Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

23/11/2020 - Analisi della natura giuridica degli sgravi a vantaggio delle imprese sociali

argomento: Agevolazioni - Legislazione e prassi

Esiste uno stretto collegamento tra gli sgravi fiscali riconosciuti dal d.lgs n. 112/2017 alle imprese sociali e lo svolgimento, duraturo nel tempo, delle loro attività, che costituiscono precise funzioni di interesse pubblico generale senza oneri necessari a carico della fiscalità generale. Per queste ragioni, il reddito delle imprese sociali non è posseduto, è sottratto alla disponibilità delle stesse imprese sociali. Lo sgravio fiscale riconosciuto alle imprese sociali costituisce dunque un atto di giustizia fiscale, trovando il suo fondamento nella differenza di funzione del reddito delle imprese sociali rispetto a quello delle imprese commerciali

PAROLE CHIAVE: impresa sociale - agevolazioni fiscali - sussidiarietā - giustizia fiscale - interesse pubblico


di Vincenzo Bassi

  1. Com’è noto, le imprese sociali (unitamente, in generale, agli enti del terzo settore) rientrano nella categoria di quegli enti non lucrativi che concorrono al bene comune, svolgendo una funzione di interesse pubblico generale (ut infra).

Si tratta di una tipologia di impresa, introdotta nell’ordinamento con il d.lgs 24 marzo 2006 n. 155, poi modificato con il d.lgs. 3 luglio 2017 n. 112, in cui si è meglio circoscritto l’ambito di applicazione del principio di non lucratività dell’impresa sociale.

Da un punto di vista formale, le imprese sociali sono, in linea di principio, enti commerciali di natura anche societaria ma non unipersonale (Ficari, Prime osservazioni sulla 'fiscalità' degli enti del Terzo settore e delle imprese sociali, Rivista trimestrale di diritto tributario, fascicolo 1/2018, para. 9).

Quanto al trattamento fiscale, la previsione di una specifica disciplina di sgravio sugli utili e sull’avanzo di gestione imputato alle imprese sociali, sembra valorizzare, in via immediata, non tanto la natura dell’impresa esercitata e la tipologia del suo oggetto esclusivo o principale quanto, invece, la destinazione improntata agli utili e agli avanzi di gestione prodotti.

Sviluppando il ragionamento, va tuttavia considerata la circostanza per cui gli utili delle imprese sociali, imputati a riserva indivisibile in sospensione d’imposta, si riferiscono, in via principale, ad attività di interesse pubblico generale e devono essere reinvestiti (ut infra) nell’attività dell’impresa sociale.

Pertanto – come si vedrà in seguito – l’ordinamento giuridico vuole premiare non tanto l’impresa sociale in sé quanto il suo impegno, duraturo nel tempo, che dovrà infatti essere svolto (i) con continuità, (ii) senza oneri per lo Stato e (iii) in modo auto-sostenibile attraverso gli utili e avanzi di gestione prodotti sempre dall’impresa sociale nell’esercizio proprio delle sue funzioni di interesse pubblico generale (ut infra).

In altre parole, il riconoscimento degli sgravi a favore delle imprese sociali costituisce un più amplio riconoscimento per lo svolgimento, duraturo nel tempo e senza ulteriore aggravio sulla fiscalità generale, della funzione di interesse pubblico generale al servizio del bene comune.

Si tratta tuttavia di scelte premiali già previste per le istituzioni pubbliche di cui all’art. 74 del TUIR, secondo cui sono esclusi da imposizione, come reddito d’impresa, i proventi conseguiti nell’esercizio dell’attività altruistica oppure l’utile destinato a finalità altruistiche.

Alla luce del parallelismo tra l’art. 74 del TUIR e la normativa di settore delle imprese sociali, si può ragionevolmente affermare la seguente regola generale: l’esercizio di funzioni di interesse pubblico generale, esercitate da enti sia pubblici che privati, non costituiscono esercizio di attività commerciale, e i relativi proventi non sono soggetti a imposizione diretta.

Per meglio comprendere la questione, va ricordato altresì che il reddito prodotto dalle imprese commerciali costituisce quella “ricchezza novella”, utile a garantire allo Stato la provvista finanziaria da impiegare nelle attività pubbliche. In concreto, hanno assicurato in via prevalente, fino a oggi, il finanziamento delle spese pubbliche, le organizzazioni aziendali che svolgono, in modo non occasionale, attività commerciali e industriali producendo beni e servizi offerti al libero mercato in modo concorrenziale.

