Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

23/04/2020 - Non imponibilità dei redditi derivanti dalla dismissione dei beni facenti parte di una "collezione di famiglia"

argomento: IRPEF - Giurisprudenza

La sentenza affronta il caso della dismissione dei beni (in particolare, auto d’epoca) facenti parte di una “collezione di famiglia”, detenuta da alcuni soggetti attraverso una società semplice. I Giudici piemontesi sono arrivati alla condivisibile conclusione della non imponibilità di tali proventi alla luce della accertata non commercialità dell’attività svolta.

» visualizza: il documento (C.T.R. Piemonte, 14 maggio 2019 n. 637/4/19) scarica file

PAROLE CHIAVE: collezionisti - commercialisti - reddito di impresa - redditi diversi - abitualità


di Ernesto Marco Bagarotto

  1. La C.T.R. del Piemonte è stata chiamata a valutare l’imponibilità dei proventi ritratti da una società semplice – costituita tra tre famigliari per «custodire i beni di famiglia e tenerli separati da quelli personali dei soci e delle altre attività imprenditoriali dei medesimi» – grazie all’alienazione di alcune auto d’epoca e da collezione di sua proprietà.

Secondo l’Amministrazione finanziaria, i soci della predetta società semplice avrebbero dovuto dichiarare e tassare “per trasparenza” tali proventi quali redditi diversi, ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. i, del TUIR, vale a dire redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente.

Di converso, i contribuenti hanno contestato le determinazioni dell’Amministrazione finanziaria, sostenendo che l’attività svolta dalla società semplice non potesse qualificarsi come “commerciale” (inoltre, ma si tratta di argomenti che non rilevano ai fini del presente lavoro, era stato contestato: da un lato, il vizio di mancato espletamento del contraddittorio anticipato, vizio che è stato ritenuto non sussistente; e, dall’altro lato, l’ammontare dell’imponibile ripreso a tassazione, argomento poi rimasto assorbito).

Si tratta di un tema particolarmente interessante, considerato che è sempre più frequente che collezioni di vario tipo possano essere cedute da parte di “privati”, grazie anche all’oramai diffuso utilizzo di piattaforme online.

  1. La C.T.R. del Piemonte, nell’affrontare il caso, ha preliminarmente ritenuto pacifico che la società semplice verificata non potesse essere qualificata come imprenditore commerciale, alla luce della carenza dei caratteri di «sistematicità, professionalità ed abitualità nell'esercizio di una attività commerciale».

Dopodiché, la C.T.R. del Piemonte ha evidenziato che la negata natura imprenditoriale della citata società non escludesse la possibilità che i redditi derivanti dalla vendita delle autovetture di sua proprietà potessero assumere rilevanza ai fini impositivi, dovendosi appurare l’applicabilità dell'art. 67, comma 1, lett. i), del TUIR, invocato dall’Amministrazione finanziaria, a mente del quale sono imponibili, come redditi diversi, i redditi prodotti dalle attività commerciali non esercitate abitualmente.

Ebbene, la Commissione ha concluso negando la natura commerciale dell’attività svolta dalla società semplice, non sulla base del dato formale dell’attività indicata nello statuto (dato correttamente ritenuto non dirimente), bensì in considerazione del fatto che le operazioni di vendita sono apparse «uno sbrigativo smobilizzo parziale diretto e finalizzato - non solo senza particolari accentuazioni speculative ma neanche corrispondente ai canoni di una appropriata attività commerciali - alla riduzione delle spese di gestione».

  1. Il caso trattato dalla sentenza è particolarmente delicato, poiché incentrato sull’art. 67, comma 1, lett. i), del TUIR, norma di difficile applicazione, atteso il richiamo alle complesse figure della commercialità e della abitualità.

L’incertezza dell’argomento trattato, peraltro, viene ben testimoniata dalla circostanza che la C.T.R. del Piemonte ha riunito le due controversie promosse dai contribuenti avverso i due avvisi di accertamento emessi per due anni d’imposta, controversie giudicate da due distinti collegi della C.T.P. di Torino con esiti diametralmente opposti.

