Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

25/05/2021 - Le vincite corrisposte dalle case da gioco al di fuori dell’Unione Europea

argomento: IRPEF - Giurisprudenza

Le vincite corrisposte dalle case da gioco autorizzate all’interno del territorio italiano, negli altri Stati membri dell’Unione Europea o in uno Stato aderente all’Accordo sullo Spazio Economico Europeo (SEE) non concorrono a formare il reddito e non sono soggette ad alcun prelievo alla fonte. La Corte Suprema rileva tuttavia che, qualora  le vincite siano conseguite in Stati al di fuori dell’Unione Europea e non rientranti nell’accordo SEE,  le stesse costituiranno reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza l’ammissibilità di alcuna deduzione.  Il contribuente  nel caso in questione, era stato condannato per il delitto di cui all’art. 4 del dlgs. n. 74/2000, rubricato “Dichiarazione infedele”, per aver indicato nella dichiarazione dei redditi elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, costituito dalla somma relativa alle vincite conseguite presso il Casinò di Montecarlo.

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PAROLE CHIAVE: vincite - redditi diversi - dichiarazione infedele


di Francesco Paolo Schiavone

  1. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 24598/2020, è intervenuta sulla tematica inerente le vincite corrisposte dai Casinò al di fuori dell’Unione Europea.

I giudici di legittimità nel caso in esame hanno condannato il contribuente italiano G.R. per il delitto di cui all’art. 4 del dlgs. n. 74/2000, rubricato “Dichiarazione infedele”, per non aver indicato nella dichiarazione dei redditi dell’anno 2010 una somma di 1,3 milioni di euro, relativa alle vincite conseguite nello Stato Monegasco.

E’ stato chiarito nella pronuncia che, in base alla normativa tributaria italiana, “le vincite corrisposte da case da gioco autorizzate nello Stato o negli altri Stati membri dell’Unione europea o in uno Stato aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo non concorrono a formare il reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo di imposta”.

Secondo l’iter argomentativo della Corte, allo stato dei fatti e nel periodo di imposta oggetto di controversia, le vincite corrisposte dalle case da gioco in questione non sono soggette altresì ad alcun prelievo alla fonte, in virtù del combinato disposto degli articoli 67-69 TUIR e art. 30 del dpr n. 600/1973.

Si osserva però che il Principato di Monaco, ove il giocatore G.R. ha ottenuto la sua vincita, non rientra tra gli Stati dell’Unione Europea e non ha aderito all’Accordo sullo Spazio economico europeo; più precisamente viene annoverato fra i Paesi con regime di fiscalità privilegiata, come indicato nel D.M. 4/05/1999.

Per tali ragioni nei casi in cui le vincite siano conseguite in Stati al di fuori dell’Unione Europea e non rientranti nell’accordo SEE, come nel caso dello Stato Monegasco, le stesse costituiranno reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza l’ammissibilità di alcuna deduzione.

Quello che viene messo in risalto dalla Corte nel casi in esame non è il principio di non discriminazione dei cittadini dell’Unione, bensì il principio di libertà di stabilimento (artt. 49-55 TFUE), che consente ad ogni Stato membro dell’Unione Europea di sottoporre a forme di tassazione diversa i medesimi redditi in base al luogo di produzione, a patto che ciò non comporti alcun pregiudizio di tale libertà per i cittadini e le imprese Comunitarie.

Attraverso un lungo iter argomentativo giurisprudenziale, rifacendosi a numerose pronunce della CGUE, la Corte di Cassazione ha ritenuto che non sussista la violazione del principio di libertà di stabilimento, in considerazione del fatto che il Principato di Monaco, non facendo parte del sistema comunitario, non sarà ammesso a tale “beneficio unionale.”

Pertanto la scelta di mantenere un regime di tassazione piena, risulta giustificata sia da ragioni fiscali sia dalla necessità di prevenire forme incontrollabili di riciclaggio ed autoriciclaggio, nonché eventuali fughe di capitali all’estero o introduzione di capitali in Italia di incerta provenienza.