Al contrario, l’impresa sociale, attraverso l’esercizio della sua attività economica e istituzionale, svolge, direttamente e senza scopo di lucro, funzioni di interesse pubblico generale. Si tratta di attività che vengono per lo più svolte all’interno di comunità, agendo in autonomia dall’intervento statale.

Pertanto, sebbene gli utili sia delle imprese sociali sia delle imprese commerciali finanzino funzioni di interesse pubblico generale, i destinatari dei finanziamenti sono diversi.

In particolare, le imprese commerciali finanziano lo Stato o gli Enti territoriali, mentre le imprese sociali, attraverso i propri utili, svolgono quelle funzioni di interesse pubblico generale, senza oneri per la fiscalità generale.

 

  1. Quanto appena detto a proposito della rilevanza fiscale della funzione di interesse pubblico generale svolta dalle imprese sociali, può essere confermato, esaminando, nello specifico, la stessa normativa di settore e cioè il d.lgs 3 luglio 2017 n. 112.

Tale normativa pone in risalto proprio la necessaria funzione di interesse pubblico generale e di rilievo costituzionale, che le imprese sociali sono chiamate a svolgere in vari settori: solidarietà, formazione e ricerca scientifica, ambiente. Con riguardo alle attività solidali, le imprese sociali agiscono rispettando tre principi:

  • le pari opportunità di accesso ai servizi sociali, sanitari, educativi;
  • l’eguaglianza di trattamento ad ogni persona tenendo conto della natura dei bisogni che essa rappresenta;
  • affiancamento alle situazioni di povertà personale e famigliare.

Pertanto, alla luce del loro impegno sociale, è essenziale analizzare il collegamento tra la funzione di interesse pubblico generale svolta dalle imprese sociali, e lo sgravio previsto dal d.lgs. n. 112/2017, allo scopo di comprenderne la natura.

Sul punto – come già precisato – le stesse imprese sociali si impegnano a destinare “eventuali utili ed avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio..”, essendo vietata ..“la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominati, a fondatori, soci o associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di qualsiasi altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto..” (art. 3, commi 1 e 2 del d.lgs. 112/2017). Per precisione, è comunque garantita distribuzione di somme nei limiti delle rivalutazioni monetarie pari alle “variazioni dell’indice nazionale generale annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e di impiegati, calcolate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) per il periodo corrispondente a quello dell’esercizio sociale in cui gli utili e gli avanzi di gestione sono stati prodotti” (art. 3, comma 3, lett. a) del d.lgs n. 112/2017).

Inoltre, in caso di scioglimento volontario dell’ente o di perdita volontaria della qualifica di impresa sociale, il patrimonio residuo, dedotto, nelle imprese sociali costituite in forma societaria, il capitale effettivamente versato dai soci, eventualmente rivalutato o aumentato, e i dividendi deliberati e non distribuiti nei limiti della semplice rivalutazione monetaria, è devoluto nei modi e nei termini determinati dalla legge a favore di altri enti del Terzo settore (art. 12, comma 5 del d.lgs. n. 112/2017).

Va ora chiarito se la detassazione dei proventi derivanti dallo svolgimento, da parte dell’impresa sociale, della sua funzione di interesse pubblico generale costituisce l’effetto di un atto normativo di agevolazione (discrezionale) o di esclusione (costituzionalmente necessario).

Sul punto, vale la pena precisare la differenza tra norme di agevolazione e quelle di esclusione, allo scopo di indicare un metodo di analisi ex post, prescindendo dal nomen iuris, individuato dal legislatore (S. La Rosa, “Esclusioni tributarie”, in Enc. giur., Treccani, 1989, pag. 1; Corte cost. 6 dicembre 1984, n. 277).

