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G. Giappichelli Editore

17/02/2023 - Imputazione del maggior reddito accertato nell'impresa familiare

argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 9198 del 22 marzo 2022 riafferma l'orientamento maggioritario della giurisprudenza secondo cui, in sede accertativa, il maggior reddito rilevato nei confronti dell’impresa familiare deve essere imputato solo all'imprenditore e non anche ai collaboratori familiari. Nel quadro attuale, tuttavia, carenze e disallineamenti normativi potrebbero condurre a soluzioni interpretative di segno opposto.

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PAROLE CHIAVE: impresa familiare - reddito di impresa - trasparenza fiscale - imputazione del reddito


di Francesco Scialpi

1. L’ordinanza 22 marzo 2022, n. 9198, della Corte di Cassazione riafferma un orientamento maggioritario della giurisprudenza che legittima l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, ad imputare i maggiori valori rilevati nell’impresa familiare al solo titolare della stessa e non anche ai suoi collaboratori, in quanto, ai fini fiscali, tali redditi sarebbero dovuti confluire nella sua dichiarazione (cfr. Logozzo, Il trattamento della famiglia nell'ordinamento tributario, in V. Ferrante (a cura di), Lavoro, cittadinanza, famiglia, Milano, 2016).

Eppure, nel quadro attuale, carenze normative ed asimmetrie fra la disciplina fiscale e quella civilistica potrebbero condurre a soluzioni interpretative di segno opposto (cfr. G. Napoli - S. Villani, Impresa familiare: aspetti civilistici, fiscali e previdenziali, in il fisco, 37/2003; C. Sacchetto, La tassazione della famiglia: aspetti nazionali e comparati, Soveria Mannelli, 2020; S. D’Andrea, Impresa individuale e impresa familiare - Disciplina civilistica e regime fiscale, Pisa, 2022). È noto infatti come, nel corso degli ultimi anni, l’istituto sia stato oggetto di numerose e profonde trasformazioni, legate al mutato ruolo della donna e, più in generale, all’evoluzione del nucleo domestico e dei rapporti intra-familiari. Ciò ha portato alla riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151), al superamento della praesumptio iuris tantum di gratuità della prestazione lavorativa resa dal familiare per affectionis vel benevolentiae causa, al passaggio dal principio del cumulo (che prevedeva l’imputazione al marito, inteso come capofamiglia, dei redditi prodotti da mogli e figli) a quello del decumulo, nonché, da ultimo, alla c.d. legge Cirinnà (l. 76/2016) riguardante le convivenze di fatto e le unioni civili tra persone dello stesso sesso.

2. In primis, vale la pena evidenziare come l’art. 230-bisc. (art. 89, l. 151/1975) si limiti a delineare i contorni dell’istituto senza fornire una definizione di impresa familiare (cfr. F. Prosperi, Impresa Familiare - Art. 230-bis, in Il Codice Civile. Commentario, Milano, 2006): essa può essere intesa come quella in cui collaborano, in modo continuativo e non occasionale, uno o più familiari dell'imprenditore – coniuge, parenti (artt. 74 e ss., c.c.) entro il terzo grado ed affini (art. 78, c.c.) entro il secondo grado – a cui spettano, salvo la sussistenza di diverso rapporto lavorativo, il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia nonché la partecipazione agli utili dell'impresa, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda (compreso l’avviamento) in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (ciò riguarda, secondo l’art. 230-ter c.c., anche il convivente, sempreché non esista un rapporto di società o di lavoro subordinato che leghi la coppia di fatto).

La situazione non muta per la costituzione dell’impresa: sebbene la norma non imponga alcuna formalità – ma, tutt’al più, la presenza dei requisiti poc’anzi menzionati – appare consigliabile, al di là delle tutele in sede probatoria, l’utilizzo della forma scritta, in quanto, con essa, risulta chiaramente e pienamente manifestata la volontà di adottare il modello in esame (cfr. Cass., 1917/1999, Cass., 27839/2005; contra Cass., 8959/1992).

3. Diversamente, ai fini fiscali, la redazione e la sottoscrizione, da parte dell’imprenditore e di tutti i familiari, di atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta e recante l’indicazione degli stessi partecipanti e del relativo rapporto di parentela o affinità, è condizione per aderire alle disposizioni dettate dall’art. 5, co. 4, del T.U.I.R. (cfr. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2019): affinché i redditi delle imprese familiari siano imputati nel limite del 49% ai collaboratori, occorrerà, tra l’altro, che la dichiarazione dell’imprenditore individui le quote di partecipazione agli utili spettanti a ciascuno di essi e certifichi che le stesse risultino proporzionate alla qualità e alla quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo di imposta considerato. Parimenti, ciascun collaboratore-familiare dovrà attestare nella propria dichiarazione di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.