  1. Orbene, in presenza di operazioni di cessione, ci si deve preliminarmente chiedere se si sia in presenza dello svolgimento di un’attività commerciale ai sensi dell’art. 55 del TUIR, cioè di una attività di cui all’art. 2195 c.c. (tra cui rientra l’attività di intermediazione nella circolazione dei beni) per professione abituale, ancorché non esclusiva e non organizzata in forma d’impresa [sull’esclusione della rilevanza dell’organizzazione vd. FANTOZZI, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell'IVA, Milano, 1982, p. 69 ss. e. G. TABET, Il reddito d’impresa nel quadro delle categorie di reddito, in Tabet (a cura di), Il reddito d’impresa, Padova, 1997, I, p. 17 ss.; V. FICARI, L’impresa commerciale ai fini delle imposte sul reddito: punti fermi, problemi e prospettive, in Riv. dir. trib., 2009, p. 809; SALANITRO G., Le attività occasionali nel sistema delle imposte sui redditi, Catania, 2011]. I concetti di professionalità ed abitualità vengono sovente identificati congiuntamente (G. TINELLI, Il reddito d'impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, p. 79 e G. ZIZZO, I redditi di impresa, in Falsitta G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2013, p. 235, anche se non mancano posizioni in parte divergenti, come quelle di SACCHETTO C., La nozione tributaria di reddito di lavoro autonomo, Milano, 1984, p. 35 e GIOVANNINI A., La nozione di imprenditore, in Tesauro F., Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Imposta sul reddito delle persone fisiche, II, Torino, 1994, p. 459) e ricondotti alla non occasionalità, stabilità e regolarità nel tempo (sul punto vd. anche V. FICARI, Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, part. p. 10 ss.).

Calandosi dall’astratto al concreto, l’individuazione dell’esercizio di una professione abituale può non essere agevole e deve essere effettuato attraverso un’analisi case by case, valutando congiuntamente una serie di elementi sintomatici, quali (con riferimento alle attività intermediarie nella circolazione dei beni) il numero e la distribuzione nel tempo delle operazioni concluse, i valori movimentati, il margine realizzato, i beni impiegati, le caratteristiche del contribuente (sul punto, per esempio, si veda la sentenza della Corte di Cassazione, 20 dicembre 2006, n. 27208, in cui la natura commerciale dell’attività svolta è stata desunta dalla «comprovata  esperienza» del contribuente nel settore e dall’entità delle somme movimentate).

  1. Come anticipato, nel caso di specie la C.T.R. del Piemonte ha escluso lo svolgimento di un’attività commerciale, richiamando sinteticamente l’assenza di «sistematicità, professionalità ed abitualità …».

Una volta escluso di essere innanzi ad un imprenditore commerciale e, conseguentemente, alla produzione di redditi d’impresa, si deve tuttavia valutare a quali condizioni l’art. 67 del TUIR consenta di configurare la realizzazione di redditi diversi.

Come emerge dal testo della norma, condizione necessaria affinché un provento originato dalla cessione di un bene produca un reddito diverso è che questo derivi dall’esercizio, ancorché non abituale, di una attivitàcommerciale (in tal senso vd. anche A. FANTOZZI, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell'IVA, Milano, 1982, p. 196, sia pure con riferimento al testo del previgente art. 77 del D.P.R. n. 597 del 1973, nonché VERDUCCI V., Collezionismo e attività d'impresa, in Riv. dir. trib., 2003, II, p. 297), cioè non di un singolo atto, bensì di un «insieme di atti di diritto privato coordinati o unificati sul piano funzionale dalla unicità dello scopo» (G. AULETTA, Attività: diritto privato (voce), in Enc. dir., Milano, 1958, p. 982).

Una cessione occasionale, pertanto, può essere imponibile (se parte di un’attività) o non imponibile (se estranea ad un’attività).

Ed anche molteplici cessioni potranno non generare redditi imponibili, laddove non siano parte di una attività, fermo restando che l’effettuazione di più operazioni è uno dei principali elementi per desumere l’esistenza di un’attività o, addirittura, di un’attività professionale ed abituale (vd. anche vd. STEVANATO,La vendita frazionata di una collezione d’arte configura una “attività commerciale occasionale”?, in Dialoghi dir. trib, 2004, p. 67).

Ora, la possibilità di ricomprendere una cessione nell’ambito di una attività dovrebbe dipendere dalla sussistenza di un collegamento tra la cessione e gli atti precedentemente posti in essere, vale a dire l’acquisto o eventuali attività di promozione/valorizzazione (in tal senso si veda anche la sentenza della Corte di Cassazione 20 ottobre 2011 n. 21776).

