Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

11/07/2022 - Divisione giudiziale con conguaglio e imposta di registro

argomento: Imposte sui trasferimenti e altri tributi - Giurisprudenza

La pronuncia affronta il caso del trattamento fiscale, ai fini dell’imposta di registro, della divisione giudiziale con conguaglio. La Suprema Corte ribadisce che qualora la divisione di un compendio abbia luogo mediante la sua integrale assegnazione ad uno dei condividenti, con pagamento agli altri di una somma pari al valore delle rispettive quote, si applica l’imposta di registro con aliquota dell’1% prevista dal D.P.R. 131/1986, allegata Tariffa, parte prima, art. 3.

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PAROLE CHIAVE: divisione - natura dichiarativa - conguaglio


di Irene Pini

 

  1. La controversia decisa dalla Corte di Cassazione, che ivi si annota, ha ad oggetto il trattamento fiscale del conguaglio, ai fini dell’imposta di registro, nell’ipotesi di divisione giudiziale.

Nel caso che ci occupa, il compendio immobiliare veniva assegnato, nell’ambito del giudizio civile di divisione, ad uno dei condividenti, con obbligo a carico di quest’ultimo di pagare all’altro un conguaglio pari al valore della rispettiva quota. Sulla base della sentenza civile di scioglimento della comunione, l’Agenzia delle Entrate liquidava, sul conguaglio, l’aliquota dell’imposta di registro prevista per gli atti traslativi.

Il contribuente impugnava quindi l’avviso di liquidazione, per ottenerne l’annullamento, poiché l’imposta di registro, a suo dire, avrebbe dovuto essere liquidata con aliquota dell’1%.

Vittorioso in primo grado, ma soccombente in appello, il contribuente ricorreva in Cassazione, sostenendo il mal governo, da parte della Commissione tributaria regionale, degli artt. 34 e 37, D.P.R. n. 131/1986; artt. 3 e 8, della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986; artt. 757 e 1116 c.c.

In questa sede, possiamo anticipare che la decisione in commento è conforme all’orientamento pressoché unanime della giurisprudenza di legittimità, volto a riconoscere l’applicazione dell’imposta di registro con l’aliquota dell’1%, qualora (come nel caso di specie) la divisione dell’asse ereditario abbia luogo mediante l’integrale assegnazione in natura dei beni presenti ad uno dei condividenti, con conseguente pagamento agli altri di una somma di denaro pari al valore delle rispettive quote di diritto.  

Il convincimento della Suprema Corte si basa sulla natura dichiarativa della divisione in materia tributaria. In sostanza, ove le porzioni concretamente assegnate ai condividenti (quote di fatto) corrispondano alle quote che spettano ai partecipanti sui beni della massa in ragione dei diritti che vantano (quote di diritto), la divisione deve considerarsi atto dichiarativo, che sconta l’imposta di registro così come determinata dall’art. 3, allegata Tariffa, D.P.R. 131/1986 (e non l’aliquota propria degli atti traslativi attualmente pari al 9%).

Deve segnalarsi come la decisione in commento sia solo una delle tante pronunce sul tema, depositate di recente dalla Suprema Corte. Il proliferare di controversie aventi ad oggetto la presente questione fa presumere come l’Amministrazione finanziaria non abbia ancora correttamente “metabolizzato” i principi cardine della materia.

Probabilmente, ad alimentare il contenzioso fiscale, ha contributo l’arresto del 2019 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 7 ottobre 2019, n. 25021), secondo la quale il negozio divisorio  deve essere qualificato (ai fini civilistici) quale atto inter vivos, avente natura “costitutivo-traslativo” (e non atto mortis causa e dichiarativo).

