Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

14/07/2021 - Profili fiscali del trasferimento della residenza all’estero del calciatore professionista: la compatibilità tra presunzioni tributarie e procedimento cautelare penale.

argomento: IRPEF - Giurisprudenza

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte conferma l’orientamento giurisprudenziale che riconosce la compatibilità delle presunzioni tributarie in sede di procedimento cautelare penale. A tal fine occorre dimostrare il fumus boni iuris del reato contestato, attraverso l’esame di vari elementi fattuali che consenta di ritenere verosimile, in concreto, la violazione della fattispecie penale (come, per esempio, il versamento di contributi per collaboratori domestici, l’esistenza di rapporti finanziari correnti, titoli di proprietà di autoveicoli e motoveicoli, titolarità di immobili ed utenze in Italia, rilevanti spese sostenute, stipula di contratti immobiliari, la frequenza degli istituti scolastici da parte dei figli). Inoltre, la Cassazione statuisce che, nonostante la Convenzione contro le doppie imposizioni possa essere applicata solo in presenza di un «potenziale assoggettamento alla fiscalità dello Stato», nell’ambito di un procedimento cautelare ciò che rileva, in concreto, è la sussistenza del fumus boni iuris del reato contestato. Il fumus del reato deve essere valutato anche con riferimento agli effettivi esborsi fiscali del contribuente nello Stato contraente e, pertanto, nel caso di specie, la Convenzione, ancorché sia astrattamente applicabile, non può trovare materialmente attuazione.

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PAROLE CHIAVE: residenza fiscale - calciatori - presunzioni


di Davide Stefani

  1. La sentenza in commento offre l’opportunità di esaminare una tematica sempre di rilevante interesse, ossia la questione concernente il trasferimento della residenza fiscale delle persone fisiche, nella specie, in un Paese a fiscalità privilegiata e il delicato rapporto sussistente tra le presunzioni tributarie con le esigenze probatorie che caratterizzano il procedimento penale.

Nel caso in oggetto, in particolare, un noto ex calciatore professionista veniva reso destinatario della misura cautelare reale del sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p., per essersi sottratto – secondo l’impostazione accusatoria – al pagamento delle imposte dirette in violazione dell’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000.

Il Tribunale del riesame, con l’ordinanza successivamente confermata dalla Corte di Cassazione, confermava la misura cautelare applicata nei confronti dell’atleta, verificando – conformemente alla natura del procedimento – la sussistenza in concreto del fumus boni iuris del reato contestato, secondo un tessuto argomentativo fondato su una compiuta analisi delle circostanze di fatto della fattispecie.

Secondo la Suprema Corte, nel dettaglio, la disciplina di cui all’art. 2 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 era stata correttamente applicata dal Giudice di prime cure. Infatti, l’ex calciatore professionista, negli anni interessati dall’accertamento fiscale, aveva mantenuto in Italia non solo le relazioni familiari e gli interessi economici, ma non aveva nemmeno superato la presunzione a suo carico ex art. 2 comma 2 bis T.U.I.R., senza dimostrare, da una parte, la «perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano» e, dall’altra, la «parallela controprova di una reale e duratura localizzazione del Paese fiscalmente privilegiato». Né potrebbe trovare applicazione la Convenzione contro le doppie imposizioni vigente tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti, poiché «presupposto indispensabile per l’applicazione della convenzione [è] il pagamento delle imposte negli Emirati Arabi Uniti», che nella fattispecie non è stato non solo dimostrato ma nemmeno prospettato dal ricorrente.

Occorre fin da subito precisare che desta perplessità, come si avrà modo di esporre infra, l’avallo della Cassazione circa l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente ai sensi dell’art. 2 comma 2 bis T.U.I.R. operata dal Giudice di prime cure, pur in assenza del presupposto applicativo di tale disciplina, ossia la cittadinanza italiana.

Il presente lavoro, pertanto, si focalizzerà sulla disciplina della residenza fiscale e sulle connesse problematiche giuridiche in caso di trasferimento della persona fisica in Paesi a tassazione privilegiata, analizzando il delicato rapporto tra presunzioni tributarie e procedimento penale e i presupposti applicativi delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.