Com’è noto, la detassazione conseguente a un’agevolazione è il frutto di una scelta legislativa discrezionale, e quindi non obbligatoria, insuscettibile di interpretazione analogica (Corte cost., ord. 7 novembre 2003, n. 336; e 2 marzo 2005, n. 87), a meno di non dimostrarne l’irragionevolezza (Corte cost. 6 febbraio 2002, n. 16). Tali norme sono introdotte al fine di tutelare situazioni che per ragioni di politica economica e sociale mirano a creare posizioni di vantaggio a favore di determinati soggetti (La Rosa, “Esenzione (dir. trib.)”, in Enc. dir., vol. XV, Milano; F. Moschetti - R. Zennaro, “Agevolazioni fiscali”, in Dig. comm., n. 1/1987).

Al contrario, le norme di esclusione mettono “a fuoco” i fatti ritenuti manifestazione della specifica capacità contributiva che si vuole colpire con un determinato tributo (P. Russo, Manuale di diritto Tributario, Milano, 1996, pag. 128).

Ne deriva che la tassazione di fattispecie escluse oppure da escludere è contraria al disposto costituzionale con particolare riguardo al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. Pertanto, si tratta di una questione sostanziale di equità, nei confronti della quale il legislatore può decidere discrezionalmente solo sulla tecnica normativa (meccanismo della deduzione, della detrazione oppure della riduzione dell’aliquota). In altri termini, la previsione di fattispecie escluse da tassazione costituisce un atto di equità, in quanto riconosce l’assenza di indici di capacità contributiva, cioè di ricchezza assoggettabile al tributo, in coerenza col resto delle scelte dell’ordinamento (sul punto cfr. (Corte cost. 10 luglio 1968, n. 97).

Nel caso di specie, un giudizio sulla natura agevolativa o meno delle norme di sgravio fiscale a favore delle imprese sociali deve passare attraverso l’analisi del presupposto dell’imposta sui redditi (IRES e IRPEF), il quale è rappresentato dal “possesso dei redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6” (artt. 1 e 72 del TUIR).

Per possesso del reddito, in ossequio al principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), si deve intendere una situazione di fatto cui corrisponde un effettivo indice di capacità economico-patrimoniale su un determinato reddito.

La relazione ministeriale all’art. 1 del D.P.R. n. 597/1973 precisava sul punto che il possesso del reddito “più che alla titolarità giuridica dei redditi” si riferisce “alla loro materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta”. Ciò comporta, da una parte, l’esclusione da tassazione di quel reddito nel periodo d’imposta in cui esso è stato prodotto, dall’altra, l’imponibilità dello stesso reddito in conseguenza della sua disponibilità da parte del soggetto d’imposta.

Di conseguenza, non rileva tanto la titolarità giuridica di un reddito prodotto dall’impresa sociale, quanto il diritto di quest’ultima, di disporne liberamente e pienamente, senza controlli e obblighi di rendicontazione (A. Fedele, “Possesso di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità della cumulabilità dei redditi”, note alla sentenza della Corte cost. 15 luglio 1976, n. 179, in Giur. cost., 1976, pag. 2164; sempre sul tema del reddito come piena disponibilità vedansi G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1974, pag. 292 ss.; A. Berliri, Il Testo Unico delle imposte dirette, Milano, 1960, pag. 345; E. Potito, L’ordinamento tributario italiano, Milano, 1978, pag. 181 ss.; L. Ferlazzo Natoli, “Il fatto rilevante nel diritto tributario. Contributo allo studio del presupposto di fatto del tributo”, in Riv. dir. trib., n. 1/1994, pag. 454; M. Leo - F. Monacchi - M. Schiavo, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Tomo I, Milano, 2010, pagg. 1-3; L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, La frontiera della democrazia, 2005, pag. 137; M. Lehner, Einkommensteuerrecht und Sozialhilferecht, Tübingen, 1993).

Nel caso di specie, le imprese sociali pongono in essere attività ben precise, senza oneri obbligatori per lo Stato. In particolare, lo statuto di ciascuna impresa sociale “impone” lo svolgimento di attività che rappresentano funzioni di interesse pubblico generale.

Inoltre, come già accennato in precedenza, il reddito proveniente dall’attività economica delle imprese sociali, unitamente ai conferimenti dei soci, partecipanti, costituisce, dunque, quella “provvista” necessaria a garantire, in maniera duratura, lo svolgimento, efficiente e sostenibile, delle prestazioni di interesse pubblico generale nei modi e nei limiti indicati dal legislatore.

In altri termini, gli utili e gli avanzi di gestione vanno considerati come strumento utile al benessere generale e alla coesione sociale di una comunità.