Tuttavia, come vedremo di seguito, la configurazione della divisione deve essere valutata diversamente a seconda che si prendano in considerazione gli effetti civilistici o fiscali della medesima, avendo le due branche giuridiche interessi diversi da perseguire. Con la pronuncia in commento, la sezione tributaria della Suprema Corte ha voluto, sul punto, sgombrare il campo da ogni dubbio, ribadendo che la rimodulazione operata dalle Sezioni Unite, in tema di natura civile della divisione, non vale ai fini dell’imposizione di registro della fattispecie divisionale, per la quale va riaffermata la natura dichiarativa (in tal senso, anche Cass., sez. V, 1° dicembre 2020, n. 27409).  

  1. Come è noto, la divisione è il normale, seppur non esclusivo, strumento di scioglimento della comunione.

La comunione può essere “ordinaria” oppure “ereditaria” e deve essere intesa come quella situazione in cui “la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone” (art. 1100 c.c.).

La comunione ereditaria presenta tuttavia una peculiarità, tale da renderla una “figura speciale” rispetto alla più generale comunione ordinaria (è questa la ragione per cui è soggetta alla medesima disciplina - artt. 1100 c.c. e ss. - in quanto con essa compatibile), consistente nel fatto che essa ha ad oggetto i beni che componevano il patrimonio del de cuius e si costituisce ipso iure tra gli eredi quando, a seguito dell’apertura di una successione mortis causa, vi siano una pluralità di chiamati all’eredità ed una pluralità di accettazioni (espresse o tacite).

La comunione ereditaria non è quindi “volontaria”, poiché sorge da un mero “fatto giuridico” e si costituisce indipendentemente dalla volontà dei chiamati alla eredità, con la conseguenza che va annoverata tra le comunioni “incidentali”.

Ogni comunione è, per sua natura, transitoria, potendo in ogni momento cessare: ogni comunista può, infatti, domandare, in ogni tempo, la divisione, anche in disaccordo con gli altri compartecipi, mediante esercizio di tale apposito diritto potestativo individuale riconosciutogli dall’ordinamento (artt. 1111 c.c. e art. 713 c.c.).

Come è noto, la disciplina in materia di divisione ereditaria, contenuta negli artt. 713 e ss. c.c., si applica anche alla divisione delle cose comuni, in quanto compatibile, per effetto del disposto di cui all’art. 1116 c.c.

Il legislatore non fornisce una definizione tipica di divisione, la quale può comunque essere qualificata come quel complesso di operazioni giuridiche, che sfociano, appunto, nello scioglimento di una comunione di diritti attraverso l’attribuzione, ad ogni partecipante, di valori corrispondenti alla quota di cui è titolare.

La quota, intesa come frazione ideale del tutto, indica la misura secondo la quale ciascun comunista concorre nei vantaggi e nei pesi inerenti alla cosa comune. Nell’ambito delle operazioni divisionali, essa dovrà dunque essere determinata aritmeticamente. In altre parole, con la divisione cessa la situazione di contitolarità e ciascun compartecipe trova riconosciuta la titolarità solitaria di uno o più beni, o di una porzione di bene, prima comune, in proporzione alla propria rispettiva quota.

La divisione può essere realizzata con diverse modalità: può avvenire in natura, oppure mediante attribuzione, ad un comunista, di somme di danaro - cosiddetti conguagli - qualora ad alcuni dei contitolari siano attribuiti diritti eccedenti la misura loro spettante; si pensi, ancora, alla vendita, ad un terzo, del bene comune, con conseguente ripartizione del ricavato tra i compartecipi.

Indipendentemente dalle modalità utilizzate, il fine ultimo della divisione è, come già detto, quello dello scioglimento della comunione, con formazione di porzioni di valore corrispondente alla quota di ciascun comunista. Ove si verifichi un’ineguaglianza in natura nelle quote può compensarsi, ai sensi dell’art. 728 c.c., con conguagli, cioè con un equivalente in danaro (sia questo, ovvero no, compreso nella massa dividenda). I condividenti creditori del conguaglio sono, addirittura, assistiti da garanzia ipotecaria legale ex art. 2817, n. 2, c.c. sui beni immobili assegnati agli altri coeredi, iscritta d’ufficio, ai sensi dell’art. 2834 c.c.