4. Secondo la Circolare del MEF n. 6/1984, peraltro, l’imputazione per trasparenza «va effettuata sul reddito dell'impresa familiare risultante dalla dichiarazione dell'imprenditore […] e non sul maggior reddito accertato né sul reddito accertato dall’ufficio in caso di omessa dichiarazione del titolare». Conseguentemente, gli eventuali maggior valori andranno «attribuiti esclusivamente al titolare dell’impresa e non […] agli altri familiari aventi diritto alla partecipazione agli utili dell'impresa»; stessa cosa dicasi per le relative sanzioni penali e amministrative che, dunque, andranno comminate nei confronti dell’«unico agente cui va ricondotto l’evento omissivo».

5. Come anticipato, la questione costituisce oggetto di risalenti e ripetuti approfondimenti giurisprudenziali che, in alcuni casi, hanno condotto conclusioni di segno opposto (cfr. Comm. trib. prov. Savona, 10 ottobre 1984, n. 30014; Comm. trib. prov. Livorno, 25 giugno 1987, n. 2239). Secondo l’orientamento minoritario, infatti, «il maggior reddito contestato all’impresa familiare va ripartito tra i partecipanti laddove l’Amministrazione non contesti l’esistenza dell’impresa familiare o l’entità delle percentuali di ripartizione, non potendosi effettuare una scissione tra imputazione del reddito dichiarato ed imputazione del maggior reddito accertato» (Comm. trib. prov. Trento, 7 febbraio 2013, n. 13); allo stesso modo, essendo il collaboratore familiare tenuto a comunicare i propri utili a prescindere dall’effettiva percezione (cfr. Comm. trib. reg. Palermo, 27 febbraio 2012, n. 36), i presunti maggior valori accertati non potrebbero essere imputati dall’Ufficio utilizzando percentuali differenti rispetto a quelle indicate in dichiarazione, sempreché non venga contestata la titolarità delle relative quote (cfr. Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sentenza 384/3/2014, richiamata da Iorio, Impresa familiare, rettifiche «per quote», in Il Sole 24 ore, 2014, p. 34).

Analogamente, parte della giurisprudenza di legittimità, sostenendo l’unitarietà metodologica nell’accertamento tributario (cfr. Cass., 4 giugno 2008, n. 14815; Cass., 1 dicembre 2015, n. 24472), afferma che, in questa fase, si applichino le medesime regole previste in sede di tassazione: i redditi dichiarati possono, dunque, essere rettificati ed imputati, per trasparenza, a ciascun socio, in proporzione alla quota di partecipazione agli utili e indipendentemente dall’effettiva percezione (cfr. C.T.R. Potenza, 9 dicembre 2013, n. 295).

In merito ai diritti spettanti al collaboratore, è poi intervenuta la Suprema Corte (cfr. Cass., 15 Ottobre 2007, n. 21535), secondo cui il principio di trasparenza fiscale va applicato anche alle eventuali plusvalenze generate dalla vendita dell’impresa familiare o dalla morte del suo titolare.

6. Alla luce dell’analisi finora compiuta, è evidente che entrambi gli indirizzi giurisprudenziali risultino in parte coincidenti.

Malgrado la questione risulti particolarmente dibattuta (C. Iodice - S. Mazzeo, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2016, p. 329), entrambe le tesi convergono, infatti, sulla natura giuridica del modello in esame: rispetto all’impresa collettiva – caratterizzata dalla compresenza di più soggetti cui appartiene un’organizzazione societaria – nell’impresa familiare, la titolarità spetta al solo imprenditore (cfr. Cass., 02 dicembre 2015, n. 24560), pur essendo riconosciuti ai familiari diritti a contenuto patrimoniale e amministrativo a valenza interna (cfr. Cass., 27 giugno 1990, n. 6559; Cass., 25 luglio 1992, n. 8959; Cass., 4 ottobre 1995, n. 10412; Cass., 19 ottobre 1995, n. 10893; Cass., 6 marzo 1999, n. 1917).

L’imprenditore (art. 2082 c.c.), dunque, è figura apicale della fattispecie, in relazione alla quale il co. 3 dell’art. 230-bis c.c., definisce un vincolo di parentela e non un rapporto di contitolarità: è lui il soggetto che spende legittimamente il proprio nome, assumendosi rischi e responsabilità connesse all’esercizio dell’attività d’impresa.

Quanto detto, evidentemente, esclude l’ipotesi di litisconsorzio necessario (cfr. Cass., 18 gennaio 2005, n. 874) e sollecita, altresì, un’ulteriore considerazione: il reddito percepito dal titolare, pari al reddito conseguito dall’impresa al netto delle quote di competenza dei familiari, costituisce reddito d’impresa; i compensi percepiti pro quota dai collaboratori sono, invece, redditi di puro lavoro e non sono assimilabili a quelli di impresa (Cfr. Cass., 2 dicembre 2008, n. 28558; Cass., 30 dicembre 2010, n. 26388).