Ma non solo, quelle stesse risorse derivanti dall’attività economica concorrono a formare un patrimonio che appartiene alla categoria dei beni comuni (Dotti, Rapaccini L’Italia di tutti. Per una nuova politica dei beni comuni, Milano, 2019), e segue perciò un regime anche di tipo pubblicistico. Infatti, il patrimonio delle imprese sociali deve essere necessariamente destinato, in via duratura e in ossequio al principio costituzionale di sussidiarietà, allo svolgimento di un’attività economica di interesse generale di rilievo costituzionale e senza oneri per lo Stato.

Pertanto, se è vero che le imprese sociali devono poter svolgere “in via stabile e principale una o più attività d’impresa di interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” (art. 2, comma 1 del d.lgs n. 112/2017), allora anche i loro proventi – come affermato in passato per altri enti non lucrativi di interesse pubblico, come gli enti ospedalieri (Cass. SS.UU. 4 marzo 1974, n. 594) – sono da escludere dalla nozione tributaria di reddito mobiliare imponibile. Ciò in quanto, l’eventuale avanzo di bilancio o utile delle imprese sociali assume aspetto peculiare ed esclusivo di mezzo di finanziamento ed eventualmente di sviluppo del servizio di interesse pubblico generale.

In altre parole, così come non hanno la piena disponibilità della “provvista” da destinare all’erogazione di tali attività, le imprese sociali non hanno neppure la piena disponibilità del reddito che ha concorso a determinare quella “provvista”.

Conseguentemente, nei confronti delle imprese sociali non sussiste il presupposto delle imposte dirette (artt. 1 e 72 del TUIR) relativamente a quei proventi derivanti dalla gestione economica e patrimoniale, di cui, in effetti, hanno solo la titolarità giuridica, e non la disponibilità e quindi il possesso.

Quanto detto è ancora più chiaro se si considera che, in ossequio al principio di sussidiarietà, le imprese sociali, assolvendo a una funzione di interesse pubblico generale, contribuiscono direttamente alle spese pubbliche così come richiesto ai sensi dell’art. 53 Cost. (secondo cui “tutti sono tenuti a contribuire alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”). Ciò in quanto, sulla base delle argomentazioni svolte in precedenza, l’impegno costituzionale alla contribuzione si adempie, non solo pagando tributi, ma anche partecipando più generalmente alla crescita e al benessere della comunità (Zizzo, Ragionando sulla fiscalità del Terzo settore, in Zizzo (a cura di), La fiscalità del terzo settore, Milano, 2011, p. 4; Gianoncelli, Regime fiscale del terzo settore e concorso alle pubbliche spese, Riv. Dir. fin. Sc. Fin, 2017, 295 e ss.).

La disciplina contenuta nel d.lgs n. 112/2017 costituisce, quindi, il riconoscimento della funzione di interesse pubblico generale svolta dalle imprese sociali, le quali concorrono alle spese pubbliche attraverso lo svolgimento della propria attività.

È pertanto chiaro il perché lo sgravio de quo non può considerarsi un’agevolazione o un incentivo allo svolgimento di attività di interesse generale.

Infatti, si sarebbe trattato di agevolazione o incentivo se lo svolgimento di attività di interesse generale non fosse stato in generale un compito della comunità. Ciò in quanto, l’incentivo, come la pena, mira a ottenere qualcosa da chi non lo farebbe spontaneamente o sinceramente.

Tuttavia, questo non è il caso, dal momento che le imprese sociali svolgono la loro attività liberamente come servizio al bene comune, in ossequio al principio di sussidiarietà (ut infra).

Si tratta quindi, più propriamente, di un atto di giustizia e di esclusione da tassazione, perché attraverso lo sgravio de quo l’ordinamento giuridico riconosce un premio per l’assunzione volontaria, e senza oneri obbligatori per l’erario, di responsabilità di essere strumento della comunità al servizio del bene comune (Carbonara, voce ‘Incentivi e premi’’”, in Bruni - Zamagni (a cura di), Dizionario di economia civile, Roma, 2009, pag. 527 ss.; e L. Bruni, “Il ‘Delle virtù e dei premi’ di G. Dragonetti (e una polemica di B. Croce)”, in Storia del pensiero economico, n. 1/2010, pagg. 33-49, L. Bruni, Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni, Roma 2012.).