 

  1. In via preliminare, trattandosi la fattispecie in esame di una (presunta) ipotesi di trasferimento (fittizio) della residenza fiscale, pare opportuno esaminare la nozione di residenza fiscale, così come individuata dall’art. 2 del Testo Unico delle Imposte sul Reddito.

Com’è noto, la nozione di residenza fiscalmente rilevante, mutuata dalla disciplina codicistica di cui all’art. 43 c.c., viene determinata sulla base di tre criteri alternativi, non concorrenti (l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, il domicilio e la residenza nel territorio dello Stato) ed uno di natura temporale (la permanenza del contribuente nel territorio dello Stato in un arco temporale di 183 giorni nell’anno solare, mentre 184 giorni nel caso di anno bisestile).

In dottrina si è sostenuto che tra residenza “civile” e “fiscale” vi sia una parziale sovrapponibilità concettuale: sebbene tali concetti siano formalmente identici, nella sostanza essi assumono un diverso significato unitario e più complesso.

Se in ambito civilistico, infatti, «l’abitualità» e la «sede principale degli affari ed interessi vitali» costituiscono due criteri, separati, idonei a determinare la residenza o il domicilio della persona fisica, nell’ordinamento tributario questi invece assumono un significato, unitario, idoneo ad individuare il luogo in cui il contribuente deve essere sottoposto al prelievo fiscale (in argomento, cfr. MARINO, La geometria variabile della residenza fiscale alla luce della più recente giurisprudenza italiana e europea, in Dir. prat. trib., 2016, p. 265, il quale rileva che le problematiche in tema di accertamento della residenza fiscale in sede di contenzioso tributario nascono dall’interpretazione dell’art. 2 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi e, in modo particolare, dall’astratto rapporto gerarchico esistente, dal punto di vista tributario, tra interessi personali ed economici richiamati dall’art. 43 del Codice Civile).

Non potendo qui indagare il rapporto di gerarchia esistente tra gli interessi personali ed economici sopra menzionati, si rinvia opportunamente alla giurisprudenza ed alla dottrina che ha trattato più specificamente il tema (cfr., in giurisprudenza, con riferimento alla prevalenza degli interessi personali e familiari, ex pluribus Cass., sez. V, 12 giugno 2010, n. 1443; per la prevalenza degli interessi economici, ex multis, Cass., sez. V, 20 dicembre 2018, n. 32992; Cass., sez. V, 15 giugno 2016, n. 12311; in dottrina, PROCOPIO, L’infinita querelle relativa all’accertamento della residenza fiscale, in Dir. prat. trib., 2019, p. 2485; MARIANETTI, FALCONE, La rilevanza degli interessi familiari nella determinazione della residenza fiscale, in GT-Riv. giur. trib., 2011, p. 115; in senso critico, circa la rilevanza di un concetto di residenza “dematerializzato”, slegato dalla presenza fisica del contribuente nello Stato in cui avviene il prelievo fiscale, si veda FREGNI, La residenza fiscale delle persone fisiche, in Giur. it., 2009, p. 11, la quale ritiene preferibile utilizzare, in luogo dei predetti criteri, il diverso concetto di «significativo collegamento»; per approfondire, si veda altresì la giurisprudenza europea in tema di «residenza normale», intesa come il luogo in cui sono presenti i legami personali del contribuente, purché tale persona vi ritorni regolarmente», Corte di Giustizia, 12 luglio 2001, C-262/99, Louloudakis c. Dimosio; in dottrina, si veda MARINO, Una nuova frontiera giurisprudenziale: la residenza fiscale obbligata, in Rass. trib., 2010, p. 1368).

L’accertamento della residenza fiscale, basata sull’analisi sia di elementi formali (l’iscrizione all’Anagrafe e la residenza) che di elementi non formali (domicilio), comporta alcune problematiche in sede di procedimento penale. L’esigenza di un giudizio di responsabilità dell’imputato che sia incontrovertibile ex art. 533 c.p.p. postula, infatti, che l’interprete si interroghi sulla compatibilità o meno delle presunzioni tributarie all’interno del giudizio penale. La responsabilità dell’imputato, quindi, deve essere dimostrata «oltre ogni ragionevole dubbio» e tale accertamento non può tollerare alcuna sovversione del principio della presunzione di innocenza dell’imputato ex art. 27 Cost.

