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G. Giappichelli Editore

14/03/2022 - Il subentro del socio nei debiti tributari delle società di capitali

argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza

La Suprema Corte ha ritenuto che, nel sistema precedente alle modifiche apportate con il D.Lgs. n. 175 del 2014, la cancellazione della società di capitali dal registro delle imprese comporti il subentro dei soci nei debiti sociali, anche di natura tributaria, ai sensi dell’art. 2495 c.c. e che sia onere dei soci dimostrare di non aver conseguito utili in sede di liquidazione.

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PAROLE CHIAVE: società di capitali - estinzione - subentro - responsabilità


di Ernesto Marco Bagarotto

  1. L’ordinanza n. 31904 del 5 novembre 2021 affronta un tema particolarmente delicato, vale a dire quello del subentro del socio nei debiti della società di capitali estinta.

I fatti di causa sono i seguenti: una società a responsabilità limitata riceveva ed impugnava un avviso di accertamento in materia di imposte sui redditi. Nel corso del primo grado di giudizio il processo veniva interrotto a causa della cancellazione della Società dal registro delle imprese. Dopodiché, per effetto della mancata riassunzione, il processo veniva dichiarato estinto, con conseguente definitività del provvedimento impositivo. Dopo l’estinzione di detto processo, un ex socio (nonché ex liquidatore) riceveva una cartella di pagamento con la richiesta delle somme dovute dalla Società, in proporzione alle quote a suo tempo possedute. L’Amministrazione finanziaria, cioè, si azionava direttamente nei confronti dell’ex socio e non della società. L’ex socio, pertanto, impugnava la cartella di pagamento, che veniva annullata dalla C.T.P. e, di converso, dichiarata legittima da parte della C.T.R. Nel giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, l’ex socio contestava la pronuncia della C.T.R. in quanto non sarebbe stato rilevato il difetto di motivazione della cartella di pagamento e non sarebbe stata fatta applicazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973, in particolare nella parte in cui richiede la notifica di un autonomo avviso di accertamento a carico del socio e la dimostrazione della percezione di utili da parte del socio nei due anni precedenti la messa in liquidazione.

  1. La sentenza ha affrontato congiuntamente i motivi dedotti dal contribuente, respingendo il ricorso, ritenendo legittimo che, in una situazione come quella verificatasi, l’Amministrazione finanziaria iscriva a ruolo pro-quota a carico del socio il debito della società.

La sentenza – che rimarca l’intervenuta definitività dell’avviso di accertamento societario – fa leva sull’art. 2495 c.c. e sulla sussistenza di un fenomeno successorio, sia pure sui generis, del socio nella società estinta, richiamando sul punto la giurisprudenza di legittimità e, in particolare, la pronuncia Cass., Sez. Un., n. 6071 del 2013, nella parte in cui ha escluso che l'estinzione della società di capitali conduca all’automatica estinzione dei relativi debiti ed affermato che essi si trasferiscano in capo ai soci-successori. La Suprema Corte ha giustificato tale impostazione anche alla luce della volontà di scongiurare che la società debitrice possa unilateralmente (e al riparo da particolari forme di controllo del creditore) “espropriare” il diritto di credito del terzo. Di qui, dunque, la conclusione che i soci – individuati come “base” della società, società che, specularmente, costituisce “strumento” dei soci – subentrino nell’ambito di un rapporto successorio, fermi restando i limiti della responsabilità riconducibili alla specifica forma societaria. In quest’ottica, dunque, il debito oggetto di successione non è “nuovo”, ma è il medesimo debito precedentemente sorto in capo alla società, che conserva perciò «intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica» (sul tema del subentro del socio nei debiti sociali e sull’applicabilità dell’art. 2495 c.c. ai debiti tributari, anteriormente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 175 del 2014, vd. T. Tassani, La responsabilità di soci, amministratori e liquidatori per i debiti fiscali della società, in Rass. trib., 2012, pag. 359).

Il socio, in definitiva, in caso di estinzione della società assumerebbe una posizione analoga a quella di un erede (e la società estinta, dunque, quella del de cuius), con conseguente opponibilità nei suoi confronti dei titoli esecutivi e delle cose giudicate – formatisi in capo alla società ai sensi degli artt. 477 c.p.c. e 2909 c.c.