Alla luce di questa ricostruzione, sarebbe irragionevole per il legislatore trattare le imprese sociali come le altre imprese, imponendo prestazioni patrimoniali di natura tributaria (art. 23 Cost.), e obbligandole così, due volte, al concorso alle spese pubbliche: 1) in modo diretto, svolgendo per statuto, una funzione di rilievo costituzionale come l’attività di assistenza, di beneficenza, di istruzione ecc.; e 2) in modo indiretto, versando le imposte come le imposte dirette.

A ben guardare, senza l’operatività degli sgravi, la tassazione dei proventi derivanti dalle attività de quibus colpirebbe la stessa ricchezza che le imprese sociali utilizzano nello svolgimento della loro funzione di rilievo costituzionale.

In concreto, se non ci fosse l’esclusione da imposizione diretta, le imprese sociali, in ossequio al principio di sussidiarietà, finanzierebbero le proprie prestazioni impiegando le risorse a loro disposizione, derivanti dall’avanzo di gestione, al netto delle imposte dirette.

Si tratterebbe, tuttavia, di un’ipotesi contraria ai principi costituzionali di solidarietà, di uguaglianza e quindi di capacità contributiva (i), perché, da una parte, le imprese sociali sarebbero assoggettate ai fini delle imposte dirette a un prelievo tributario uguale a un qualsiasi ente commerciale (e ciò nonostante – come visto – svolgano un funzione di rilievo costituzionale, in ossequio al principio di sussidiarietà fiscale e senza oneri obbligatori per lo Stato); e (ii) perché, dall’altra, verrebbe illegittimamente disconosciuta la funzione garantista riconosciuta dall’art. 2 e 53 Cost., che, impedendo al legislatore di disporre un prelievo tributario troppo elevato (tanto da rischiarare di produrre gli effetti propri dell’espropriazione dell’oggetto dell’imposizione), ne limitano il potere impositivo. Il fine ultimo dell’ordinamento statale non è infatti di imporre i tributi, ma di realizzare i suoi obiettivi (A. Baldassarre, “voce ‘Diritti fondamentali’”, in Enc. giur., vol. XI, Roma, 1989, pag. 1; N. Occhiocupo, Liberazione e promozione umana nella Costituzione, Milano, 1995, pag. 56; F. Pizzolato, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, cit., pag. 167; C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1952, pag. 472), anche attraverso l’autonomia dei cittadini, singoli e associati, i quali, per finalità di interesse generale, hanno la responsabilità di partecipare alle “spese pubbliche”, in modo pluralistico e non solo ricorrendo all’imposizione fiscale (Miscali, “La fiscalità del Terzo settore: dall’agnosticismo legislativo al ‘diritto costituzionale alla sussidiarietà fiscale’”, in Zizzo (a cura di), La fiscalità del Terzo settore, Milano, 2011, pagg. 49-74; Miscali, Il diritto alla giusta imposta, Varese, 2009, pag. 89; Miscali, “Contributo allo studio dei profili costituzionali del principio di sussidiarietà fiscale”, in Riv. dir. trib., n. 1/2011, pag. 959).

 

  1. Sul punto, la Corte di Giustizia con la sentenza 8 settembre 2011, cause riunite da C-78/08 a C-80/08, pur senza scendere in una sua analisi dettagliata, ha chiarito come il rapporto tra limitazione alla distribuzione degli utili e tassazione differenziata sia perfettamente coerente col diritto dell’Unione (Giovannini, Sul terzo settore e sul disegno di legge delega: il coraggio della svolta, Rivista di diritto tributario, 2014, pp. 726 e ss).

Infatti, ciò che rileva non è tanto l’esistenza o meno di sgravi fiscali, quanto l’accertamento in concreto di privilegi a vantaggio di alcune categorie di imprese, in modo selettivo (Consiglio di Stato nel parere n. 1296 dell’8 ottobre 1991).

In particolare, la violazione della normativa europea sugli aiuti di Stato ricorre solo se agli sgravi non corrisponde un’assunzione di responsabilità verso la comunità da parte del beneficiario dello sgravio stesso.