Come è noto, uno dei temi maggiormente dibattutati dalla dottrina e dalla giurisprudenza civilistiche ha riguardato la natura giuridica della divisione (in dottrina, la tesi della natura dichiarativa e retroattiva della divisione è tradizionalmente sostenuta da G. AZZARITI, La divisione, in Successioni, t. II, in Tratt. Rescigno, VI, Torino, 1997, pag. 467; F. GALGANO, Diritto privato, Padova, 1996, pag. 837; G. GAZZARA, voce “Divisione (dir. priv.)”, in Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, pag. 423; F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Milano, 1962, pag. 568. In senso contrario, tra gli Autori sostenitori della natura costitutiva: P. FORCHIELLI – G. ANGELONI, Divisione, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2000, pag. 63; M. BIANCA, La proprietà, in Diritto civile, IV, Milano, 2000, pag. 486; L. BIGLIAZZI GERI – U. BRECCIA – F. BUSNELLI – U. NATOLI, Le successioni a causa di morte, in Diritto civile, IV, t. II, Torino, 1997, pag. 263).

In particolare, la giurisprudenza, sulla scorta dell’art. 757 c.c., attribuiva alla divisione carattere dichiarativo (Cass. 5133/1983) e retroattivo (Cass. 1175/1983), con esclusione dell’efficacia traslativa, dal momento che il titolo di acquisto del singolo condividente è da farsi risalire non già all’atto divisionale, ma al titolo originario sul quale si fondava la comunione, sciolta poi con la divisione (Cass. 7231/2006). Tuttavia, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno, di recente, qualificato la divisione ereditaria come atto inter vivos, avente natura costitutivo – traslativa (Cass., S.U., 25021/2019).

In sostanza, la Cassazione ritiene che, dalla disposizione di cui all’art. 757 c.c. e dall’efficacia retroattiva dell’atto divisionale, non possa argomentarsi né la natura meramente dichiarativa del contratto di divisione ereditaria, né, tantomeno, la sua natura di atto mortis causa.

Secondo la Suprema Corte, infatti, l’atto di scioglimento della comunione ereditaria deve essere assimilato, quanto alla natura e ai suoi effetti, all’atto di scioglimento della comunione ordinaria: entrambi costituiscono contratti plurilaterali ad effetti reali e con funzione distributiva, con i quali i contraenti si ripartiscono le cose comuni in proporzione alle rispettive quote, ponendo fine allo stato di contitolarità in cui essi si trovano rispetto ad un bene o ad un complesso di beni.

In particolare, la divisione non ha causa ricognitiva di effetti giuridici già verificatisi, ma - al contrario - ha causa attributiva e distributiva, in quanto ciascun condividente può divenire l’unico titolare di questo o di quel bene ricadente in comunione solo se vi sia stato un procedimento (contrattuale o giudiziale) che abbia determinato, con effetti costitutivi, lo scioglimento di quella comunione.

La divisione, come si è detto, dà luogo ad un mutamento della situazione giuridico-patrimoniale del coerede: tale mutamento, che vale a determinare la natura costitutivo-traslativa dell’atto divisorio, è logicamente precedente ed indipendente rispetto all’effetto retroattivo.

Il legislatore, infatti, proprio per assicurare continuità tra la posizione giuridica del defunto e quella dell’erede, fa retroagire gli effetti dell’acquisto al momento dell’apertura della successione. Tuttavia, questa retrodatazione ex lege è limitata ai soli “effetti” della divisione, senza però incidere sulla natura dell’atto, che è e rimane costitutiva (per approfondimenti, si rinvia, senza pretesa di esaustività, a: G. AMADIO, L’efficacia costitutiva della divisione ereditaria, in Riv. dir. civ., 2020, 13 ss.; F.M. BAVA, La divisione ereditaria quale atto inter vivos avente natura costitutiva, in Contratti, 2019, pag. 607 ss.; S. BOSA, Divisione ereditaria e nullità urbanistiche: questioni qualificatorie e processuali, in Giur. It., 2020, pag. 1078 ss.; G. ORLANDO, Divisione ereditaria e immobili abusivi. Nullità urbanistiche e divisione ereditaria: l’equivoco delle Sezioni Unite, in Giur. It., 2020, pag. 2647 ss.; C. ROMANO, Natura giuridica della divisione ereditaria: la posizione delle Sezioni Unite, in Notariato, 2019, pag. 649 ss.).