Si pensi, in particolare, alla problematica circa la natura di presunzione dell’iscrizione all’Anagrafe della popolazione residente, la quale – salvo alcuni precedenti difformi – è stata interpretata dalla giurisprudenza e dalla dottrina come presunzione assoluta di residenza all’interno del territorio dello Stato (in argomento, cfr. SERAFINI, Considerazioni critiche sul criterio formale di individuazione della residenza fiscale ex art 2 del TUIR, in Riv. trim. dir. trib., 2019, 732; PROCOPIO, L’infinita querelle relativa all’accertamento della residenza fiscale, cit., p. 2485; FAZIO, La residenza delle persone fisiche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ai fini delle imposte sui redditi, in Dir. e Prat. Trib., 2017, p. 1322; per la giurisprudenza, minoritaria, che ravvisa implicitamente una presunzione relativa, cfr. Cass., sez. V, 20 dicembre 2018, n. 32992; CTR, Puglia, Bari, sez. VII, 16 gennaio 2017, n. 64); ma si pensi anche alla presunzione relativa di cui all’art. 2 comma 2 bis TUIR che, nell’ipotesi di trasferimento del cittadino italiano in un “paradiso fiscale” pone in capo al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva perdita di ogni collegamento con lo Stato italiano, dovendo allegare a fondamento della propria tesi elementi positivi idonei, senza potersi limitare a contestare la ricostruzione dei fatti contestata dall’Amministrazione Finanziaria (MELIS, Riflessioni intorno alla presunzione di residenza fiscale di cui all'art. 10 L. 23 dicembre 1998, n. 448, in Rass. trib., 1999, 1077; circa la natura della presunzione de qua, si veda COMELLI, Profili sistematici della residenza fiscale degli atleti professionisti ai fini dell’Irpef, in Sport e Fisco, UCKMAR (a cura di), 2016, p. 336).

 

  1. Fatta questa breve ma necessaria premessa, con la pronuncia in esame la Suprema Corte conferma la legittimità dell’applicazione delle presunzioni tributarie nel procedimento cautelare, avallando il ragionamento logico-giuridico effettuato dal Tribunale, avendo lo stesso esposto «un complesso ed articolato percorso motivazionale, frutto di una diffusa verifica del materiale istruttorio in atti, ed all’esito ha concluso per il fumus del delitto contestato».

È noto che nel procedimento penale l’accertamento della responsabilità è governato dall’art. 533 c.p.p.; il giudice, infatti, pronuncia sentenza di condanna soltanto se l’imputato sia colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. Viene così ripudiato un accertamento della responsabilità penale fondato su automatismi e meccanismi presuntivi iuris et de iure e iuris tantum, purché questi ultimi non siano gravi, precisi e concordanti.

Nell’ambito della fase genetica del procedimento penale, invece, sarebbe possibile applicare una misura cautelare, nella specie reale, sulla base di mere presunzioni, che tuttavia configurino un compendio indiziario connotato da gravità ai sensi dell’art. 273 c.p.p.

La giurisprudenza che si è pronunciata sul punto, infatti, se – da una parte – ritiene che le presunzioni legali operanti in sede tributaria non possono operare in sede penale, essendo differente la natura del procedimento tributario rispetto a quello prettamente penale – dall’altra parte – non ne sarebbe precluso l’utilizzo nella fase cautelare (cfr. in dottrina, MASTELLONE, L’utilizzo delle presunzioni tributarie nel processo penale, in Riv. trim. dir. trib., 2015, p. 451; COMELLI, La circolazione del materiale probatorio dal procedimento e dal processo penale al processo tributario e l’autonomia decisoria del giudice, in Dir. prat. trib., 2019, p. 2032; BONTEMPELLI, Presunzioni legali tributarie e indizi di reato, nella disciplina del sequestro preventivo, in Giur. it., 2014, p. 1232; SANTORIELLO, Il problematico rapporto tra presunzioni e reati tributari, in Il Fisco, 2013, p. 3528; CAMPANELLA, La norma di contrasto al trasferimento della residenza fiscale delle persone fisiche e la sua valenza nel processo penale tra giudizio cautelare e di merito, in Riv. dir. trib., supplemento rivista telematica, 20 gennaio 2021; in giurisprudenza, Cass., sez. VI, 11 febbraio 2010, n. 5452; Cass., sez. III, 10 maggio 2018, n. 26274; Cass., sez. III, 14 settembre 2016, n. 38142; Cass., sez. III, 2 ottobre 2014, n. 2006).