Nel caso di specie, gli sgravi a favore delle imprese sociali non costituiscono privilegi, ma rappresentano il riconoscimento della funzione di interesse pubblico generale che proprio le imprese sociali svolgono ponendo in essere le loro attività (Montanari, Gli enti del terzo settore (ETS) nel sistema dell'iva: profili soggettivi, Rivista trimestrale di diritto tributario, fascicolo 2/2018, para. 6).

 

 

  1. A questo punto, occorre analizzare nello specifico il dettaglio degli sgravi fiscali disposti per le imprese sociali, ben sapendo che l’ultimo comma dell’articolo 18 subordina l’efficacia degli sgravi previsti a favore delle imprese sociali all’autorizzazione della Commissione europea, richiesta a cura del ministero del Lavoro e delle politiche sociali.

Come precisato dalla relazione illustrativa, si tratta di una scelta prudenziale del legislatore delegato, in quanto tali benefici “non costituiscono aiuti di stato poiché motivati da evidenti profili di simmetria fiscale tra divieto di distribuire utili e non imponibilità degli stessi” (Sul punto, cfr. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 6 novembre 2018 (cause riunite da C-622/16P a C-623/16P e C- 624/16P), secondo cui non si violano le misure in materia di concorrenza laddove l’obiettivo dell’ente non è la crescita economica ma lo svolgimento in sé di un servizio di utilità).

Andando nello specifico degli strumenti di detassazione, come già detto (ut supra), gli utili e gli avanzi di gestione delle imprese sociali non costituiscono reddito imponibile ai fini delle imposte dirette qualora vengano destinati ad apposita riserva indivisibile in sospensione d’imposta e reinvestiti nell’attività d’interesse generale svolta sempre dall’impresa, in sede di approvazione del bilancio dell’esercizio in cui sono stati conseguiti e risultino effettivamente destinati, entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello di conseguimento, allo svolgimento dell’attività statutaria o a incremento del patrimonio, nonché al versamento del contributo per l’attività pubblica ispettiva sulle imprese sociali (art. 18, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 112/2017; sul punto è intervenuta a chiarire la circolare 18 giugno 2002, n. 53/E, a commento dell’art. 21, comma 10 della l. 27 dicembre 1997 n. 449). Tale destinazione deve essere evidenziata nelle scritture contabili. Per contro, risulta imponibile qualsiasi forma di distribuzione di utili ai soci, anche nell’ipotesi in cui ciò avvenga disponendo l’aumento gratuito del capitale, nei limiti delle variazioni ISTAT.

In altri termini, l’esclusione da tassazione è ammessa, sotto il profilo dell’equità fiscale, solo se gli utili e gli avanzi, in modo cumulativo e non alternativo:

  1. sulla base delle scritture contabili, non possono essere distribuiti ai soci, associati, partecipanti, e
  2. sono reinvestiti, in un periodo breve di tempo, nell’attività d’interesse generale svolta sempre dall’impresa.

Sono altresì esclusi da tassazione quei proventi direttamente riferibili ad attività diverse da quelle di interesse generale, così come indicato dal legislatore, a condizione che i ricavi riferibili all’attività di interesse generale tipiche dell’impresa sociale siano almeno il 70% dei ricavi complessivi maturati dall’impresa (art. 2, comma 3 del d.lgs. n. 112/2017).

In considerazione proprio della funzione di interesse pubblico generale delle imprese sociali sono previste altresì forme di sgravio e di esclusione dal reddito anche per chi decide di investire il proprio patrimonio in iniziative economiche di interesse generale (art. 18, commi 3 e 4 del d.lgs. n. 112/2017).

In concreto, dall’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche si detrae un importo pari al trenta per cento della somma investita dal contribuente nel capitale sociale di una o più̀ società incluse società cooperative, che abbiano acquisito la qualifica di impresa sociale da non più̀ di cinque anni. L’ammontare, in tutto o in parte, non detraibile nel periodo d’imposta di riferimento, può essere portato in detrazione dall’imposta sul reddito delle persone fisiche nei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il terzo. L’investimento massimo detraibile non può eccedere, in ciascun periodo d’imposta, l’importo di euro 1.000.000, e deve essere mantenuto per almeno cinque anni.

Allo stesso modo, se a conferire la somma sono soggetti Ires, non concorre alla formazione del loro reddito, il trenta per cento della somma investita. L’investimento massimo deducibile non può eccedere, in ciascun periodo d’imposta, l’importo di euro 1.800.000.