  1. Come è noto, la disciplina fiscale della divisione è rinvenibile nel combinato disposto degli art. 34, D.P.R. 131/1986, e art. 3, allegata tariffa, parte prima, D.P.R. 131/1986; ove si tratti di divisione giudiziale viene in rilievo anche l’art. 8, allegata tariffa, parte prima, D.P.R. 131/1986.

In sostanza, la divisione sconta l’imposta proporzionale nella misura dell’1% sulla massa divisionale; tuttavia, vi sono due eccezioni: l’ipotesi in cui ad un condividente sono assegnati beni per un valore complessivo eccedente quello a lui spettante sulla massa comune, è considerata vendita limitatamente alla parte eccedente; nel caso di conguaglio superiore al 5% rispetto al valore della quota di diritto (ancorché attuati mediante accollo di debiti della comunione), l’eccedenza è assoggettata all’imposta con l’aliquota stabilita per i trasferimenti.

In altre parole, in ambito tributario, è il legislatore ad attribuire alla divisione differente natura (e conseguentemente diversa imposizione) a seconda che venga rispettato o meno il valore da attribuire al singolo condividente sulla base della rispettiva quota di diritto.  

In sostanza, al negozio divisorio viene ex lege attribuita natura dichiarativa quando vi è coincidenza tra quota di fatto e quota di diritto: in tal caso l’atto di divisione sconta l’imposta dell’1%.

Invece, quando il valore della quota di fatto del singolo condividente risulta maggiore rispetto al valore della propria quota di diritto (ipotesi che si può verificare sia nel caso in cui ad un comunista vengono assegnati beni in natura per un valore superiore alla quota di diritto, sia nel caso di conguaglio superiore al 5% del valore della quota di diritto), gli effetti della divisione assumono anche la connotazione propria degli atti di tipo traslativo, con relativa imposizione. Quindi, in tali casi, all’ordinaria tassazione con aliquota dell’1%, si aggiungerà, sull’eccedenza, l’imposta proporzionale propria degli atti traslativi.

La ratio del trattamento fiscale della divisione è chiara: se un condividente ottiene, in sede di divisione, una quantità di beni (mobili o immobili) corrispondenti al valore della propria quota ideale sulla massa ereditaria, non acquisisce alcuna sostanza economica additiva, rispetto a quella che già apparteneva alla propria sfera giuridica, in virtù dell’accettazione dell’eredità, seppur mediante comunione.

In una simile ipotesi, in ambito fiscale, non vi è alcun fenomeno, da qualificarsi come “traslativo”, poiché non vi è alcun incremento di forza economica, nel rispetto del principio costituzionale della capacità contributiva. Nell’operazione divisionale, non si rinviene quindi quell’intento speculativo volto a realizzare un plusvalore da assoggettare a tassazione come atto avente natura costitutivo-traslativa.

Comprese la disciplina e la ratio della divisione in ambito tributario, sarà facile comprendere come il revirement concettuale operato dalla giurisprudenza civile, non possa intaccare la materia fiscale.

A tal proposito, non dimentichiamo che il diritto civile ha lo scopo di disciplinare le relazioni interindividuali, con l’obiettivo di risolvere i conflitti tra i singoli e attribuire certezza ai relativi rapporti giuridici. In ambito civile, proprio in tale ottica, si è ritenuto di accogliere una qualificazione “costitutiva-traslativa” della divisione, poiché, come argomentato nel precedente paragrafo, il negozio divisorio deve determinare il transito dallo stato di comunione all’insorgere della proprietà individuale in capo al singolo condividente. In sostanza, in ambito civilistico, l’atto divisorio deve assumere portata costitutiva (e non dichiarativa) poiché esso diviene il “titolo” della modificazione della sfera giuridica dei condividenti.