In tal contesto, pertanto, le presunzioni tributarie assumerebbero un mero valore indiziario, idoneo ad accertare esclusivamente l’esistenza dell’an del reato contestato nella fase genetica del procedimento penale (in senso critico, si veda MASTELLONE, L’utilizzo delle presunzioni tributarie nel processo penale, cit., p. 451, il quale ritiene che lo strumento della presunzione «non permette in alcun modo al giudice penale di avere una ricostruzione univoca ed effettiva delle imposte non pagate tali da ipotizzare il superamento delle soglie di rilevanza penale e di disporre il sequestro»; in effetti, il timore manifestato nei confronti di tale orientamento potrebbe essere tanto giustificato in quanto si tenga in considerazione l’orientamento giurisprudenziale, di recente emersione, in tema di applicazione della misura del sequestro preventivo ed espropriabilità dell’unico immobile di proprietà del contribuente, poiché l’art. 76, comma 1, lett. a), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, secondo la Cassazione, riferendosi all’unico immobile di proprietà del debitore, e non alla “prima casa”, non costituirebbe un limite all’adozione del sequestro preventivo e della confisca penale, cfr. Cass., sez. III, 07 novembre 2019, n. 8995).

Nella fattispecie in esame, negli anni relativi all’accertamento fiscale, l’atleta aveva mantenuto in Italia il centro dei propri interessi personali, «come evidenziato – tra l’altro – dal fatto che la famiglia (moglie e figli) non avesse mai trasferito la residenza da Lecce» (vedi retro, par. 2 in tema di prevalenza tra criteri di accertamento della residenza fiscale); né parrebbero essere stati forniti, a contrario, elementi in grado di dimostrare che il calciatore avesse trasferito effettivamente la residenza fiscale in un “paradiso fiscale”.

A sostegno di tale ragionamento è stata valorizzata la presenza di alcuni elementi, quali il versamento di contributi per collaboratori domestici, rapporti finanziari correnti, proprietà di autoveicoli e motoveicoli, titolarità di immobili ed utenze in Italia, rilevanti spese sostenute, stipula di contratti immobiliari, la frequenza degli istituti scolastici da parte dei figli, senza che potesse rilevare la prassi della cd. firma preventiva, diffusa nel settore sportivo, e i periodi di formale residenza all’estero dei familiari del contribuente.

L’ampio compendio probatorio, pertanto, avrebbe consentito al Tribunale del riesame di «confermare l’ipotesi accusatoria di cui al D.lgs. n. 74 del 2000, art. 4 nei termini dell’omessa dichiarazione dei redditi percepiti negli Emirati Arabi Uniti», avendo l’atleta «mantenuto effettivo e sostanziale domicilio in Italia per almeno 183 giorni in ciascuno degli anni coinvolti».

Ciò che lascia perplessi, invece, è la parte in cui la Suprema Corte afferma che l’ex atleta professionista non avrebbe dato la prova contraria di cui all’art. 2 comma 2 bis T.U.I.R., non avendo dimostrato «la perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano e la parallela controprova di una reale e duratura localizzazione nel Paese fiscalmente privilegiato».

L’atleta, in effetti, non ha la cittadinanza italiana e, conseguentemente, nei suoi confronti non dovrebbe trovare applicazione la suddetta disciplina dell’inversione dell’onere probatorio, con rilevanti effetti “a cascata” sull’accertamento della responsabilità penale nella successiva fase dibattimentale (in dottrina, cfr. MELIS, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2009, p. 62; FREGNI, La residenza fiscale delle persone fisiche, cit., p. 16; cfr. anche PIANTAVIGNA, La funzione della nozione di “residenza fiscale” nell’Irpef, cit., p. 305; tale disciplina introdurrebbe, infatti, una sorta di “discriminazione a rovescio”, fondata sulla nazionalità del contribuente, dando così vita ad un doppio binario di accertamento, distinguendo tra chi è cittadino italiano ma non residente e chi non ha la cittadinanza ma è residente nel territorio dello Stato. Solo in quest’ultima ipotesi tale presunzione di residenza in Italia non sarebbe applicabile).