  1. Ciò posto, si deve comprendere come si inseriscano in tale ragionamento le limitazioni alla responsabilità del socio previste, anche in caso di estinzione, dal codice civile. Il terzo comma dell’art. 2495 c.c., infatti, prevede che tale responsabilità sia limitata all’ammontare delle somme riscosse in base al bilancio finale di liquidazione. Su tale aspetto la Suprema Corte – richiamando nuovamente alcuni precedenti, tra cui la recente Cass., Sez. Un., n. 619 del 2021 – nega che la partecipazione alla distribuzione dell'attivo liquidato costituisca «presupposto costitutivo della successione del socio», trattandosi, piuttosto, di un fatto modificativo, impeditivo o estintivo dell'altrui pretesa, cioè eccezione di merito, il cui onere della prova grava su colui che la solleva ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c.

Corollario di tale affermazione è che l’Amministrazione finanziaria, in sede di riscossione pro-quota in capo al socio, sarà tenuta a dimostrare solamente la fonte dell’obbligazione (nel caso di specie, il provvedimento definitivo in capo alla società) e che, invece, sarà il socio a dover opporre l’eccezione della (eventuale) mancata partecipazione alla distribuzione di somme da parte della società.

E, nella ricostruzione della sentenza annotata, la “sede naturale” in cui far valere tale eccezione da parte del socio è il processo tributario, la cui attivazione non può che avvenire mediante l’impugnazione del provvedimento esattivo da parte dello stesso, con la conseguenza che in caso di mancata impugnazione il credito vantato pro-quota dall’Erario nei confronti del socio diverrà definitivo.

Si tratta di un passaggio particolarmente delicato, anche perché la Suprema Corte rimarca come potrebbe non essere sufficiente analizzare il bilancio di liquidazione per appurare la carenza di responsabilità del socio, potendo il bilancio di liquidazione non essere veritiero o, comunque, non dare atto dell’avvenuto trasferimento di beni o diritti a favore del socio. Potrebbe perciò essere necessario ricostruire documentalmente ed in modo dettagliato i fatti gestionali intervenuti nel periodo temporale anteriore alla cancellazione della società (attraverso il libro giornale ed i partitari, la contabilità di magazzino eventualmente tenuta, gli estratti conto bancari, ecc.), al fine ultimo di dimostrare l’effettiva destinazione della totalità dei vari elementi patrimoniali e, in particolare, l’assenza di pagamenti, in denaro o in natura, a favore dei soci.

  1. Giunti a questo punto, ci si deve interrogare sulle ragioni per cui, nel caso di specie, non dovrebbe trovare applicazione la particolare procedura stabilita dall’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973.

La sentenza commentata rimarca che la responsabilità prevista dal citato art. 36 sarebbe cosa diversa rispetto a quella prevista dall’art. 2495 c.c., quantomeno nel sistema antecedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 175 del 2014: nel testo della sentenza, infatti, si legge che le responsabilità disciplinate dalle due citate disposizioni devono essere tenute distinte «almeno nel sistema antecedente al d.lgs. n. 175/2014» (sulle differenze tra le previsioni dettate da tali due norme vd. anche G. Girelli, La sorte dei crediti tributari dopo la cancellazione della società: molto rumore per nulla, in Riv. dir. trib., 2017, I, part. p. 65).

In un caso come quello di specie, pertanto, non sarebbe necessario seguire il procedimento di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973, che sarebbe riservato alla diversa ipotesi di responsabilità del liquidatore (responsabilità che, si badi, la Suprema Corte precisa avere, diversamente da quella dei soci, natura risarcitoria) ed all’estensione di questa ai soci in via sussidiaria.

Tale lettura, dunque, assegna una funzione sussidiaria all’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973, che lascia ferma la regola generale della successione del socio nei debiti della società. L’art. 36, cioè, disciplinerebbe solamente la responsabilità del socio per quel che riguarda i debiti dei liquidatori, come sarebbe confermato dal riferimento, da parte di detta disposizione, alle imposte dovute «dai soggetti di cui al primo comma», cioè dai liquidatori.