 

  1. La vicenda de qua trae origine dalla condanna del Tribunale di Macerata alla pena condizionalmente sospesa di un anno di reclusione nei confronti del contribuente G.R., ritenuto responsabile del reato di dichiarazione infedele ai sensi dell’art. 4 del dlgs. n. 74/2000. Quest’ultimo infatti aveva indicato nella dichiarazione dei redditi dell’anno di imposta 2010 elementi attivi per un totale inferiore a quello effettivo, per la precisione un ammontare di 1.339.955 euro, a seguito di una vincita conseguita presso il Casinò di Montecarlo e superiore al 10% di quelli indicati in dichiarazione. Con la sentenza del 22 ottobre 2019 la Corte di Appello di Ancona aveva integralmente confermato la pronuncia resa all'esito del primo grado di giudizio ed avverso tale provvedimento l'imputato aveva proposto ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, sostenendo le sue ragioni attraverso ben quattro motivi.

 

2.1 In ordine al primo motivo si lamentava la violazione di legge ex art. 13 del dlgs. n. 74/2000, ossia il mancato riconoscimento della causa di non punibilità in virtù dell'integrale pagamento del debito tributario, operato dall'imputato nel rispetto del piano di rateizzazione e confermato dall'Agenzia delle Entrate in data 28 giugno 2015.

Sul punto i Giudici di legittimità hanno ritenuto tale doglianza infondata, alla luce di una lettura orientata del secondo e terzo comma del suddetto art. 13, in virtù del fatto che: “2. I reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.

  1. Qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 13-bis, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo. In tal caso la prescrizione è sospesa. Il Giudice ha facoltà di prorogare tale termine una sola volta per non oltre tre mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando la sospensione della prescrizione.”

Infatti l’istituto del ravvedimento operoso, disciplinato all’art. 13 del dlgs. n. 472/1997 [ex multis Cordeiro Guerra R., La riforma del ravvedimento operoso: dal controllo repressivo alla promozione della compliance? in Corriere Tributario n. 5/2015, pp. 325-332; Deotto D., Riduzioni delle penalità del ravvedimento operoso in Corriere Tributario n. 1/2009, pp. 19-22], al quale la norma subordina l'applicazione della causa di non punibilità per il delitto in esame, deve intervenire prima che l'autore del reato abbia formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di una qualunque attività di accertamento tributario o di procedimenti penali.

Pertanto è possibile asserire che non rientrino nell'ambito applicativo della norma i pagamenti effettuati a seguito di conciliazioni o adesioni fiscali che presuppongano l'accertamento della pretesa tributaria; in tali ipotesi tutt’al più è rilevabile l’applicazione dell’attenuante ex art. 13-bis, comma 1, del medesimo decreto legislativo, con una riduzione di pena fino alla metà.

In tal sede non è in discussione che l’integrale pagamento del debito tributario, delle sanzioni e degli interessi fosse avvenuto, come evidenziato a più riprese all’interno della sentenza del Tribunale di Macerata ma temporalmente esso si era concluso nel 2015, mentre il processo aveva già avuto inizio il 28 novembre 2014. In tale data di udienza dibattimentale il difensore del ricorrente aveva prodotto l'istanza di accertamento con adesione relativa altresì all'anno 2010 ed il provvedimento di adesione dell'Agenzia delle Entrate; eppure solo all'udienza del 20 novembre 2015 risultava prodotto il piano di ammortamento per il versamento rateale delle somme, oggetto di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria. Rispetto a tale motivo di ricorso dunque, secondo la ricostruzione della Suprema Corte, risulta ammissibile la sola valorizzazione dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto il pagamento del debito tributario non era avvenuto in fase antecedente all’apertura del dibattimento e per tale ragione non era possibile fruire della causa di non punibilità citata all’interno del ricorso proposto dal contribuente.