Tuttavia, le finalità suddette non si conciliano con gli interessi perseguiti dal legislatore fiscale.

Anche l’ordinanza in commento, conferma che la rimodulazione operata dalle Sezioni Unite con la sentenza sopraccitata in materia di natura civile della divisione, non vale ai fini dell’imposizione di registro: ove il passaggio dalla contitolarità pro-quota dei beni comuni alla titolarità esclusiva della porzione non si traduca in un incremento patrimoniale per il condividente, non può venire meno la natura dichiarativa della divisione ai fini fiscali.

La “specialità” del diritto tributario non consente una diversa opzione, poiché si deve conservare la coerenza della materia e attuare una tassazione rispettosa del principio costituzionale di capacità contributiva. Come è già stato osservato in dottrina, il legislatore fiscale è libero di qualificare autonomamente una fattispecie già disciplinata da altro settore giuridico e, per l’effetto, introdurre precetti difformi con l’obiettivo di attuare le proprie finalità, nel rispetto, appunto, dei principi costituzionali della materia (si rinvia, senza pretese di esaustività, a: F. BOSELLO, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, in Dir. Prat. Trib., 1981, I, 1434 ss.; S. CIPOLLINA, Origini e prospettive dell’autonomia scientifica del diritto tributario, in Riv. dir. fin., 2018, I, 163 ss.; M.C. FREGNI, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, pag. 6 ss.; F. MOSCHETTI, “Interesse fiscale” e “ragioni del fisco” nel prisma della capacità contributiva, in M. BEGHIN - F. MOSCHETTI - R. SCHIAVOLIN - L. TOSI - G. ZIZZO, a cura di, Studi in onore di Gaspare Falsitta, Padova, 2012, 157 ss.; F. PAPARELLA, L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici, in Riv. dir. trib., 2019, I, 587 ss.).

  1. Occorre ora affrontare, più nello specifico, la questione della qualificazione del conguaglio, al fine di verificare se esso possa inficiare la natura dichiarativa della divisione. Il tema verte, inevitabilmente, sul concetto di “conguaglio divisionale” e sulla conseguente tassazione.

Come già detto, il legislatore fiscale stabilisce che i conguagli superiori al 5% rispetto al valore della quota di diritto sono assoggettati all’imposta di registro con l’aliquota dei trasferimenti.

A parere di chi scrive, la norma è chiara: se l’importo del conguaglio versato al coerede corrisponde al valore della propria quota di diritto, si applica l’imposta dell’1%; se, invece, l’importo del conguaglio supera del 5% il valore della quota di diritto, la relativa eccedenza è assoggettato all’imposta per i trasferimenti.

Tuttavia, sul punto, si sono registrate opinioni contrastanti.

In particolare, si è sostenuto che la pattuizione di conguagli in denaro contro assegnazione dell’intero in natura sia sufficiente a qualificare il negozio divisorio in termini traslativi.

In specie, per l’Ufficio sembrerebbe che il discrimine per la tassazione con aliquota dell’1% o del 9% derivi dalla presenza o meno di conguagli (cfr. Circ. 29 maggio 2013, n. 18/E, pag. 43. Tale interpretazione è confermata anche da Risp. 31 gennaio 2022, n. 60 e da Risp. 6 aprile 2022, n. 176).

Tuttavia, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che, in caso di scioglimento della comunione mediante assegnazione del bene in natura ad un condividente e versamento agli altri di somme pari al valore delle quote, si applica l’aliquota della divisione e non quella di vendita; giacché quest’ultima, a norma dell’art. 34, D.P.R. 131/1986, si applica solo nel caso in cui ad un condividente siano stati attribuiti beni per un valore eccedente quello spettante, e limitatamente alla parte in eccedenza (in tal senso, tra le varie, Cass., 17866/2010; Id., 20119/2012; Id., 17512/2017; Id., 7606/2018; Id., 13637/2018; Id. 27409/2020; Id., 30956/2021).