Anche in questo caso, l’investimento, in qualsiasi forma (quote o partecipazioni sociali), deve essere mantenuto per un periodo non inferiore a cinque anni.

Prima di quel periodo, in caso di recesso dall’impresa sociale o di liquidazione del patrimonio investito, nonché di cessione di quote o partecipazioni nell’impresa sociale, e in generale in tutte le ipotesi di distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione (art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 112/2017), il contribuente decade dallo sgravio e l’importo dedotto o detratto sarà recuperato a tassazione. Sull’imposta non versata per effetto della deduzione non spettante sono dovuti gli interessi legali (art. 18, co. 4 del d.lgs. n. 112/2017).

Si tratta di misure di giustizia fiscale. Ciò in quanto il contribuente, investendo le proprie risorse a favore delle imprese sociali, concorre direttamente alle spese pubbliche in ossequio al principio di capacità contributiva, promuovendo la creazione di nuovi posti di lavoro (e nuovo gettito fiscale e contributivo) e, nel contempo, contribuisce al benessere delle persone e delle loro comunità.

Allo scopo di non determinare una disparità di trattamento tra le imprese sociali costituite in forma societaria e quelle costituite in forma non societaria, gli sgravi de quibus sono previsti per le persone fisiche e per i soggetti Ires, anche nel caso di conferimenti effettuati a favore di imprese sociali costituite in forma di fondazione.

Al contrario, tali benefici non si applicano alle imprese sociali costituite in forma di associazione. L’esclusione, come precisato dalla relazione illustrativa, è giustificata dalla circostanza che “queste ultime hanno con maggiore facilità (stante la base personale che, al pari delle società, le contraddistingue) la possibilità di acquisire per trasformazione la forma societaria qualora intendano avvalersi di capitale di rischio..”. A quel punto, i contribuenti potranno usufruire degli sgravi in esame, in caso di conferimento.

 

 

  1. Esiste uno stretto collegamento tra gli sgravi fiscali riconosciuti dal d.lgs n. 112/2017 alle imprese sociali e lo svolgimento, duraturo nel tempo, delle loro attività, che costituiscono precise funzioni di interesse pubblico generale senza oneri necessari a carico della fiscalità generale.

Per queste ragioni, gli utili delle imprese sociali non hanno una natura pienamente privatistica, poiché essi sono vincolati a una finalità di rilievo costituzionale non solo durante la vita dell’impresa ma anche dopo il suo scioglimento. In conseguenza di questo vincolo pubblicistico, il reddito delle imprese sociali non è posseduto, è sottratto alla disponibilità delle stesse imprese sociali che concorrono direttamente alle spese pubbliche, dal momento che hanno la responsabilità di reinvestire il reddito prodotto in attività di interesse pubblico generale.

Lo sgravio fiscale riconosciuto alle imprese sociali costituisce dunque un atto di giustizia fiscale, trovando il suo fondamento nella differenza di funzione del reddito delle imprese sociali rispetto a quello delle imprese commerciali.

Parimenti, costituisce un atto di giustizia tributaria lo sgravio riconosciuto a chi decide di investire le proprie risorse economiche a favore delle imprese sociali.

In questo modo, si premia chi decide di rischiare il proprio patrimonio risparmiato in modo produttivo, promuovendo la creazione di nuovi posti di lavoro (e nuovo gettito fiscale e contributivo) e, nel contempo, concorrendo al benessere delle persone e delle loro comunità.

In conclusione, il legislatore, senza oneri a carico della finanza pubblica e in ossequio al principio di sussidiarietà, da una parte, riconosce ai contribuenti la funzione diretta di concorrere alle spese pubbliche, attraverso modalità aggiuntive rispetto al pagamento dei tributi, dall’altra, programma la diminuzione del fabbisogno finanziario statale senza violare i principi di generalità e quindi di universalismo cui sono ispirati i programmi di cura e assistenza.

Così facendo, mentre le imprese commerciali finanziano, producendo “ricchezza novella”, anche la funzione distributiva attraverso il prelievo tributario da versare a favore dello Stato e degli altri enti territoriali, le imprese sociali rappresentano, esse stesse, uno strumento di distribuzione del reddito attraverso i risparmi dei contribuenti poi investiti nelle stesse imprese sociali, senza oneri per la finanza pubblica.