 

  1. Entrando nel vivo della tematica, da un punto di vista strettamente fiscale, va posto l’accento sul secondo e terzo motivo di doglianza del contribuente G.R. In primo luogo si fa riferimento alla denunciata violazione di legge ex art. 67 T.U.I.R, ove la difesa del contribuente sosteneva l’erronea scelta della Corte di Appello di Ancona nel qualificare il Principato di Monaco come Stato a fiscalità privilegiata. [sul tema dei cd. Tax havens si rinvia a Pezzuto G., Paradisi fiscali e finanziari, Milano, 2001; Amato, V. e Palmentieri, S., Paradisi fiscali e dinamiche del capitale: nuove geografie della prossimità, 2013; Zucman G., La ricchezza nascosta delle nazioni. Indagini sui paradisi fiscali, Torino, 2017] Infatti, a parere del contribuente, il giudice di seconda istanza non aveva considerato che la stessa Agenzia delle Entrate italiana avesse riconosciuto un abbattimento delle somme rientrate nel territorio dello Stato nella misura del 33%, a titolo di provvista utilizzata dal giocatore, ossia un costo sostenuto al momento dell’acquisto delle fiches necessarie per giocare. Tale somma secondo il tenore letterale attribuito dal contribuente all'art. 67 T.U.I.R. non avrebbe potuto essere in alcun modo dedotta, prescindendo dunque dal fatto che le entrate fossero inferiori alle uscite. Secondariamente, in ordine al terzo motivo di ricorso, si deduceva la violazione di legge riferita all'art. 3 del d.P.R. 640/1972 ed il vizio motivazionale della sentenza di secondo grado, nella parte in cui si sosteneva che le vincite derivanti dal gioco d’azzardo risultassero esenti dalle imposte sui redditi, essendo esclusivamente assoggettate all'ISI (Imposta sugli Spettacoli), corrisposta direttamente dal Casinò in presenza di incassi superiori alle vincite pagate e non già dal singolo utente. Inoltre veniva lamentata l’erronea applicazione dei principi di esclusività della legge tributaria, di sovranità territoriale e di non discriminazione, sanciti dagli articoli 18 e 49 TFUE e pertanto le vincite conseguite presso le case da gioco estere non sarebbero potute essere soggette ad una tassazione superiore a quella applicabile in Italia. Secondo tale ricostruzione giuridica dunque la difesa sosteneva l’errata imponibilità di euro 1.339.955, in quanto si doveva tenere conto della detrazione del 33% della provvista, ottenendo quindi come cifra corretta quella di euro 933.333.

 

3.1 Dinnanzi a tali doglianze la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno soffermarsi sull’evoluzione normativa susseguitasi in ambito comunitario e sui riflessi che hanno investito il nostro ordinamento giuridico, al fine di inquadrare in maniera pienamente esaustiva una tematica assai complessa come quella del caso profilato. I Giudici di legittimità sottolineavano in prima battuta che l'art. 67 T.U.I.R. annovera tra i redditi diversi «le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico e i premi derivanti da prove di abilità o dalla sorte nonché quelli attribuiti in riconoscimento di particolari meriti artistici, scientifici o sociali». Essi concorrono a formare il reddito complessivo, sono determinati secondo le disposizioni proprie del TUIR e non si ammette alcuna deduzione.

