggi che alle sanzioni amministrative tributarie è generalmente riconosciuta natura sostanzialmente penale (vd. fra tutte le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Jussila contro Finlandia del 23 novembre 2006 e Nykanen contro Finlandia del 20 maggio 2014).

Al fine di superare siffatte problematiche pare inevitabile che la novella sia applicata esclusivamente con riferimento agli atti formati e depositati successivamente alla sua entrata in vigore.

  1. Alcune considerazioni conclusive. L’indagine che precede ha evidenziato l’esistenza di numerosi aspetti negativi della normativa appena emanata che, oltre a metterla a rischio di contrasto con la Costituzione, espongono un’ingiustificata lesione dei diritti del debitore sanzionato e, a ben vedere, dello stesso debitore in qualità di contribuente, dal momento che la normativa qui esaminata è identica a quella già prevista e applicata per la notifica degli inviti al pagamento del tributo.

Alcuni aspetti della normativa sono già stati affrontati anche dalla Corte Costituzionale che li ha avallati con la recente sentenza 29 marzo 2019, n. 67. Il caso affrontato in quella occasione, tuttavia, è il meno problematico, in quanto relativo a un atto notificato presso il domicilio eletto ai fini processuali, ma che non sarebbe stato trasmesso dal domiciliatario al suo effettivo destinatario. Il rigetto della Corte è stato, infatti, piuttosto, semplice: l’elezione di domicilio è frutto di una libera scelta della parte effettuata sulla base di un rapporto di fiducia, che rende assolutamente non implausibile (e, verrebbe da dire, assolutamente probabile) che l’atto notificando sia entrato nella sfera di disponibilità del suo destinatario (la Corte, inoltre, condivisibilmente rileva che l’eventuale omesso adempimento da parte del domiciliatario del suo obbligo di trasmettere l’atto alla parte non scalfisce la legittimità dell’individuazione del domicilio eletto quale luogo di privilegiata notifica, poiché si tratta di circostanza che “si risolve […] in un inconveniente di mero fatto, come tale inidoneo a incidere sulla lamentata lesione di parametri costituzionali”).

I principi espressi dalla Corte appaiono condivisibili e, tra l’altro, espressivi di principi generali che permeano l’intero ordinamento giuridico. Del resto, nel momento in cui un soggetto liberamente dichiara di voler ricevere le comunicazioni che lo riguardano in un determinato luogo, non si vede come si possa negare legittimità alle notifiche degli atti effettuate proprio presso tale luogo. Ciò tanto più se si considera che analoghi principi valgono da tempo in ambito penale.

Maggiori difficoltà, invece, generano i casi di mancata elezione di domicilio, in quanto portano con sé il rischio già rilevato di notifiche presso l’ente impositore/sanzionatore senza la reale possibilità di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario e senza che ciò trovi la sua giustificazione nell’irreperibilità del destinatario o anche solo nell’obiettiva difficoltà di rinvenimento di informazioni circa il luogo della notifica. Queste, ove si rigetti l’interpretazione estensiva qui proposta, non sono state affrontate dalla Corte Costituzionale e rappresentano un probabile elemento di future complicazioni non necessarie e prive di reali benefici.

Per concludere, se proprio l’obiettivo di fondo era davvero quello evidenziato dalla Relazione Informativa di semplificazione, maggiore efficacia dell’azione amministrativa accertativo-sanzionatoria e valorizzazione del ruolo del difensore non si comprende nemmeno perché il Legislatore emergenziale non abbia previsto la domiciliazione ex lege presso il difensore mediante una norma analoga all’art. 170 c.p.c. e, in ogni caso, non abbia esteso anche alle procedure accertativo-sanzionatorie la normativa degli avvisi di accertamento immediatamente esecutivi che dall’1 gennaio 2020 abbraccia anche i tributi locali.