  1. La sentenza commentata, pur essendo motivata in modo piuttosto lineare, lascia alcuni interrogativi in sospeso e fa emergere dei dubbi a proposito della coerenza ed adeguatezza del sistema che risulterebbe dalla sua ricostruzione, soprattutto per effetto della valorizzazione del fenomeno successorio ex art. 2495 c.c., della svalutazione del ruolo dell’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973 e, soprattutto, dell’imposizione a carico del socio dell’onere di dimostrare la mancata percezione di somme in sede di liquidazione.

Quanto detto vale a maggior ragione alla luce delle modifiche apportate con il D.Lgs. n. 175 del 2014 (dubbi la cui legittimità viene alimentata dalla presenza di pronunce di segno contrario a quella commentata, tra cui Cass. n. 7327 del 2012 e, recentemente, Cass. n. 26910 del 2021).

Ci si riferisce, in particolare, all’avvenuta introduzione di un regime di “sopravvivenza fiscale” quinquennale della società estinta (art. 28, comma 4, del D.Lgs. n. 175 del 2014) ed alla revisione del testo dell’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973 (art. 28, comma 5), che peraltro è stato reso applicabile alla generalità delle imposte (art. 28, comma 7). Il citato art. 36 è stato infatti modificato e prevede ora una sorta di “presunzione di colpevolezza” del liquidatore (il quale, per sottrarsi al regime di responsabilità stabilito dal citato art. 36, deve dimostrare di aver «soddisfatto i crediti tributari anteriormente all'assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari») e dei soci (per i quali il «valore del denaro e dei beni sociali ricevuti in assegnazione si presume proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio od associato, salva la prova contraria»).

Ed invero, l’idea che il socio della società sia, in sostanza, assimilabile ad un erede e la configurazione di un onere a suo carico di dimostrare di non aver ricevuto somme in sede di liquidazione può condurre, in particolare nell’ambito delle realtà di maggiori dimensioni, ad aggravare in modo irragionevole la posizione del socio stesso. Tanto più se si considera che nel quinquennio successivo alla cancellazione troverà applicazione la particolare norma che prevede la “sopravvivenza” della società [su tale previsione e sul rapporto con il novellato art. 36 vd. V. FICARI, La disciplina delle società estinte: il profilo dei termini di accertamento (art. 28, commi 4 e 6), in S. MULEO (a cura di), Commento al decreto sulle semplificazioni (D.Lgs. n. 175 del 2014), Torino, 2015, pp. 130; G. Fransoni, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità, in Rass. trib., 2015, p. 47; G. Porcaro, la cancellazione della società dopo il c.d. decreto “semplificazioni”: profili tributari, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2015, p. 1050].

La specificità dell’Amministrazione finanziaria quale creditore (soprattutto alla luce delle ampie informazioni di cui dispone e degli incisivi poteri istruttori conferiteli dalla legge) e la natura autoritativa dei provvedimenti da questa emessi potrebbero rendere maggiormente ragionevole un sistema in cui trovare una soluzione più equilibrata in un’ottica di tutela del contribuente.

Da questo punto di vista, il sistema previsto dall’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973 – anche nella versione successiva alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 175 del 2014 – è comunque più bilanciato rispetto alla soluzione individuata nella sentenza commentata, poiché, quantomeno, prevede l’emissione di un atto motivato a carico del socio, che accerti la sua responsabilità, con la possibilità valorizzare la presunzione relativa secondo cui il valore di quanto ricevuto in assegnazione sia «proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio od associato» (sulla poco attenta formulazione lettera della norma vd. A. Carinci, L’estinzione delle società e la responsabilità tributaria di liquidatori, amministratori e soci, in Fisco, 2015, p. 2843).

Sistema la cui applicabilità in deroga all’art. 2495 c.c. – come applicato dalla sentenza commentata – potrebbe essere sostenuta senza eccessive forzature, a maggior ragione a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 175 del 2014 che, tra le altre cose, ha reso il citato art. 36 applicabile alla totalità delle imposte.

È perciò auspicabile che, successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 175/2014, il subentro del socio nei debiti tributari delle società estinte, pur affondando in termini generali le proprie radici nell’art. 2495 c.c., sia disciplinato, quantomeno dal puto di vista procedimentale, dall’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973, con conseguente necessità di emettere un atto motivato a carico del socio, specificamente motivato con riferimento alle ragioni che hanno condotto a contestare la sua responsabilità.