Inoltre va menzionato altresì l'art. 30 del d.P.R. n. 600/1973, rubricato “Ritenuta sui premi e sulle vincite”, il quale prevede che “i premi assegnati a soggetti per i quali gli stessi assumono rilevanza reddituale ai sensi dell'articolo 6 del TUIR e gli altri premi comunque diversi da quelli su titoli e le vincite derivanti dalla sorte, da giuochi di abilità, quelli derivanti da concorsi a premio, da pronostici e da scommesse, corrisposti dallo Stato, da persone giuridiche pubbliche o private e dai soggetti indicati nel primo comma dell'articolo 23, sono soggetti a una ritenuta alla fonte a titolo di imposta, con facoltà di rivalsa, con esclusione dei casi in cui altre disposizioni già prevedano l'applicazione di ritenute alla fonte. Le ritenute alla fonte non si applicano se il valore complessivo dei premi derivanti da operazioni a premio attribuiti nel periodo d'imposta dal sostituto d'imposta al medesimo soggetto non supera l'importo di lire 50.000; se il detto valore è superiore al citato limite, lo stesso è assoggettato interamente a ritenuta. Le disposizioni del periodo precedente non si applicano con riferimento ai premi che concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente.” Invece in riferimento all'aliquota della ritenuta va sottolineato che essa è fissata nella misura del dieci per cento per i premi delle lotterie, tombole, pesche o banchi di beneficenza autorizzati a favore di enti e comitati di beneficenza, del venti per cento sui premi dei giuochi svolti in occasione di spettacoli radio-televisivi, competizioni sportive o manifestazioni di qualsiasi altro genere nei quali i partecipanti si sottopongono a prove basate sull'abilità o sull'alea o su entrambe e del venticinque per cento in ogni altro caso. La ritenuta sulle vincite e sui premi del lotto, delle lotterie nazionali, dei giuochi di abilità e dei concorsi pronostici esercitati dallo Stato, è compresa nel prelievo operato dallo Stato, in applicazione delle regole stabilite dalla legge per ognuna di tali attività di gioco e lo stesso risulta per la ritenuta sulle vincite corrisposte dalle case da gioco autorizzate, in quanto esse rientrano nella disciplina afferente l'imposta sugli spettacoli, di cui all'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 640.

Ponendo l’attenzione su tale normativa emerge che il d.P.R. n. 640/1972 [cfr. Scoz G., Spettacoli e fisco, Milano, 2019] sottopone a tassazione gli intrattenimenti, i giochi e le altre attività espressamente indicate, che si svolgono nel territorio dello Stato italiano ove il soggetto di imposta è l’organizzatore dell’attività di intrattenimento e nei casi in cui l'esercizio di case da gioco sia riservato per legge ad un ente pubblico questi è il soggetto d'imposta, anche nel caso in cui deleghi ad altri la gestione. Inoltre secondo quanto previsto dall’art. 3 comma 4 dello stesso decreto per le case da gioco la base imponibile è costituita dalla differenza fra le somme introitate per i giochi e le attività connesse e quelle pagate ai giocatori per le vincite giorno per giorno.

Dunque, come sottolineato dalla Corte di Cassazione, ne discendeva che in base al combinato disposto di cui agli artt. 67, comma 1 lett. d) T.U.I.R. ,  69 comma 1 T.U.I.R. e l’ art. 30 comma 7 del d.P.R. n. 600/1973, le vincite corrisposte dalle case da gioco costituivano redditi diversi, soggetti alla ritenuta alla fonte nella misura del venti per cento e nel caso di vincite corrisposte da case da gioco italiane l'imposta risultava direttamente compresa in quella sostitutiva, in quanto dovuta dalla casa da gioco ed assolta esclusivamente da essa.

 

3.2 Dopo tale attenta disamina della normativa interna la Corte di Cassazione si è soffermata sulla sentenza della CGUE del 22 ottobre 2014, pronunciata nelle cause riunite C-344/13 e C-367/13, Bianco e Fabretti, aventi ad oggetto alcune domande di pronuncia pregiudiziale proposte ai sensi dell'articolo 267 TFUE dalla Commissione tributaria provinciale di Roma.

Per i giudici comunitari la normativa italiana risultava di fatto discriminatoria, in quanto da un lato richiedeva il versamento delle imposte sulle vincite maturate all’estero nelle sale da gioco comunitarie, mentre dall’altro esonerava dagli obblighi fiscali i giocatori all’interno dei casinò italiani.