Volgendo l’attenzione alla genesi dell’istituto, inoltre, appare evidente come l’intento del legislatore non sia «stato quello di creare una società fra i membri della “famiglia” quanto quello di tutelare i più deboli del gruppo nei confronti di chi, promotore dell’iniziativa e polo di attrazione dei legami ad un tempo lavorativi, familiari ed imprenditoriali, costituisce il vero ed unico gestore dell’impresa» (cfr. Cass., 27 giugno 1990, n. 6559 richiamata da L. Balestra, Attività d’impresa e rapporti familiari, Padova, 2008, p. 152).

7. D’altro canto, in un contesto normativo fortemente condizionato dall’assenza di una disciplina organica, ciò che rende gli indirizzi divergenti riguarda, essenzialmente, la valutazione dell’operato dell’Amministrazione finanziaria che, in sede di accertamento, adopera differenti metodologie nell’imputazione dei maggior redditi rilevati.

Come accennato, secondo l’orientamento prevalente, i maggior valori accertati possono riferirsi al solo titolare dell’impresa, rimanendo esclusa l’attribuzione «pro quota agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d’impresa» (Cass., 20 dicembre 2019, n. 34222).

Al contrario, per l’indirizzo minoritario, la mancata contestazione dell’impresa familiare, dell’entità delle percentuali di ripartizione o, ancora, della titolarità delle relative quote, non legittima l’Amministrazione finanziaria ad imputare il reddito presunto al solo titolare, prescindendo totalmente dalle evidenze dichiarative: ciò, evidentemente, presuppone che l’Ufficio sia in possesso di prove inconfutabili che ne autorizzino l’azione.

Questo, sul piano pratico-applicativo, si traduce diversamente a seconda delle ipotesi considerate.

Nel primo caso, il difetto anche di una sola delle condizioni previste dall’art. 5, co. 4, del T.U.I.R., precluderebbe l’accesso al trattamento fiscale riservato al modello familiare: ciò legittimerebbe l’Amministrazione finanziaria a riconsiderare, anche quando le singole dichiarazioni dei collaboratori fossero state compilate in modo corretto, la natura giuridica dell’impresa e ad imputare, comunque, i maggiori redditi accertati in capo al solo titolare (cfr. Cass., 10 febbraio 2017, n. 2472).

Più complessa, invece, l’analisi delle altre due fattispecie.

L’assenza di una disciplina ad hoc concernente l’accertamento presunto di maggior valori, renderebbe, almeno in linea teorica, più corretta l’applicazione del principio generale (cfr. art. 37, co. 3, d.p.r. 600/1973) secondo cui, «in sede di rettifica o di accertamento d'ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l'effettivo possessore per interposta persona».

D’altra parte, l’Ufficio che decidesse di contestare le quote dei familiari o le percentuali di ripartizione, difficilmente sarebbe in grado di raccogliere tutti gli elementi necessari per ricostruire la reale posizione reddituale dei singoli collaboratori e procedere, una volta rilevati i maggior valori, alla rideterminazione di quella fiscale.

L’imputazione dei redditi dell’impresa familiare avviene, infatti, in ragione delle quote di partecipazione agli utili spettanti a ciascun familiare, commisurate a loro volta a parametri quali-quantitativi determinati arbitrariamente – e spesso in ragione della convenienza economica – dallo stesso imprenditore: considerati i legami affettivi ed i vincoli di parentela che legano i soggetti coinvolti nell’impresa, le eventuali presunzioni in possesso dell’Amministrazione potrebbero non essere sufficienti o, comunque, facilmente confutabili.

Ciò premesso, appare corretto imputare al solo titolare dell’impresa quanto eventualmente rilevato e/o comminato: a lui compete il principale obbligo dichiarativo ed è a lui che vanno ricondotte le eventuali negligenze e/o condotte omissive.

Come ribadito dalla Suprema Corte, dunque, «fatta salva la limitata imputazione ai collaboratori familiari nella sede della dichiarazione dei redditi, prodotta dall'imprenditore, ex art. 5 del T.U.I.R., il reddito d'impresa deve essere considerato come prodotto dal suo titolare, con la conseguenza che un eventuale accertamento di maggiori redditi d'impresa da parte dell'Amministrazione finanziaria deve essere imputato esclusivamente all'imprenditore e non ai collaboratori familiari, non assimilabili a dei contitolari del reddito prodotto dall'impresa» (Cass., 28 marzo 2017, n. 7995).

Ad ogni modo, in ipotesi di accertamento divenuto definitivo, il collaboratore potrà, in sede civilistica, richiedere al titolare, in funzione dei maggiori valori emersi nella dichiarazione dello stesso imprenditore, il riconoscimento della quota di maggior reddito accertato o della maggior quota di avviamento prodottasi.