Anche i giudici di merito si pongono in linea con i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, ritenendo che “Le assegnazioni che hanno luogo nella divisione di beni mobili o immobili non sono considerate traslative di proprietà dei beni assegnati se il condividente riceve una quota corrispondente ai suoi diritti…ritiene applicabile l’imposta di registro all’1% ( e non l’imposta prevista per i trasferimenti) anche alle divisioni con conguaglio, se all’esito del procedimento di divisione ai condividenti vengano assegnati beni (in natura e/o con conguagli) corrispondenti alla loro quota di diritto” (cfr. CTR Lazio, sent. 1258/2020. In tal senso, fra le varie, CTP Milano, sent., 572/2018; CTR Trentino Alto-Adige, sent., 60/2020; CTR Lazio, sent., 1729/2021).

Deve darsi atto che, in dottrina, si sono registrate perplessità al convincimento della giurisprudenza, “perché le somme che non appartengono alla massa comune non dovrebbero essere utilizzate per determinare la corrispondenza tra quote di diritto e quote di fatto, se non attraverso una previa “messa in comunione delle stesse (con, tra l’altro, conseguente imposizione). Le attribuzioni di beni e diritti che provengono dal patrimonio individuale del condividente dovrebbero quindi essere sempre considerate alla stregua di conguagli, anche dal punto di vista fiscale” (cfr. T. TASSANI, Profili fiscali della divisione, in Neotepa, 2021, pag. 150. In tal senso anche A. BULGARELLI, Imposte sui trasferimenti ed effetti “dichiarativi” della divisione: problematiche aperte, in Notariato, 2016, pag. 397 ss.).

Anche la pronuncia in commento si inserisce nel filone giurisprudenziale sopraccitato e, con un percorso argomentativo coerente, chiarisce come non rilevi la provenienza delle somme corrisposte ai coeredi a copertura delle quote di diritto: infatti, l’art. 34 non stabilisce un diverso trattamento fiscale a seconda che tali importi provengano o meno dalla massa ereditaria divisa, ma soltanto a seconda del valore della quota, con relativa coincidenza o meno tra quota di diritto e quota di fatto attribuita al singolo coerede.      

  1. A parere di chi scrive, il convincimento della Cassazione è conforme e rispettoso del dato normativo e della sua ratio, come esposti nei paragrafi precedenti.

Occorre osservare come è lo stesso legislatore civile ad attribuire ai comunisti diverse modalità per addivenire allo scioglimento della comunione.

In particolare, è l’art. 728 c.c. a sancire che l’ineguaglianza in natura nelle quote ereditarie si compensa con un equivalente in danaro. Laddove, quindi, sia impossibile pervenire alla formazione di porzioni omogenee, si deve fare ricorso, come ammesso dalla stessa legge, al conguaglio in denaro. Si osservi altresì che il conguaglio può inoltre essere attribuito indipendentemente dal consenso delle parti; si pensi, a tal proposito, alla divisione giudiziale avente ad oggetto beni non divisibili ex art. 720 c.c.

Il legislatore fiscale, consapevole delle diverse possibilità concrete per sciogliere la comunione, non ha disposto diversi trattamenti fiscali a seconda delle modalità concrete adottate dai comunisti per procedere alla divisione. Come già detto il discrimine per l’applicazione del trattamento dell’1% o del 9%, è parametrato sulla diversa natura che assume l’atto posto in essere: se è atto dichiarativo, la tassazione è all’1%; se, invece, l’atto è traslativo l’aliquota è al 9%.

A tal proposito, non deve trarre in inganno la circostanza che il legislatore abbia disciplinato la divisione con conguaglio con una disposizione ad hoc contenuta nel comma 2, art. 34: con essa, il legislatore, ribadendo la regola generale del comma 1 (assoggettamento al trattamento fiscale degli atti traslativi dell’eccedenza rispetto al valore della quota di diritto), ha inteso semplicemente precisare che il regime tributario previsto per gli atti traslativi si applica solo all’ipotesi in cui il conguaglio abbia un valore superiore al 5% rispetto al valore della quota di diritto e sulla relativa eccedenza.