In questo modo si realizzava un’evidente disparità, che comportava un incentivo a prendere parte al gioco d’azzardo solo all’interno del territorio nazionale, penalizzando la concorrenza degli altri stati membri. Infatti gli articoli 52 e 56 TFUE dovevano essere interpretati in maniera ostativa rispetto alla normativa di uno Stato membro, ove fosse assoggettata ad imposta sul reddito la vincita derivante da giochi d'azzardo in case da gioco situate in altri Stati membri. Ciò in virtù del fatto che non dovevano crearsi evidenti disparità di trattamento tra Stati dell’UE, ad esempio esonerando dalla suddetta imposta redditi simili se provenienti da case da gioco situate nel territorio nazionale dello Stato di riferimento. [cfr. Cartabia M., I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona: verso nuovi equilibri, in Giorn. dir. amm., 2010; Sacchetto C., Principi di diritto tributario europeo ed internazionale, Torino, 2011]

Sulla scia di tali considerazioni i Giudici di legittimità hanno posto l’accento anche su un altro consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi con la sentenza della quinta sezione della Corte Europea del 13/11/2003 n. C-42/02, ove si prevedeva che gli Stati membri fossero chiamati ad esercitare la competenza in materia di imposte dirette sempre nel rispetto del diritto comunitario. Infatti l’art. 56 TFUE stabilisce che la libera prestazione dei servizi miri all’eliminazione di qualsivoglia discriminazione fondata sulla cittadinanza, nonché al far venir meno ogni tipo di restrizione volta a ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, dove egli fornisca legittimamente servizi analoghi.

Tale dettato normativo evidenziato all’interno Trattato, relativo alla libera prestazione dei servizi,  sembra risultare confacente al caso in esame, in quanto prevede la medesima ratio applicativa anche rispetto ad un'attività volta a consentire la partecipazione, dietro corrispettivo, ad un gioco d'azzardo. [sul tema Garbarino C. e Turina A., Problemi attuali di diritto tributario delle società nei recenti approdi della Corte di Giustizia in materia di fiscalità diretta, Rassegna annuale in tema di fiscalità, n.4/2018]

La normativa italiana dunque prevedeva che le vincite conseguite nelle case da gioco nazionali fossero oggetto di una ritenuta calcolata in base alla differenza tra le somme incassate per i giochi e quelle versate ai giocatori per le vincite realizzate.

Inoltre il governo italiano aveva precisato a più riprese che le vincite ottenute nelle case da gioco situate in Italia erano esonerate dall'imposta sul reddito, al fine di evitare una doppia imposizione sulle medesime somme; allo stesso tempo però le vincite da giochi d'azzardo, conseguite in case da gioco stabilite all'estero, erano considerate come redditi da inserire nella corrispondente dichiarazione ed andavano dunque sottoposte all’imposizione reddituale.

A parere della Corte di Cassazione, che riprendeva pienamente l’assunto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la normativa in esame concedeva però un trattamento fiscale differenziato, in quanto le sole vincite derivanti dal gioco e conseguite in un altro Stato membro erano considerate come redditi tassabili, comportando un’evidente minor attrattività di spostamento in un altro Stato membro per il gioco d’azzardo.

Emergeva pertanto dal combinato disposto degli articoli 30 del d.P.R. n. 600/1973 e 67- 69 T.U.I.R. una restrizione discriminatoria della libera prestazione dei servizi nei confronti non soltanto dei prestatori ma anche dei destinatari di tali servizi.

A tal punto il Legislatore fiscale italiano con la legge n. 122/2016 ha reputato opportuno un intervento riformatore al fine di adeguare la normativa interna in materia di tassazione delle vincite corrisposte dalle case da gioco ai principi sovrannazionali considerati sinora.