Tale posizione, si badi, porta a risultati convergenti con quelli raggiunti da autorevole dottrina che, valorizzando l’evoluzione del dato legislativo, ha ritenuto che possano considerarsi imponibili le sole cessioni animate dal cd. intento speculativo (G. FALSITTA, Alcune puntualizzazioni in tema di “attività commerciali non abituali”, di operazioni speculative isolate e di “capital gains”, in Rass. trib., 1990, I, p. 93), intento speculativo che si è ritenuto sussistere laddove fosse riscontrabile un «comportamento del venditore logicamente e cronologicamente precedente l’atto di cessione, e strumentale rispetto all’incremento di valore; comportamento che può essere insito nello stesso acquisto, se accompagnato dalla sua preordinazione al conseguimento della plusvalenza, ma può anche tradursi in un’attività successiva, rivolta ad agevolare o potenziare l’incidenza di fattori incrementativi» (Corte di Cassazione, 2 aprile 1996, n. 3078; sul tema dell’intento speculativo vd. anche FALSITTA G., Le plusvalenze nel sistema dell’imposta mobiliare, Milano, 1966; Id., La tassazione delle plusvalenze e delle sopravvenienze nelle imposte sul reddito, Milano, 1986; FEDELE A., Profili dell’imposizione degli incrementi di valore nell’ordinamento tributario italiano, in AA.VV., L’imposizione dei plusvalori patrimoniali, Milano, 1970; FERLAZZO NATOLI L., Le plusvalenze speculative, Milano, 1984; sull’evoluzione della norma, invece, vd. A. VIOTTO, Altri redditi diversi, in Tesauro F., Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Imposta sul reddito delle persone fisiche, II, Torino, 1994, p. 1006 e M. BEGHIN, La capitalizzazione del profitto in beni non esclude l’esercizio dell’attività d’impresa, in Corr. trib., 2008, p. 1612).

Non è tutto: la tesi qui sostenuta è altresì coerente con il richiamo, operato dal combinato disposto degli artt. 55 del TUIR e 2195 cod. civ., alla attività intermediaria nella circolazione dei beni, considerato che una attività pare potersi definire «intermediaria» solo laddove l’acquisto di un bene sia effettuato in vista della (cioè funzionalmente alla) sua successiva vendita. 

  1. Ciò posto, ci si deve chiedere come sia possibile individuare o escludere un legame tra vendita, da una parte, e precedente acquisto (o attività di promozione/valorizzazione), dall’altra parte.

Ebbene, detto legame potrà essere escluso – tra le altre cose – facendo leva: sul lungo periodo di tempo trascorso tra l’acquisto e la vendita; sulla bassa frequenza delle operazioni concluse; sul fatto che i beni ceduti siano stati acquisiti attraverso successione o donazione; sul conseguimento di prezzi inferiori a quelli di mercato; sulla finalità della vendita, per esempio perché conclusa per far fronte ad un periodo di fabbisogno finanziario; sulla circostanza che, nel periodo temporale anteriore alla cessione, i beni ceduti siano stati utilizzati direttamente (in tal senso vd. BAGAROTTO, Regime tributario della cessione di opere d’arte, in Rass. trib., 2019, p. 290).

Tant’è che la giurisprudenza di merito ha negato l’imponibilità, per esempio, delle vendite di opere d’arte sistematicamente al di sotto dei valori di mercato in un periodo di carenza di liquidità (C.T.R. Venezia 22 febbraio 2016, n. 279); della cessione ad una casa d’asta di monete antiche «possedute da molto tempo e che costituivano quindi un suo patrimonio mobiliare, delle quali aveva deciso una tantum di privarsene, al solo scopo di variare la sua collezione» (C.T. I grado Venezia, 2 giugno 1994, n. 323); della dismissione di una collezione di opere acquistate in una «ottica amatoriale» nel corso di quarant’anni (C.T.R. Piemonte 18 settembre 2018, n. 1412/3/18).

  1. Alla luce di quanto testé evidenziato – pur non essendo chiari, poiché non illustrati nella parte motiva della sentenza, quali siano i concreti elementi di fatto valutati dalla C.T.R. del Piemonte – si può concludere che la sentenza in commento è condivisibile laddove ha negato l’imponibilità delle somme conseguite dalla società semplice per effetto della vendita di auto d’epoca, valorizzando la circostanza che tale vendita sia consistita in uno «sbrigativo smobilizzo» posto in essere «senza particolari accentuazioni speculative» al fine di ridurre le spese di gestione.

Si tratta, infatti, di elementi che dovrebbero spingere a negare che le cessioni siano state fatte nell’ambito di un’attività o, detta in altri termini, che siano state effettuate con intento speculativo.