 

  1. La sentenza in commento prende in esame anche i profili concernenti i presupposti applicativi della Convenzione contro le doppie imposizioni vigente tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti.

In particolare, il ricorrente eccepisce la violazione dell’art. 4 del Modello OCSE e dell’art. 169 T.U.I.R., poiché – secondo tale ricostruzione difensiva – l’effettivo trasferimento della residenza negli Emirati Arabi Uniti era provata dal fatto che l’atleta soggiornava stabilmente fuori dall’Italia e partecipava alle competizioni, agli allenamenti, ai ritiri della squadra. Alla luce di tale compendio probatorio, dunque, l’atleta avrebbe subito da parte di entrambi gli Stati Contraenti una doppia imposizione sui redditi prodotti dall’attività sportiva.

Se, da una parte, la residenza costituisce una condizione essenziale per l’applicazione della Convenzione, dovendo infatti il contribuente risiedere in almeno uno degli Stati contraenti, dall’altra parte, è altresì necessario che il contribuente assolva agli obblighi fiscali-tributari di uno dei Paesi contraenti.

Come affermato dalla sentenza in esame, infatti, il ricorrente «non evidenzia (e neanche prospetta) il pagamento delle imposte negli Emirati Arabi Uniti; presupposto, questo, indispensabile per l’applicazione della Convenzione che mira ad evitare – appunto – le doppie imposizioni».

La Cassazione dunque afferma che, nel caso di specie, non può ritenersi applicabile la Convenzione de qua, ancorché il fine sia eliminare le sovrapposizioni fiscali tra regimi contributivi, poiché nell’ambito di un procedimento cautelare ciò che assurge a fondamento è la sussistenza del fumus boni iuris del reato contestato, da valutarsi anche in riferimento agli effettivi esborsi fiscali del contribuente, a prescindere dal «potenziale assoggettamento alla fiscalità dello Stato in convenzione» (cfr. Cass., sez. V, 17 aprile 2019, n. 10706; CGUE, causa C-540/07, 19 novembre 2009, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica italiana; nel medesimo senso la Convenzione OCSE, ove si afferma, al par. 8.11, «in many States, a person is considered liable to comprehensive taxation even if the Contracting State does not in fact impose tax»).

  1. La mobilità internazionale degli atleti sportivi, ma anche dei personaggi e artisti dello spettacolo in generale, comporta evidenti problematiche in tema di individuazione del luogo di tassazione dei redditi.

L’utilizzo delle presunzioni tributarie, come affermato dalla Suprema Corte, è compatibile nell’ambito del procedimento cautelare penale ed involge anche il complesso tema dell’accertamento dell’effettiva residenza fiscale del contribuente, stante la necessità di dimostrare, sulla base di elementi che talvolta non trovano un riscontro puramente formale, che il contribuente abbia mantenuto nel territorio dello Stato gli interessi personali ed economici. 

L’accertamento della residenza fiscale e dei (presunti) trasferimenti (fittizi) della stessa potrebbe verosimilmente intensificarsi a seguito dei più recenti, e fiscalmente vantaggiosi, interventi normativi in ambito di regime speciale dei lavoratori “rimpatriati” di cui al d.lgs. n. 147 del 2015, che con il D.L. n. 34/2019, cd. “Decreto Crescita”, è stato esteso anche in favore degli sportivi professionisti di cui alla Legge 23 marzo 1981, n. 91, determinando un abbattimento d’imposta al 50 per cento dei redditi prodotti in Italia (cfr. MASSAROTTO, ALTOMARE, Il calcio professionistico e il regime speciale degli rimpatriati: punti fermi e questioni problematiche, in Riv. dir. trib., supplemento online, 12 ottobre 2019).

Risulta dunque evidente come, oltre alle problematiche concernenti i presupposti oggettivi e soggettivi di tale normativa, che inciderebbero sul quantum dell’imposta evasa, in futuro potrebbero sorgere controversie tese a dimostrare l’an dell’illegittimità del “rimpatrio”, sulla base di un precedente (fittizio) trasferimento della residenza, dal momento che una delle condizioni per usufruire del regime agevolato consiste nell’aver avuto la residenza in Italia nei due periodi di imposta precedenti il trasferimento.

Il presente commento si riferisce alla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III, 21 ottobre 2020, n. 29095