Nello specifico l'art. 6, intitolato «Disposizioni in materia di tassazione delle vincite da gioco. Esecuzione della sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea 22 ottobre 2014 nelle cause riunite C-344/13 e C-367/13: Caso EU Pilot 5571/13/TAXU», abrogando l'ultimo comma dell'art. 30 del d.P.R. n. 600 del 1973 ed inserendo all’interno dell'art. 69 T.U.I.R. il comma 1-bis, ha concretamente trasposto -in maniera estremamente rigorosa - i principi comunitari summenzionati. Infatti alla luce di tale intervento legislativo l'art. 69 T.U.I.R. attualmente recita: ««1. Fatte salve le disposizioni di cui al comma 1-bis, i premi e le vincite di cui alla lettera d) del comma 1 dell'articolo 67 costituiscono reddito per l'intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza alcuna deduzione. 1-bis. Le vincite corrisposte da case da gioco autorizzate nello Stato o negli altri Stati membri dell'Unione europea o in uno Stato aderente all'Accordo sullo Spazio economico europeo non concorrono a formare il reddito per l'intero ammontare percepito nel periodo di imposta». Resta invariato il comma secondo che non ha rilevanza nel caso di specie.

Pertanto, in ragione di tali modifiche operate, le vincite corrisposte dalle case da gioco autorizzate nello Stato o negli altri Stati membri dell'Unione europea o in uno Stato aderente all'Accordo sullo Spazio economico europeo non concorrono a formare il reddito e non sono soggetti ad alcun prelievo alla fonte e tutto ciò non fa altro che rafforzare il principio di libera prestazione di servizi all’interno del nostro sistema Unionale.

Va  tuttavia sottolineato come il Principato di Monaco non sia uno Stato membro dell’UE e non rientri tra gli Stati aderenti all'Accordo SEE (Spazio economico europeo) e non si può disattendere quanto sostenuto dalla Corte di Appello di Ancona rispetto alla corretta qualificazione operata nei confronti dello Stato Monegasco, indicato all’interno del D.M. 4/05/1999 all'art. 1 come Paese a fiscalità privilegiata.

 

3.3 A tal punto della nostra disamina è possibile asserire che le vincite corrisposte da case da gioco situate al di fuori dello Stato italiano o degli altri Stati membri dell'Unione europea o aderenti allo Spazio economico europeo costituiscono reddito per l'intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza alcuna deduzione ex art. 69 primo comma TUIR e senza alcuna ritenuta alla fonte, ex art. 30 d.P.R. n. 600/1973. Inoltre in virtù dell’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 30 del suddetto D.p.r. risulta vietato assoggettare tali somme a tassazione secondo le aliquote ordinarie, escludendo dunque l'applicabilità dell'aliquota del dieci per cento, calcolata per determinare l'imposta dovuta dalle case da gioco italiane.

Per quanto attiene invece alla circostanza che l'Agenzia delle Entrate in sede di accertamento con adesione avesse sostanzialmente negoziato un abbattimento del 33% sulle somme corrisposte dalla casa da gioco Monegasca, la Corte di Cassazione non ha mancato di osservare che ciò non priva la vincita della loro qualificazione di reddito diverso, interamente tassabile. Ciò in virtù del fatto che le determinazioni erariali più favorevoli al contribuente avevano diminuito in maniera consistente la base imponibile, evitando il superamento delle soglie di punibilità espressamente previste dal Legislatore.

 

  1. A seguito di tali riflessioni i Giudici di legittimità hanno statuito altresì che i redditi non possano subire un trattamento fiscale discriminatorio a seconda dello Stato di provenienza, come evidenziato dalla lunga esperienza della giurisprudenza comunitaria.

Addiviene pertanto necessario invocare il correlato principio unionale di libertà di stabilimento, disciplinato agli articoli 49 – 55 TFUE, che consente ad ogni appartenente all’Unione Europea di sottoporre a forme di tassazione diversa i medesimi redditi in base al luogo di produzione, purché ciò non comporti alcun pregiudizio della libertà di stabilimento stessa dei cittadini e delle imprese comunitarie.