Pertanto, indipendentemente dalla modalità concreta utilizzata per lo scioglimento della comunione, ove vi sia corrispondenza tra quota di fatto e quota di diritto, la divisione non perde la propria natura di atto dichiarativo e il relativo trattamento fiscale consiste nell’applicazione dell’imposta di registro all’1%.  

Supponiamo che due eredi abbiamo la contitolarità (indivisa) di una massa ereditaria del valore totale di 100. I medesimi possono procedere a divisione in natura assegnandosi a ciascuno la rispettiva quota di 50; oppure ad uno dei condividenti può venire assegnato in natura l’unico bene presente, con conseguente versamento all’altro del conguaglio pari a 50.

Ai fini fiscali, le due situazioni sono uguali e come tali devono essere assoggettate alla medesima tassazione. Infatti, in entrambi i casi, nessuno dei condividenti ha visto, per effetto della divisione, mutare quantitativamente la propria realtà patrimoniale. In sede di comunione, il singolo coerede aveva, nella propria sfera giuridica, una quota ideale di diritto del valore di 50; per effetto della divisione, indipendentemente dalla modalità di attuazione, acquisisce la relativa titolarità esclusiva del medesimo valore.

Infatti, il conguaglio, nell’ipotesi di cui sopra, non è né un corrispettivo, né un risarcimento, ma ha la sola funzione di ripristinare l’eguaglianza delle quote, nell’ambito di un’unitaria operazione di divisione. Il meccanismo del conguaglio ha quindi lo scopo di riequilibrare le sperequazioni che diversamente si avrebbero in caso di porzioni non eguali o di assegnazione di beni non divisibili a un solo condividente ovvero ad un gruppo di essi (in tal senso, anche, Cass., 30956/2020).

Il ragionamento sopra esposto trova il suo fondamento proprio nella natura dichiarativa della divisione, ai fini fiscali: il procedimento divisorio, da un punto di vista della sua realtà economica, non è strumento di scambio e neppure di circolazione di beni, bensì fenomeno volto allo scioglimento della comunione con finalità distributiva.

Con la previsione di cui all’art. 34, il legislatore sottopone a tassazione proprio quell’effetto distributivo ed innovativo che si verifica in capo al coerede, ossia il passaggio dalla contitolarità pro-quota di beni comuni alla titolarità esclusiva della porzione (per approfondimenti, si rinvia a: A. CONTRINO, Note sulla nozione di “atto di natura dichiarativa” nel tributo di registro, in Rass. Trib., 2011, pag. 662 ss.; M. CLÒ, Note in materia di divisione ed imposta di registro, in Dir. e proc. trib., 2020, p. 123 ss.; F. PISTOLESI, Art. 34 (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131). Divisioni, in G. FALSITTA - A. FANTOZZI - G. MARONGIU - F. MOSCHETTI (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, Vol. IV - Imposta sul valore aggiunto e Imposte sui trasferimenti, Padova, 2011, p. 835 ss.).

Pertanto, anche in caso di conguaglio, ove la quota ideale di diritto corrisponde alla quota di fatto attribuita, non vi è l’emersione di atti traslativi, rilevanti ed espressivi di capacità contributiva, tali da giustificare una tassazione al 9%.

La previsione di conguagli in danaro contro assegnazione dell’intero in natura non è, infatti, sufficiente (come invece ritiene l’Ufficio) a qualificare il negozio divisorio in termini traslativi (o parzialmente traslativi); mentre, a tal fine, è necessario che ad un condividente siano attribuiti beni (mobili o immobili) per un valore eccedente quello spettante (nel caso di conguaglio di valore superiore al 5%). Solo in tal caso può configurarsi l’alterazione della natura dichiarativa della divisione e una metamorfosi in senso traslativo.