Naturalmente anche in questo caso, nel caso delle imprese appartenenti al Principato di Monaco, non sarà consentito avvalersi di tale regime. A prescindere dunque dalle evidenti ragioni fiscali soccorre la necessità di prevenire il rischio di possibili forme incontrollabili di riciclaggio, autoriciclaggio, fuga all'estero di capitali o introduzione in Italia di risorse di incerta provenienza. Non si rileva inoltre alcuna violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione italiana in tali ipotesi, poiché l'intenzione di disincentivare la migrazione di capitali verso paesi a fiscalità privilegiata non è affatto irragionevole, ma coerente con gli obiettivi di pianificazione tributaria internazionale. [sul punto G. Maisto, “L’editoriale: l’attuazione “ragionata” delle raccomandazioni BEPS nell’ordinamento tributario italiano”, Rivista di Diritto Tributario, 2016]

 

  1. Rispetto al quarto ed ultimo motivo di ricorso il contribuente G.R. lamentava la violazione di legge ex art. 4 del protocollo n. 7 CEDU, riferita al principio del ne bis in idem processuale [Russo P., Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2016, p. 35; Carinci A., Il principio di specialità nelle sanzioni tributarie: tra crisi del principio e crisi del sistema, in Rass. Trib. n. 2-2015, pp. 499-515] a causa della mancanza di connessione tra il procedimento amministrativo e quello penale, sia sul piano sostanziale sia temporale, in ragione del fatto che il procedimento penale fosse pendente mentre quello amministrativo si era definitivamente concluso nel 2009. La Corte di Cassazione nel merito ha ritenuto tale doglianza generica ed infondata, in quanto la Corte di appello di Ancona aveva ribadito linearmente la proporzionalità delle sanzioni complessivamente inflitte rispetto alla gravità del fatto dedotto. Inoltre i Giudici di legittimità avevano valutato la congruità complessiva dell’impianto sanzionatorio penale da un punto di vista fattuale, sostenendo che il ricorrente dovesse essere condannato al minimo edittale, ossia un solo anno di imposta, poiché inizialmente i periodi di imposta da considerare erano tre, di cui per due di essi era intervenuta la prescrizione.

Sul versante sanzionatorio amministrativo invece si faceva correttamente riferimento a tutti i periodi di imposta esaminati ed in ordine alla corretta interpretazione dell'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU va ricordato che la norma non vieta in assoluto la litispendenza, ma il fatto che il secondo procedimento venga avviato solo dopo che il primo si sia già concluso. Tuttavia anche in caso di litispendenza, pur non essendo richiesto che i due procedimenti siano condotti simultaneamente dall'inizio alla fine, risulta comunque necessario che vi sia tra essi una connessione stretta, tale da proteggere dall'incertezza del ritardo.

Il ricorrente in ottica difensiva aveva fatto riferimento al caso Johannesson e altri c/Islanda [Corte EDU, I sez., sent. 18 maggio 2017, ric. n. 22007/11, per una disamina più completa Viganò F., Una nuova sentenza di Strasburgo su ne bis in idem e reati tributari, Diritto Penale contemporaneo, Fascicolo n. 5/2017], ove si assisteva alla definizione del procedimento amministrativo in pochi mesi, mentre il procedimento penale risultava pendente.

In tal caso però la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno osservare come i due procedimenti fossero stati avviati per il medesimo fatto, ossia l’evasione fiscale ed avevano viaggiato in parallelo per poco più di un anno, a fronte di una durata complessiva dei due procedimenti di circa nove anni e tre mesi. Nel caso in esame, invece, il procedimento amministrativo si era definito in pochi mesi a seguito dell’adesione dello stesso ed egli tutt’al più voleva evitare criticità processuali, essendo ricorso innanzitutto alla ridefinizione dell'imponibile abbattuto del 33%, ottenendo in termini sanzionatori complessivi sicuramente un trattamento di maggior favore.

Infine è possibile osservare che la diversa durata dei due procedimenti era dipesa principalmente dall’immediata negoziazione del contribuente con l’Agenzia delle Entrate italiana e pertanto non poteva risultare ascrivibile all’autorità giudiziaria un ritardo causato da un’ipotetica inerzia.

Di conseguenza il caso citato dalla difesa nel ricorso è risultato non attinente alla tematica oggetto del presente giudizio e, sulla base delle osservazioni effettuate, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso in toto, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell’art. 616 c.p.p.